A lorenzo Artico



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Siamo tutti controllati?


Di tutta la vicenda la cosa che colpisce (ovviamente al di là della morte di Massari) è l’armamentario che si mette in piedi per un’inchiesta per danni provocati da ordigni rudimentali [8]. Cimici (come si usa dire) sulle macchine, intercettazioni telefoniche e ambientali, forse infiltrati. È possibile che per una qualunque inchiesta, che non si riferisce neanche a fatti contro la persona, neppure una rapina, tanto meno un omicidio, si possano usare metodi di spionaggio simili? È indecente l’uso di queste tecnologie di spionaggio, è indecente pensare che un poliziotto possa ascoltare le conversazioni con la mia fidanzata perché un magistrato sospetta che la simpatizzante squatter che vive con me possa lasciarsi scappare un giorno, tra un ciappetto e l’altro, una succulenta informazione.


Intellettuali cittadini: Vattimo, Gallino, Revelli, Don Ciotti


Torino è certo una città intellettualmente illustre: Gramsci e Gobetti prima, Einaudi, Bobbio e Galante Garrone poi. Oggi a fare opinione ci sono il filosofo Gianni Vattimo, il sociologo Luciano Gallino, Don Luigi Ciotti (che raccoglie l’eredità tutta torinese dei Don Bosco e dei Cottolengo), il sociologo Marco Revelli, lo storico Nicola Tranfaglia, il giornalista Gad Lerner (se escludiamo Alba Parietti e Piero Chiambretti).

L’intervento più significativo è quello di Luciano Gallino, sociologo di primo livello. Un suo commento sulla prima pagina de “La Stampa” del 7 marzo, il giorno dopo gli arresti degli “eco-terroristi” e delle vetrine rotte, dal titolo “Non basta reprimere”. Dice Gallino che dobbiamo fare i conti con “l’Europa dei casseurs”, cercando di “Capirli, di conoscerli meglio e di discutere con loro che cosa vorrebbero per non finire totalmente isolati. Spaccando le vetrine… vogliono dire qualcosa… Gli autonomi sono una costellazione di tipi sociali svariatissimi, che agiscono in modo simile per motivi differenti, o in modo diverso per la medesima ragione”. Cosa consiglia? “Capirli e conoscerli non può essere il compito di poliziotti, di assistenti sociali e nemmeno di sociologi di campagna. Dovrebbe essere semmai qualcuno di loro o che con loro è vissuto a lungo, ad assumere il ruolo di mediatore non politico, ma culturale.” Il suo intervento è imprevisto e inauditamente positivo per i contenuti. Ma poi Gallino sparisce e sale in scena Vattimo e qui il tono cambia.

Vattimo parla della scelta di Massari come di “una scelta di vita eticamente più coerente e profonda di quanto io non pensassi” però conferma che il “tratto dominante della mentalità dei giovani alternativi che devastano le nostre città” sia sempre la “fragilità e il vuoto culturale”. Dopo pochi giorni cambia di nuovo opinione. È stato insultato nel suo studio all’Università ed è stato indicato quale “assassino” di Massari (insieme a tanti altri) nel manifesto di convocazione della manifestazione nazionale del 4 aprile. Il giorno dopo scrive l’editoriale de “La Stampa” dal titolo “Non c’è molto da capire”. Dopo aver ascoltato Radio Black-Out dice che sono gli altri a non volere il dialogo e che è “meglio dichiarare che non c’è gran che da capire. La loro cultura, quando riesce ad esprimersi in discorsi articolati e non solo in urli e insulti, è per l’appunto anche la nostra. Quella scritta nei libri che noi servi del potere cerchiamo di far leggere a tanti riottosi studenti alternativi, i quali però preferiscono nutrirsi di techno e fanzine. Che preferiscono farsi rincretinire da quella ideologia del consumo che poi calunniano alla loro radio e da cui vorrebbero liberarsi, invece che leggendo, spaccando vetrine e devastando città”. Insomma: Vattimo ha l’idea fissa che gli “alternativi” devastino le città. Perlomeno un po’ eccessivo. Si legge nelle sue parole una difesa un po’ vetero del sapere libresco, una sorta di difesa dell’accademia. Qualcosa di utile però c’è: la critica al linguaggio rozzo di radio Black-Out ci sta: la propensione per il facile insulto, l’ironia forzata (e a volte macabra), il facile estremismo verbale che il mezzo radiofonico amplifica in un delirio di onnipotenza mediatica che permette nell’anonimato di lanciare strali e minacce a destra e a manca. Radio Black-Out come una moderna variante delle lettere anonime di minaccia di Capitan Swing nelle campagne inglesi ottocentesche, studiate da Hobsbawn e Rudé? Perché no? Il paragone regge come regge quello tra le paure di Torino e la Grande Paura del 1789 studiata da Léfebvre.


Radio Black Out


Nuova Radio Alice, Radio Black-Out o radio squat, sfonda a livello nazionale. Tutti dichiarano di ascoltarla, per capire. Impossibile parlare agli squatter, almeno li ascoltano. Blobbata su Tg3 e magazine vari. Nessuna seria analisi sul linguaggio (stavolta Umberto Eco tace). Colpisce l’opinione pubblica la lista di insulti e minacce, nessuna riflessione più profonda. Forse non è così facile farne.

Di certo l’area dei centri sociali e degli squat tende ad utilizzare questo spazio di comunicazione indipendente. Silenzio stampa con i giornalisti, specialmente dopo i fatti di Brosso. Si parla solo con chi è sulla tua lunghezza d’onda, letteralmente.

Radio Black-Out paga il limite e la potenza del mezzo: se hai una radio non puoi stare zitto, devi per forza dire qualcosa, con il rischio di dire cazzate. Un manifesto puoi pensarlo un giorno intero, così un volantino. Non così una trasmissione, specialmente se ti arriva in diretta una notizia come il suicidio di un tuo amico.

Una nota curiosa: i media “spettacolari” sono una merda e con loro non si parla, però li si ascolta, e se si riconosce la propria voce si è contenti. È come dopo un corteo quando lo sport più in voga è guardare su Tg e foto sui giornali se ti riconosci!



Caccia al direttore responsabile


Il direttore responsabile del radiogiornale di una radio è ovviamente pubblico, basta cercarlo nell’apposito modulo dell’apposito ufficio. Invece sembra essere una grossa scoperta, come se costui (che non ha mai messo il piede in radio peraltro) si fosse nascosto per anni. Ovviamente a nessuno prima era venuto in mente di cercarlo. Scandalo! È un dipendente pubblico, lavora in Provincia, ne è addirittura il capo ufficio stampa. Iniziano le pressioni da parte dell’ordine dei giornalisti, della stampa e della magistratura. Lui rilascia dichiarazioni pubbliche da buon democratico (ex-Lotta Continua), ma prende le distanze.

Di questa vicenda la questione assurda è che il fatto che costui sia dipendente pubblico è vissuto come un tradimento: chi lavora per le istituzioni non può “tradirle” permettendo a degli esclusi, ai “nemici” di questa società di esprimersi. E c’è chi pensa di licenziarlo, di sospenderlo dall’ordine dei giornalisti, di incriminarlo: in pratica di rovinarlo e spaventarlo. Come piccolo esempio pubblico.




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