0. introduzione


PROBLEMI DELLA SIMBOLIZZAZIONE



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4. PROBLEMI DELLA SIMBOLIZZAZIONE.

Il problema della distinzione tra segni e simboli ha costituito l'orizzonte principale delle nostre precedenti discussioni. Esse ci sono servite per avanzare alcune riserve a proposito del modo in cui la tradizione strutturale in linguistica e in semiotica ha trattato la questione. Abbiamo criticato in particolare la soluzione apportata da Hjelmslev per la ragione che egli è stato l'autore che ha suggerito il criterio più efficace, dal punto di vista teorico, per stabilire l'appartenenza di una unità di significazione all'uno o all'altro dei due campi.

Nel dire che il criterio hjelmsleviano è il più efficace teoricamente intendo sottolineare il fatto che questo criterio si presenta come interno alla teoria linguistica e che poggia esclusivamente su concetti interdefiniti nel metalinguaggio scientifico. Michel Arrivé lo dice molto bene alla voce "Symbole" del secondo volume di Sémiotique:

"L'articulation entre Saussure et Hjelmslev se situe en ce que le 'lien naturel' qui, dans le Cours de Linguistique Générale, unit les deux faces du symbole, est interprété, dans les Prolégomènes, comme la 'conformité' entre les deux plans." (Greimas e Courtés 1986 p. 216).

Il criterio di conformità rende operativa per la teoria una nozione di "motivazione" che, da sola, può fondarsi esclusivamente su una presa in considerazione del referente. Hjelmslev sarebbe riuscito allora a espungere, grazie alla sua articolazione della funzione semiotica sulla relazione tra due forme, quella che egli chiama "sostanza", vale a dire il corrispettivo del referente saussuriano, del suo "rapporto razionale con la cosa significata"46.

Ma abbiamo criticato la soluzione hjelmsleviana per le ragioni che sarà bene ricordare sinteticamente:

i) se la nozione saussuriana di simbolo ci fa ben comprendere a cosa stava pensando l'autore quando tentava di prendere le distanze da questi "segni motivati", il simbolo hjelmsleviano è parso piuttosto inconsistente o, meglio, inesistente. Il criterio addotto da Hjelmslev per decidere della non-semioticità di un sistema, respinge in realtà al di fuori della semiotica propriamente detta qualunque elemento non significante, ciò che, per principio e in generale, non costituisce certo problema. Il punto debole della soluzione hjelmsleviana abita, a mio parere, la nozione di "sistema interpretabile e non-significante". Ho tentato di mostrare che l'interpretabilità presuppone una forma del contenuto e che, dal momento in cui si prende in considerazione la forma del contenuto, questa immediatamente si sviluppa in tali reti di relazioni che parlare di conformità tra piani diventa di fatto impossibile;

ii) segni, simboli e loro interpretazioni si situano sempre al livello della manifestazione, cioè sul versante dell'uso. Ora, o si tenta di integrare la problematica dell'uso alla teoria semiotica, o allora tutta la discussione diventa inoperante e gratuita. La teoria semiotica in ogni caso, per rispettare la propria vocazione scientifica, si colloca necessariamente nell'immanenza; il suo oggetto scientifico è precisamente la forma immanente, situata al di qua dei segni e dei simboli intesi come unità di manifestazione. Ho tentato di mostrare che gli esempi di simboli addotti da Hjelmslev e dai suoi eredi potevano in realtà articolarsi in figure, cioè in unità soggiacenti e che erano proprio queste l'oggetto specifico dell'analisi semiotica;

iii) la semiotica strutturale di Greimas, avendo elaborato un simulacro della produzione del senso quale il Percorso Generativo, ha imboccato una strada inedita che abbandona di fatto la problematica hjelmsleviana dei "sistemi di simboli", mettendosi nelle condizioni di ricomprendere al proprio interno, cioè nell'immanenza, la questione più generale dell'interpretazione.

