Come abbiamo già notato a proposito dell'interpretazione e del simbolo, si avvera una convergenza tra arbitrario logicista e arbitrarietà decisionale anche sul versante della simbolizzazione. Inoltre il "modo simbolico" di Eco reintroduce una problematica particolare che è quella dell'articolazione tra arbitrarietà e motivazione. Le concezioni tradizionali del simbolo oscillano costantemente tra questi due aspetti della questione: dobbiamo considerare il simbolo come il segno più arbitrario o come il segno più motivato? Ora, ben al di là della contrapposizione di queste due istanze, vale forse la pena di notare che, allorquando si "simbolizza", esse si sostengono l'un l'altra. In effetti è necessario che dell'arbitrario venga introdotto perchè il simbolo possa far lavorare tutta la sua strumentazione analogica e motivante.
Il caso più evidente è certo quello della simbolizzazione logico-formale, dove, l'abbiamo visto nel precedente capitolo, i rapporti di conformità non possono prendere l'avvio altro che da una convenzione stipulata, poco importa se esplicitamente o sotto forme di regole apparentemente "naturali", ma altrettanto si può dire per la "decisione idiosincratica del destinatario", produttrice di un arbitrario di fatto, una sorta di convenzione stipulata localmente tra sé e sé, che consente la proliferazione di un apparato immaginario il cui motore, in fondo e anche per Eco, è costituito da un pensiero analogico e iconico.
Questa sorta di "arbitrario necessario" è operante in modo analogo anche nelle prime pagine de "La stratification du langage" di Hjelmslev. L'abbiamo già notato, ma in quell'occasione abbiamo solo sottolineato l'importanza del verbo "simbolizzare" per la comprensione di quella che avevamo chiamato "una terminologia un po' vaga". Ma in che cosa consisteva, più precisamente, questa "simbolizzazione" utilizzata da Hjelmslev nel suo saggio? Coerentemente con la sua idea che i simboli costruiti di un metalinguaggio scientifico non sono altro che sistemi monoplani interpretabili, Hjelmslev avanza un certo numero di considerazioni relative all'utilità di tali simboli e la simbolizzazione che egli propone consiste nello stabilire una convenzione con l'accordo del suo interlocutore. Per la semiotica strutturale e generativa si tratta di una vera e propria "proposta di contratto" tra attanti dell'enunciazione, ma per Hjelmslev ciò non può che corrispondere all'introduzione di un arbitrario che è nello stesso tempo proprio dell'uso e per un buon uso del linguaggio. Se per la semiotica contemporanea si tratta di un contratto tra attanti dell'enuncazione, per Hjelmslev stesso non può trattarsi d'altro che di una decisione arbitraria tra attori della comunicazione reale, aritrarietà che produce una convenzione ad hoc per gli scopi di una data scrittura scientifica.
La motivazione, che Hjelmslev traduce in termini di conformità tra piani del linguaggio, può allora svilupparsi liberamente e funzionare da procedimento di base della significazione, o pseudo-significazione, simbolica.
Da questo punto di vista le posizioni di Hjelmslev e di Eco non sono così lontane: quello che per Hjelmslev è la "conformità tra piani", condizione sufficiente perchè la commutazione risulti ininteressante - data la corrispondenza termine a termine degli elementi riconoscibili sui due piani - equivale al concetto di "ratio difficilis" in Eco. Ma, appunto, è la nozione di ratio difficilis che è chiamata a rendere conto dei fenomeni di motivazione e in particolare dei fenomeni di invenzione o istituzione di codice. In questo modo è la funzione semiotica che, nel caso del "modo simbolico" risulta retta da una relazione di conformità o, nella terminologia di Eco, da una proiezione sul continuum dell'espressione dei tratti pertinenti riconosciuti sul piano del contenuto. Questa proiezione viene compiuta da un attore della comunicazione, da un usager, emettente o ricevente, dotato di una competenza all'uso, di una competenza "pragmatica".