E' dunque a partire da queste acquisizioni che ci volgiamo ora verso la "simbolizzazione" per cercare di mettere in luce il ruolo che essa è chiamata a svolgere nell'insieme della teoria. Lasciamo allora da parte i simboli per avvicinarci all'istanza della loro produzione. Per farlo cominceremo col prendere in considerazione le poche proposte già avanzate dai semiologi negli altrettanto pochi interventi a riguardo, per vedere così se una "simbolizzazione propriamente detta" va definendosi o se, al contrario, questa nozione è destinata a permanere in uno stato di indeterminazione al contempo intuitiva e problematica.


4.1. - La simbolizzazione come uso.

Le teorie semiotiche cosiddette "interpretative", quelle che fanno dell'interpretazione un fondamento pragmatico della significazione, come quella di U. Eco, per esempio, che si riconosce nella tradizione peirceana e pragmatista, hanno una teoria della simbolizzazione. Se ho fatto il nome di Eco, in effetti, è proprio perchè egli ha prodotto uno sforzo considerevole di sistematizzazione sull'insieme delle idee e delle tendenze riguardanti la nozione di simbolo e - è la ragione per cui ne discutiamo nel presente capitolo - dopo una rassegna molto fine delle nozioni di simbolo più diffuse e influenti, egli perviene ad una critica molto convincente del simbolo quale unità discernibile e definibile in sé, ed è condotto a mettere a punto una nozione di diverso tipo per rendere conto in modo operativo dello stesso genere di fenomeni.

La sua idea è che, poichè segni e simboli sono indistinguibili per una teoria semiotica di tipo interpretativo, inferenziale e abduttivo, necessità vuole che ci si orienti verso una problematica della "produzione segnica" intesa come "pratica semiosica", e dunque verso il problema dell'uso che gli attori della semiosi fanno delle potenzialità dei codici semiotici.

Il suo esame delle varie teorie del simbolo mostra in modo assolutamente illuminante il fatto che nel corso della storia del concetto nulla permane saldo e certo, salvo una sorta di efficacia comunicativa particolare che Eco tenta di mettere a fuoco utilizzando la nozione di "modo simbolico". Di questa fornisce due definizioni:

"[...] ci sono indubbiamente esperienze semiotiche intraducibili, dove l'espressione viene correlata (sia dall'emittente sia da una decisione del destinatario) a una nebulosa di contenuto, vale a dire a una serie di proprietà che si riferiscono a campi diversi e difficilmente strutturabili di una data enciclopedia culturale: così che ciascuno può reagire di fronte all'espressione riempiendola delle proprietà che più gli aggradano, senza che alcuna regola semantica possa prescrivere le modalità della retta interpretazione. E' questo il tipo di uso dei segni che si è deciso di chiamare modo simbolico [...]" (Eco 1984, p. 225).

La seconda definizione appare, dopo altre discussioni, alla fine del saggio:

"Il modo simbolico è dunque un procedimento non necessariamente di produzione ma comunque e sempre di uso del testo, che può essere applicato a ogni testo e a ogni tipo di segno, attraverso una decisione pragmatica ('voglio interpretare simbolicamente') che produce a livello semantico una nuova funzione segnica, associando ad espressioni già dotate di contenuto codificato nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario. Caratteristica del modo simbolico è che, qualora ci si astenga dall'attuarlo, il testo rimane dotato di un senso indipendente a livello letterale e figurativo (retorico)." (ivi, pp. 253-254).

Vorrei fermarmi su queste definizioni perchè le ritengo indicative di ciò che capita quando il problema della simbolizzazione viene posto, senz'altra specificazione, sul piano dell'uso. Ci troviamo di fronte a un problema molto generale che è appunto quello del ruolo che deve svolgere la nozione di uso per la teoria semiotica. Per una teoria "a vocazione scientifica", come ha ben mostrato Hjelmslev, il trasferimento di una questione teorica verso il terreno dell'uso corrisponde alla sua perdita per la teoria stessa. Il problema esce dal campo propriamente teorico (scientifico) per aggiungersi alle innumerevoli questioni che assillano un pensiero filosofico e speculativo. Il fatto è che non si hanno più a disposizione strumenti per giudicare del funzionamento propriamente semiotico di un fenomeno. Ora, sarebbe un errore voler rimproverare a Eco questa presa di posizione, dato che egli concepisce in maniera assolutamente esplicita il progetto semiotico come rilevante per una problematica filosofica generale e, inoltre, in modo altrettanto esplicito, egli condivide l'idea che si debba in un modo o nell'altro dotarsi dei mezzi per rendere conto semioticamente di quei fenomeni che vengono abitualmente riversati nel campo sfumato delle idiosincrasie interpretative. E' infatti proprio su questo terreno che un confronto con Eco acquista maggiore interesse anche per una semiotica di diverso tipo: non c'è teoria del linguaggio contemporanea che non senta il bisogno di mettersi in grado di affrontare fenomeni di senso quali quelli legati al simbolismo, alla produttività interpretativa, alle trasformazioni cognitive della soggettività semiosica. D'altra parte non è vero, come vedremo subito, che Eco non si preoccupi di stabilire un criterio semiotico (quello del tipo di ratio che sorregge la funzione semiotica) per indagare i fenomeni di simbolizzazione.

Ma un'ulteriore ragione di interesse per prendere in considerazione le sue argomentazioni dipende dal fatto che esse possono mostrare, agli occhi di un semiologo strutturalista che non intende rinunciare del tutto ai criteri di scientificità stabiliti da Hjelmslev, una certa soglia della ricerca semiotica. Questa soglia è a mio parere quella costituita dall'intervento del reale al livello più superficiale del percorso immanente, vale a dire appunto quello della testualizzazione e della semiosi. E' come se la semiotica fosse riuscita a farsi strada tra due tendenze sempre operanti, riguardanti entrambe, l'una in superficie e l'altra in profondità, una istanza di realtà e di sostanzialità. Vedremo nei prossimi paragrafi a cosa può corrispondere la tendenza "profonda"; per il momento ci troviamo di fronte alla realtà come semiosi, come uso che manifesta la significazione per gli attori della comunicazione.

Nel primo passaggio di Eco che ho citato vi è un certo numero di proposizioni che costituiscono un vero e proprio problema per una semiotica "a vocazione scientifica". Prima di tutto la nozione di "nebulosa di contenuto" che rinvia a un carattere generale di quella che Eco chiama "enciclopedia". In effetti, più che a una delle realizzazioni possibili dell'enciclopedia, si direbbe la meno strutturata, la nebulosa di contenuto o "serie di proprietà che si riferiscono a campi diversi e difficilmente strutturabili di una data enciclopedia culturale", corrisponde a una delle caratteristiche più importanti della nozione stessa di enciclopedia. E' l'enciclopedia stessa, quale Eco la concepisce, che, nel suo insieme, è difficilmente strutturabile se non in virtù di epifenomeni locali, dato che la sua organizzazione è pensata secondo il modello del rizoma, vale a dire secondo il modello meno strutturato tra le varie forme di organizzazione possibili. In secondo luogo è precisamente una delle sue caratteristiche il fatto che i rinvii di significato che vi si operano possono mettere in relazione tra loro, tramite le proprietà attribuite o riconosciute, elementi che appartengono a campi molto diversi dell'universo semantico o dell'universo dell'esperienza.