L'arbitrario che regge la simbolizzazione logicista in Hjelmslev non è meno idiosincratico di quello che regge il modo simbolico in Eco. Il problema non è tanto quello di sapere quanti attori possono condividere questa competenza: al limite, e per dei segni fortemente "motivati", non c'è nessun tetto massimo per il numero di attori capaci di comunicare; il problema vero è evidentemente un altro, e precisamente quello della possibilità di trattare in modo semiotico-strutturale i fenomeni di uso. Su questo Eco e Hjelmslev si allontanano: se il primo è pronto a ridiscutere le pretese semiotiche di scientificità, preferendo teorie esplicative di provenienza filosofica, Hjelmslev tenta di compiere un salto per giungere a un terreno di scientificità metasemiotica liberato, grazie alla simbolizzazione, dalle costrizioni imposte dal medium linguistico, o meglio, e più in generale, dalla significatività semiotica del linguaggio. Per quest'ultimo al di là della simbolizzazione si apre uno spazio dove il pensiero scientifico può esercitarsi in una sorta di agio, dove il sistema del contenuto diventa dominante, via motivazione, rispetto alle trasformazioni operate su una sostanza dell'espressione posta arbitrariamente per mezzo di un contratto. La funzione semiotica in quanto forma, dopo aver subito una neutralizzazione grazie alla conformità dei simboli, rende all'uso la libertà di imporre alla Forma, allo schema, le proprie esigenze conoscitive, i propri criteri di scientificità. La "formalizzazione" risulta allora la proiezione dei tratti pertinenti del contenuto su una sostanza dell'espressione senza che si renda necessario passare per una sua specifica formatività. La "conformizzazione", l'effetto di conformità, è dunque un risultato dell'operazione di simbolizzazione, anziché una sua condizione. Se la significazione resta esclusa, programmaticamente, da questo terreno, ciò che viene a occuparne il centro è una nozione di interpretazione nel senso di un riempimento, dovuto all'uso, di una "forma vuota" da parte di un contenuto arbitrariamente deciso.
Sotto questo punto di vista, la posizione di Eco appare assai più consapevole: è evidente in essa l'assunzione, di matrice direttamente peirceana, dell'impossibilità di uscire, per qualunque metalinguaggio, dal campo della significazione, da quel campo di rimandi interpretativi da segno a segno che fanno della semiosi un processo aperto ma senza scorciatoie.
Spostati come ci siamo sul versante dell'uso, ci ritroviamo insomma nell'impossibilità di trattare semioticamente i fenomeni della simbolizzazione. Le due concezioni che abbiamo richiamato ci conducono entrambe su un terreno che l'epistemologia strutturale considera estraneo all'esercizio scientifico. Per Eco la simbolizzazione non riguarda il codice, la significazione, bensì problemi di uso testuale di competenza pragmatica e tutte le difficoltà provengono dall'esigenza semiotica, che Eco non giunge a sopprimere del tutto, di tracciare comunque dei limiti tra ciò che è semiotico - nel senso di una convenzione culturale - e ciò che è patologico - nel senso delle interpretazioni cosiddette "aberranti". E' proprio qui, attorno a queste frontiere difficili da stabilire, che il reale extra-semiotico rifà la sua comparsa sotto forma di una patologia della comunicazione che può ad ogni istante amplificare senza limiti la libertà di utilizzo dei segni e dei testi.
Per Hjelmslev, al contrario, la simbolizzazione rende possibile un uso "non significante", un "uso puro" che fa da pendant alla "pura algebra", espressione svuotata di ogni contenuto intrinseco. Siamo nel campo dei non-linguaggi, appunto, al di fuori della significazione propriamente semiotica. Ancora una volta una sorta di reale fa la sua apparizione, ma si tratta in questo caso della sostanza che domina, anziché selezionare, la forma dell'espressione: il discorso scientifico è in grado di giungere al suo oggetto per via diretta. In questo caso non è difficile identificare l'anima di una tale posizione: è il mito neo-positivista dell'epurazione del linguaggio da tutte le sue ambiguità e le sue costrizioni; poiché il linguaggio è un cattivo filtro, occorre oltrepassare i suoi limiti, la sua semioticità, perchè si avveri possibile il "parlare della cosa", anche se questa cosa è, per un linguista, la forma semiotica colta nell'immanenza. E' questa sostanza del contenuto, questa semantica ideale in qualche modo liberata, che fa qui funzione di reale.