Dato che l'enciclopedia è per Eco il modello semantico generale, ciò che avviene quando un destinatario decide di "interpretare simbolicamente" pone un problema molto delicato, quello di trattare semioticamente tale decisione. Ora, i criteri per decidere della decisione, per riconoscerla in quanto simbolica, dovrebbero essere semantici, o quantomeno pragmatici ma con valenza semantica. Intendo dire che dovremmo trovare un criterio che ci permetta di identificare un percorso semantico nell'enciclopedia di tipo specifico cui applicare la categoria di "modo simbolico". Una decisione pragmatica non costituisce un tale criterio perchè, dal punto di vista esclusivamente pragmatico, possiamo solo identificare una decisione, non quella decisione. Come dicevo, appunto, la pragmatica deve avere un effetto semantico, altrimenti diventa ininfluente per la comprensione di quale percorso si è deciso di realizzare all'interno degli infiniti possibili messi a disposizione dalla struttura rizomatica dell'universo semantico. Il criterio semantico proposto da Eco per il modo simbolico è quello rappresentato dalla "nebulosità" del contenuto, quello semiotico dall'instaurazione di una funzione segnica tramite ratio difficilis. Prima di vedere come Eco definisce la ratio difficilis, fermiamoci a considerare il problema del criterio semantico. Le difficoltà che esso solleva riguardano la questione di sapere come distinguere, tra i percorsi che si possono tracciare all'interno dell'enciclopedia, tra interpretazione di un testo e uso indiscriminato dello stesso. Eco ammette che ogni interpretazione è, abduttivamente, una scommessa, ma ritiene anche che l'enciclopedia stessa debba funzionare da sistema regolativo delle interpretazioni possibili. Ora, gli elementi che consentono all'enciclopedia di funzionare da regolatore sono habits depositati in una competenza semantica diffusa cui il parlante o l'interprete può attingere sulla base della propria partecipazione a un contesto sociale e culturale determinato. Ma questi habits, questi elementi o porzioni del contenuto dell'enciclopedia, non possono essere determinati che a posteriori, a partire dalle interpretazioni effettive che si prendono in esame e difficilmente potranno fungere da criteri regolativi, se non nel senso normativo del termine. Eco fa questo esempio:

"Non si può decidere di usare Omero come descrizione della struttura dell'atomo, perchè la nozione moderna di atomo era indubbiamente estranea all'enciclopedia omerica: ogni lettura omerica in tal senso sarebbe liberamente allegorica (o simbolica [...]) e potrebbe essere revocata in dubbio." (ivi, pp. 110-111).

In realtà, e Eco lo riconoscerebbe senza esitazioni in altro contesto, si può decidere di usare Omero in quel senso; ma laddove egli sostiene che sia un'operazione illegittima, solleva in realtà un problema di accettabilità socio-culturale di una simile interpretazione che è di pertinenza tanto pragmatica da risultare scarsamente efficace sul piano più propriamente semantico, solo che si voglia dotarsi, come Eco stesso fa, di un modello non rigido e ristretto per una semantica "a interpretanti". In altri termini, il problema centrale di pertinenza della semiotica mi pare debba essere quello di spiegare come sia possibile interpretare Omero "simbolicamente", di fornire una grammatica dell'enciclopedia in grado di definire dei percorsi possibili o di indicare anche delle impossibilità, ma di ordine non sostanziale, non relative all'ammissibilità dei significati, ma alla loro capacità formale di assumere valore di interpretante per una data occorrenza segnica.

Come ho già detto, Eco avanza un criterio semiotico per la definizione e il riconoscimento del modo simbolico: è quello della ratio difficilis. Cos'è la ratio difficilis? Scrive Eco ne "Il modo simbolico":

"Secondo la tipologia dei modi di produzione segnica [...], il modo simbolico presuppone sempre e comunque un processo di invenzione applicato a un riconoscimento. Trovo un elemento che potrebbe assumere o già ha assunto funzione segnica (una traccia, la replica di una unità combinatoria, una stilizzazione ...) e decido di vederla come la proiezione (la realizzazione delle stesse proprietà per ratio difficilis) di una porzione sufficientemente imprecisa di contenuto." (1984, p. 252).

Nel Trattato di semiotica generale Eco definisce nel seguente modo la ratio facilis e la ratio difficilis:

"Si ha ratio facilis quando una occorrenza espressiva si accorda al proprio tipo espressivo, quale è stato istituzionalizzato da un sistema dell'espressione e - come tale - previsto dal codice.

Si ha ratio difficilis quando un'occorrenza espressiva è direttamente accordata al proprio contenuto, sia perchè non esiste tipo espressivo preformato, sia perchè il tipo espressivo è già identico al tipo di contenuto. In altre parole si ha ratio difficilis quando il tipo espressivo coincide con il semema veicolato dall'occorrenza espressiva." (1975, p. 246).