Che la simbolizzazione sia un'interpretazione strana, o deviante, o supplementare, o che sia un'interpretazione regolata da una qualche convenzione ad hoc, essa sembra dover restare comunque un modo non-semiotico di usare segni o oggetti del mondo. A tali oggetti, coloro che usano la significazione possono certo associare con l'interpretazione qualunque sostanza del contenuto, ma questa rimane una problematica extra-semiotica perchè nessuno schema vi è riconoscibile; tutt'al più vi si potranno reperire delle regolarità nell'uso (le norme di Hjelmslev o gli habits di Peirce e Eco) di cui potrà valere la pena tentare di rendere conto, ma senza pretese di scientificità perchè ci è impedita in questo caso qualunque oggettività strutturale.
4.2. - La soggettivazione.
Faremo ora una breve incursione in un campo che ci riguarda solo indirettamente. Si tratta tuttavia di un insieme di questioni che premono, da qualche anno a questa parte, per ottenere il diritto ad un confronto teorico con la semiotica strutturale e che hanno mostrato, se pure ve n'era bisogno, di essere capaci di radicarsi in strati molto profondi e decisivi della costruzione teorica. Non possiamo esimerci dal prenderle in considerazione e questo per due ragioni almeno. Una è costituita dalla loro importanza, per così dire, effettiva: non credo si possa dubitare del fatto che il problema dei rapporti tra semiotica e psicanalisi, semiotica e biologia, o tra semiotica e antropologia, per esempio, è un problema effettivamente aperto. Difficile evitare il confronto o procastinarlo ulteriormente, anche se tutte le riserve e le precauzioni restano certamente legittime. L'altra ragione è che i problemi che intendo trattare sotto il titolo di "soggettivazione" sono strettamente legati ad alcune nozioni chiave per una discussione sul tipo di razionalità espresso dalla ricerca semiotica strutturale: sono, in parte, le nozioni di cui abbiamo discusso nei precedenti paragrafi, in parte concetti e termini, o anche veri e propri campi di indagine, come quelli che vanno sotto il nome di "competenza", di "esistenza modale" o anche di "passione", che necessariamente incontreremo nel seguito dell'indagine.
Farò riferimento soprattutto a due autori che hanno recentemente posto il problema nella maniera più convincente, anche se partendo da presupposti molto diversi tra loro. Penso in particolare a Jean Petitot e a Herman Parret. Va detto subito che, se la soggettivazione è una problematica che, nei termini che vedremo, occupa sicuramente una posizione centrale nelle proposte teoriche dei due autori, molto più debole e sfumata appare una problematica esplicita della simbolizzazione. In Petitot si tratterà di chiarire dove e come i due termini vengono associati; in Parret si tratterà piuttosto, da parte nostra, di ricostruire questa parentela, giacché il legame non viene altrettanto esplicitato.
4.2.1. - La soggettivazione in Petitot.
Nella ormai vasta produzione teorica di Petitot occorre trovare un punto di partenza. Per farlo scelgo un articolo che riveste ai miei occhi un'importanza particolare, sia perchè costituisce un buon sunto delle sue posizioni riguardo la fondazione metateorica del progetto semiotico nel suo insieme, sia perchè rappresenta un confronto diretto e molto accurato con l'opera di Greimas, apparso com'è in una raccolta di omaggi dedicati a quest'ultimo in occasione del suo congedo dall'insegnamento. Si tratta de "Les deux indicibles, ou la sémiotique face à l'imaginaire comme chair"49.
In questo articolo Petitot evoca due volte la problematica della simbolizzazione, in due modi leggermente diversi. La prima riguarda una simbolizzazione nel senso più generale e "metapsicologico" del termine, vale a dire nel senso di una conversione di quell'indicibile che è l'immaginario in significati assunti da parte del soggetto. La seconda corrisponde ad una problematica più tecnica e di dettaglio, per quanto, nel quadro teorico proposto da Petitot, essa risulti del tutto inerente alla prima: si tratta della cosiddetta "conversione figurativa" delle pregnanze timiche. E' dunque, se capisco correttamente, una delle procedure possibili - Petitot la chiamerebbe "estetica" - di una simbolizzazione più generale che corrisponde all'"assunzione del senso".