Dato che la ratio è l'equivalente della funzione di selezione tra uso e schema in Hjelmslev, è evidente che, nel caso della ratio difficilis, non è possibile stabilire lo schema senza passare attraverso un'istanza di produzione semiosica che riguarda l'uso. E' quello che nei termini di Eco costituisce il rapporto tra "occorrenze" e "tipi".

Ora, proprio qui sta l'importanza della posizione di Eco: si tratta della riabilitazione dell'uso e del tentativo di farne un terreno praticabile per l'analisi dei fenomeni semiotici. L'idea di ratio è già un'idea relativa all'uso. Ma, appunto, si tratta allora di vedere se ciò che se ne dice ha un effettivo valore semiotico. Purtroppo il problema non è di decidibilità intrinseca, perchè dipende da scelte di fondo quanto alla epistemologia semiotica generale. Proviamo a formularne i termini nel modo seguente: o si decide che il terreno dello schema hjelmsleviano, quello della langue o del codice, non è il solo terreno pertinente per lo studio semiotico e che anche considerazioni extra-schematiche, relative alla parole e alla produzione segnica, diventano rilevanti per lo sviluppo dell'intelligibilità semiotica dei fenomeni (ed è la posizione esplicita di Eco che include infatti la presa in considerazione degli aspetti pragmatici della semiosi), o al contrario si pensa che il trattamento dei fenomeni d'uso imponga un riassetto della teoria tale da riservare un posto per loro all'interno dello schema, che insomma si debba estendere la langue fino ad includervi i fenomeni di parole in vista di una loro descrizione strutturale e "scientifica".

Le due strade sono legittime e percorribili, ma può forse valere la pena di tentare di mostrare quali sono i limiti della posizione pragmaticista dal punto di vista di una teoria semiotica strutturale di tradizione hjelmsleviana. L'obiezione principale consiste nel mettere in rilievo il fatto che la pragmatica è una disciplina spuria e intrinsecamente normativa. Secondo questa obiezione il trattamento dei fenomeni di "simbolizzazione" da parte di un semiologo come Eco non può sfuggire al rischio di immettere nell'indagine dei criteri valutativi esterni difficilmente controllabili dal punto di vista teorico; non si può fare altro che riferirsi a dei criteri extra-semiotici di un qualunque tipo, siano essi di provenienza sociologica, psicologica, filosofica o altro, per riconoscere una decisione interpretativa come quella particolare decisione di "interpretare simbolicamente", giacchè, va detto, il criterio semiotico della ratio difficilis non è esclusivo dell'interpretazione secondo il modo simbolico, ma vale anche per la spiegazione di fenomeni interpretativi legati al funzionamento "legittimo" della produzione segnica, quale è il caso di impronte, vettori o invenzioni, per esempio 47.

E' da notare che il carattere "di principio" di una simile obiezione si mostra nel fatto che è estremamente difficile condurre una critica nel merito delle categorie allestite da Eco e che abbiamo già ricordato, in particolare quelle di "nebulosa di contenuto" e di "ratio difficilis", giacché esse in realtà spiegano davvero il funzionamento semiosico dei fenomeni di simbolizzazione. E tuttavia, per principio, appunto, esse sono categorie rispettivamente semantiche (la nebulosa di contenuto) e pragmatiche (l'attività di produzione segnica secondo determinate rationes) e, dal punto di vista strutturale, non-semiotiche. Esse mostrano quelli che per una semiotica "a vocazione scientifica" sono e restano effetti di superficie, quelli che il Percorso Generativo considera come il prodotto più superficiale delle procedure di testualizzazione. Altrimenti detto, i criteri strettamente semantici riguardano il piano del contenuto realizzato nei significati dei segni, riguardano il livello manifestato dei contenuti segnici e non toccano quella che abbiamo più sopra chiamato la "verticalizzazione" generativa dei fenomeni di significazione; così i criteri di ordine pragmatico riguardano il comportamento di attori della comunicazione anziché la logica semiotica degli attanti dell'enunciazione. In altri termini ancora, e per riprendere i temi del nostro primo capitolo, semantica e pragmatica della semiosi perseguono le condizioni empiriche di produzione della significazione, anziché le sue condizioni trascendentali di descrivibilità e di intelligibilità.

Un problema che in questo quadro emerge in primo piano concerne il soggetto della decisione interpretativa di tipo simbolico. A cosa si pensa quando si evoca una "decisione del destinatario"? E' costui un attante dell'enunciazione o il soggetto delle inferenze semiosiche? E, in questo caso, abbiamo davvero i mezzi per decidere dei suoi comportamenti semiotici? Eco risponderebbe positivamente a quest'ultima domanda, ma, ancora una volta, i suoi non potrebbero che essere criteri pragmatici. E ciò necessariamente, perchè, dal punto di vista del sistema, presentandosi esso sotto forma di enciclopedia, le varie interpretazioni di occorrenze espressive non possono che essere equivalenti. Non lo saranno dal punto di vista semantico e pragmatico, ma sì dal punto di vista strettamente semiotico. La langue, nella sua struttura rizomatica, non può che "comprendere" e contenere qualsivoglia percorso che si compia al suo interno. Ciò che viene a mancare, allora, è la possibilità di descrizione sistematica di questa capacità di contenimento, nel senso che non si danno ragioni teoriche e intrinseche per la limitazione dell'arbitrario interpretativo.

La cosa più interessante in questa posizione è il fatto che ciò che si dice del modo simbolico tende a confondersi con ciò che si può dire della semiosi in generale e che ciò che costituisce la sua specificità non è altro in fondo che la dichiarazione, possibilmente esplicita, di "voler interpretare simbolicamente". Ora, questo "simbolicamente" sembra doversi definire prevalentemente su ciò che una tradizione ben influente ci dice essere la specificità del simbolo: segno "aperto", segno "efficace", segno "possibile", ecc., proprio perchè il criterio semiotico della ratio difficilis non è di per sé sufficiente né esclusivo.

Guardando le cose più da vicino, è possibile trovare le ragioni per rievocare un problema discusso più sopra a proposito di una delle concezioni dell'interpretazione. Si tratta del fatto che, quando il movimento di attribuzione di senso diventa così ricco e a volte inestinguibile come nel modo simbolico, si interpreta questa attribuzione, questa interpretazione, come un riempimento, come l'attribuzione di contenuto a una forma che ne sarebbe sprovvista: "ciascuno può reagire di fronte all'espressione riempiendola delle proprietà che più gli aggradano" o "una nuova funzione segnica, associando ad espressioni già dotate di contenuto codificato nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario" (entrambi già citati).

In realtà la terminologia qui è abbastanza hjelmsleviana perchè si sia condotti, da una parte, a pensare ai problemi della connotazione e, dall'altra, a un arbitrario segnico che, più che quello della presupposizione reciproca tra due forme, sembra essere quello della selezione operata sulla forma dalla scelta sostanziale dell'uso. Ora l'uso è chiamato a riempire, in modo sostanziale, una forma che, per quanto non necessariamente vuota denotativamente, lo risulta tuttavia per un interprete un po' più interpretante.

Intendiamoci, Eco si appoggia a delle concezioni molto più consistenti che questo arbitrario generico che abbiamo criticato. Egli fa riferimento in particolare alla pragmatica conversazionale e soprattutto alle regole o massime conversazionali di Grice48 per spiegare le ragioni della decisione simbolica del destinatario o, che è la stessa cosa, il modo in cui l'emittente può provocarla. Tuttavia, anche quando ci si appoggia alle ricerche pragmatiche contemporanee, non si ha ancora per questo oltrepassato la soglia che separa una fenomenologia dei comportamenti da una logica semiotica dell'azione. Il modo simbolico resta molto più un tipo di "utilizzo" dei segni che una strategia enunciativa, più un uso particolare che una modalità di funzionamento della significazione.


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