E' evidente che Petitot fa riferimento ad una terminologia che ha corso in campi e discipline diverse e che lo scopo di questa scelta è quello di un chiarimento dei presupposti teorici di un confronto imprescindibile, quello tra semiotica e psicanalisi.
Che ne è della simbolizzazione in senso generale? Essa compare all'inizio dell'articolo, quando Petitot definisce la nozione di "immaginario":
"Le terme 'imaginaire' ne renvoie pas ici à quelque manipulation de représentations fictionnelles. Il est utilisé en son sens topique et métapsychologique. Il concerne un imaginaire du corps chargé de toutes les obscures puissances de l'animalité héritées de la phylogénèse, un imaginaire 'inconscient', purement thymique et affectif, enraciné dans les procès régulatoires de la prédation et de la sexualité, bref un imaginaire asémantique non encore symbolisé (au sens métapsychologique), nous préférons dire non subjectivé, la subjectivation étant identifiée à un processus de 'prise de conscience'." (Petitot 1985, p. 284).
Subito dopo ritroviamo di nuovo lo stesso termine:
"Du coup, nous sommes conduits à poser que le parcours génératif, conçu comme la déscription d'un processus métapsychologique réel, décrit le processus de subjectivation (de symbolisation) de l'imaginaire comme chair, autrement dit sa conversion en signifié, en unité de contenu, en signification." (ivi, pp. 284-285).
E ancora:
"[...] l'assomption de la signification (le procès de subjectivation) est un effet de la prise en charge de l'imaginaire par une syntaxe actantielle." (ivi).
Fermiamoci su questi passaggi per avanzare alcune considerazioni. Una delle maggiori difficoltà che si incontrano quando si pone il problema di un rapporto tra semiotica e psicanalisi è, si sa, quella rappresentata dalla categoria "conscio/inconscio" che, centrale in psicanalisi, viene esplicitamente dichiarata non-pertinente in semiotica. Per la semiotica, in realtà, un problema dell'inconscio si pone, ma occorre distinguere tra quello che è un inconscio, diciamo, inglobante il suo progetto, e quello che, negli enunciati, può essere identificato come "ciò che non è conosciuto da parte dei soggetti discorsivi". C'è evidentemente un inconscio della semiotica: il senso stesso ha, per la teoria semiotica, statuto di inconscio, in una accezione molto vicina al "mistico" wittgensteiniano; essa pone il senso come un limite, come un orizzonte di iscrizione del proprio discorso, più precisamente come materia inarticolata che sfugge alla sua possibilità di dirlo e di coglierlo se non attraverso articolazioni che appunto lo convertano in significazione. E' quello spazio topologico e interstiziale delle superfici di Deleuze che abbiamo indagato nella prima parte di questo lavoro.
In altri termini, la semiotica ha sì due indicibili, entrambi relativi alla sostanza: un indicibile che nessuno dice e che è il senso in quanto materia non articolata e un indicibile che tutti dicono continuamente e che non è altro che l'insieme dei significati circolanti all'interno della comunicazione sociale. Il dicibile della semiotica, per quel tanto che quest'ultima si vuole progetto scientifico, non è altro in effetti che la forma in quanto articolazione: questa costituisce la sua oggettività, il suo proprio correlato noematico.
Ma, oltre al senso, l'enunciazione stessa rappresenta un altro (o lo stesso?) inconscio per la semiotica. Essa non può cogliere l'enunciazione, quale istanza produttrice di enunciati, se non attraverso questi stessi enunciati e tramite i simulacri che essi sono in grado di offrire a immagine e somiglianza di questo luogo non dicibile da cui provengono.
Se volgiamo la nostra attenzione all'inconscio discorsivo, invece, ci accorgiamo che abbiamo a che fare con procedure di cui la semiotica è perfettamente in grado di rendere conto. Le articolazioni complesse dei programmi cognitivi, le manipolazioni, le poste passionali, le costruzioni di simulacri, ecc..., ecco altrettante articolazioni soggiacenti possibili di una configurazione discorsiva come quella che Petitot chiama "la presa di coscienza". Volendo opporre questo punto di vista a quello espresso da Petitot nei brani che ho citato, ci ritroviamo nel bel mezzo di una difficoltà davvero rilevante: deve la semiotica, ai fini di un confronto che pur sente come inevitabile, spostarsi verso la psicanalisi, ma anche verso le scienze umane nel loro complesso, al punto da assumere come proprio problema la sua, le loro, sostanze del contenuto? Non dovrebbe piuttosto attenersi all'indagine di ciò che aveva riconosciuto al principio come la regione praticabile, cioè l'approfondimento e l'elucidazione formale di una dimensione, quella della significazione, che attraversa le scienze umane, compresa la psicanalisi?
Non ho la pretesa di decidere su questa questione che resta aperta e che fa l'oggetto di tante interrogazioni d'attualità, ma mi è parso opportuno richiamarla perchè mette in gioco l'utilizzo che si può fare di una nozione di simbolizzazione come "presa di coscienza". Se questa non fosse altro che una configurazione discorsiva, la semiotica potrebbe fin d'ora esercitare il suo fare analitico e render conto, per altre discipline abitate dalla nozione di "coscienza", di un certo numero di fenomeni pertinenti. Ma non è questo il caso, a mio parere, della nozione di simbolizzazione quale viene proposta da Petitot nel suo articolo: si tratta per lui di articolare una nozione di "presa di coscienza" in quanto emersione di un'istanza semiotica da un fondo presupposto, preesistente, e dunque di articolare l'insieme del Percorso Generativo, "conçu comme la déscription d'un processus métapsychologique réel", su una assunzione, da parte di un soggetto semiotico generale, di quel fondo inconscio che è l'immaginario come "chair" (Leib, corpo organico).
Ora, al di là delle difficoltà che abbiamo già richiamato, questo progetto comporta un'identificazione tra simbolizzazione (in generale e in senso metapsicologico) e soggettivazione come "presa di coscienza". Ma può la semiotica strutturale concepire il Percorso Generativo della significazione come un processo di presa di coscienza? E' la soggettivazione un processo di presa di coscienza? Per la psicanalisi è del tutto corretto dirlo, ma il suo soggetto è l'individuo umano concepito come una articolazione tra istanze di cui la topica metapsicologica è appunto la descrizione o addirittura la teoria. Ma si può dire la stessa cosa del soggetto semiotico? E soprattutto, lo si può dire del soggetto in quanto funtivo sintattico profondo, nel suo statuto di attante?
Una concezione costruttiva e una concezione "empirica" della semiotica si oppongono su questo punto. Un'anima per certi versi pragmatica è all'opera anche nelle posizioni espresse da Petitot. Lo si vede chiaramente in un passaggio dello stesso articolo, quando l'autore scrive, a proposito della "conversione figurativa":
"Elle relie en effet de l'asémantique à du figuratif et non pas du sémantique à du sémantique. Elle est plutôt du même ordre que ce que Kant appelait le sublime ou les romantiques la Bildung. Elle concerne l'usage des figures du plan de l'expression de la sémiotique du monde naturel comme forme du contenu pour mettre en forme 'l'indicible existentiel' du sujet." (ivi, p. 301).
L'attenzione rimane colpita da quell'"usage" evocato da Petitot, e se ne capisce la ragione. E' proprio a partire dall'assunto che le relazioni semiotiche tra unità di significazione (relazioni che costituiscono il solo oggetto della teoria) sono relazioni che riguardano la semantica - quest'ultima distribuita sui vari livelli del percorso e per questo pluralizzata - che la semiotica ha potuto sbarazzarsi da tutto quanto pertiene all'uso. Se, al contrario, si pone il problema di sapere come l'indicibile esistenziale può investirsi in salienze percettive, in Gestalten, con questo solo gesto vengono superati i limiti epistemologici che la semiotica si era data e che facevano sì che per essa sia l'indicibile che le forme riconoscibili del mondo, i suoi oggetti e le sue figure, non avessero esistenza semiotica se non all'interno di un discorso che se ne fa carico, e che dunque li ha già semantizzati.
La conversione figurativa di cui parla Petitot è dunque certo un problema di primaria importanza, al chiarimento del quale è molto probabile che la semiotica possa apportare il proprio specifico contributo, ma non è per questo un problema propriamente semiotico se non, come vedremo, ritradotto nei termini di un'articolazione dell'insieme delle strutture gerarchiche e verticali del Percorso Generativo. Petitot stesso vede bene la difficoltà ed è interessante notare che, subito dopo l'ultimo passaggio citato, egli avanza un'idea che mi sembra molto vicina a quanto ho sostenuto nei capitoli precedenti:
"Si l'on revient à la pure forme du contenu, elle [la conversione figurativa] est donc de nature plutôt semi-symbolique." (ivi).
E' esattamente quanto dicevamo in 3.2. a proposito del semi-simbolico: se il trattamento della conversione corrisponde alla ricostruzione formale delle omologazioni tra unità semantiche ("du sémantique à du sémantique", dice Petitot), allora la sua natura è precisamente di tipo semi-simbolico. In effetti questo si rende possibile solo se l'assunzione del semantico come terreno di esercizio della semiotica ci ha già messo in grado di prendere di mira l'immanenza; altrimenti, tagliando fuori la semantica con un ponte diretto tra indicibile esistenziale e salienze percettive, tutto il problema si trasforma ad un tratto in una questione di uso: diventa di colpo l'utilizzo che fanno gli uomini delle figure del mondo naturale per parlare di un immaginario asemantico, di se stessi quali soggetti mai detti, mai colti se non, letteralmente, nel Mistico. E ritroviamo allora la generalizzazione, sempre seducente, di una concezione per troppi aspetti contingente e "storica" del simbolismo: è precisamente il simbolismo quale è stato pensato e vissuto dal romanticismo, a partire dal sublime kantiano fino ai nostri giorni, che rischia nel nostro caso, e d'altronde in maniera esplicita, di diventare lo sfondo teorico generale al quale agganciare tutto il progetto semiotico, nella sua forma oggettivata che è il Percorso Generativo.
Petitot avanza le sue proposte allo scopo di risolvere quella che chiama una "aporia generale" su cui si regge il pensiero semiotico di Greimas. Questa aporia consiste nell'identificazione, che Petitot ha ben ragione di sottolineare, operata a più riprese da Greimas tra una nozione di "valore" in senso linguistico-strutturale, valore posizionale, valore come scarto e differenza, e una nozione di "valore" più fenomenologica e intenzionale, valore come senso per il soggetto, valore come investimento tensivo e come attribuzione di senso. Scrive Petitot:
"Pour Greimas il s'agit, semble-t-il, de l'identité entre d'un côté l'impossibilité de saisir le sens des signes autrement que par son articulation en valeurs linguistiques et d'un autre côté l'impossibilité de saisir imaginairement le 'sens de la vie' autrement que par l'enchaînement d'actions et de projets dont la valeur existentielle n'apparaîtra qu'après-coup, lorsque la sanction dernière aura transformé notre existence en destin." (ivi, p. 291).
Sono convinto che Petitot abbia ragione a mostrare che il vero problema, dopo aver riconosciuto il valore innovatore di questa identificazione, consiste nella concezione che ci si fa della teoria che ne costituisce l'orizzonte. In questo senso non ha torto quando mostra, sui testi di Greimas, che esiste una certa ambiguità a proposito dei rapporti effettivi tra istanze formali e istanze sostanziali. E' a questo punto che egli avanza la sua critica al "formalismo" che sopravvive nelle prese di posizione esplicite di Greimas e propone per parte sua l'integrazione alla teoria di una vera e propria "problematica della sostanza", nient'affatto ingenua ma capace di articolare in una dinamica quel "fondo" che è l'immaginario come corpo e come indicibile. Scrive ancora:
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