Ancora la città-dormitorio


Distruttori di appartamenti o riqualificatori urbani?



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Distruttori di appartamenti o riqualificatori urbani?


Una delle principali ragioni per cui gli stranieri hanno notevoli difficoltà ad accedere al comunque molto limitato quantitativo delle case in affitto è la nomea di pessimi inquilini che ad essi è associata. A ragione o a torto: non è il caso di ripetere qui, perché la cosa è già stata più volte dimostrata in modo compiuto, come gli immigrati costituiscano una delle categorie sociali maggiormente colpite dal meccanismo della stereotipizzazione, per cui la diceria diventa rapidamente certezza, che si diffonde senza che si senta il bisogno di altri riscontri.

Tra le tante forme di stereotipo che gravano sugli stranieri – visti come una massa uniforme, determinata nelle sue caratteristiche da una cultura altrettanto uniforme e statica – vi è proprio quella secondo cui essi avrebbero generalmente degli effetti disastrosi sugli appartamenti in cui abitano, a causa di una presunta e irriducibile diversità nel modo di concepire il rapporto con la casa e l’idea stessa dell’abitare.

Queste voci raggiungono necessariamente gli agenti, che sono gli attori principali del mercato immobiliare; e in effetti, nel corso dei nostri colloqui con alcuni di loro, più volte il discorso è tornato, con più o meno distacco critico, sui danni che possono subire i pochi proprietari che si arrischiano ad affittare a non italiani. In particolare, il pericolo maggiore sembra essere quello di “trovarsi dentro 12 persone” (Ai 1), cioè di vedere il proprio appartamento trasformato in uno di quegli assai numerosi ‘affittacamere’ del tutto informali.

Questi temi sono naturalmente al centro dell'attenzione anche degli studiosi dei fenomeni migratori. Ecco ad esempio quanto scrive un autore certamente non affetto da xenofobia come Guido Bolaffi, per molti anni direttore del Dipartimento Affari sociali a Roma:


Accade che [gli immigrati] vadano ad insediarsi a ridosso o addirittura nel cuore dei quartieri abitati da quei ceti da sempre molto attenti a bilanciare lo scarso valore urbano dei loro luoghi di vita con una preoccupata attenzione per l'ordine e la pulizia. [...] ecco dunque che l'immigrato appare non solo come colui che fa ricchi gli altri, ma che a volte degrada con il suo difficile e spesso disordinato insediamento lo spazio esistenziale di ceti che con il duro lavoro hanno rincorso per una vita intera la rispettabilità sociale.19
Non è nostra intenzione condurre qui una difesa aprioristica delle persone immigrate. Ma ci pare che un’opinione come quella sopra citata sarebbe meno unilaterale se venisse ricordato che anche molti di loro sono interessati alla propria rispettabilità, la quale viene collegata direttamente al decoro dell'ambiente in cui vivono.
Non ho mai avuto problemi con il proprietario, perché da quando siamo qui lui non ha pagato nessuna spesa per la casa, ma per fare qualsiasi cosa a casa, lo faceva mio marito: i muri, le finestre da cambiare, la porta la cambia lui, perché non facciamo le cose per distruggere ma per costruire.

(Cs 4)
Abbiamo conosciuto una coppia di ucraini piuttosto anziani, che vivono in via Einaudi, in uno dei caseggiati considerati più problematici: di fronte alla porta di casa hanno creato un minuscolo giardino, dopo avere estirpato le erbacce e soprattutto dovendo litigare con i vicini dei piani superiori perché smettessero di gettare spazzatura dal balcone. Lo sforzo per tenere in ordine questo fazzoletto di terra è tanto più significativo se si pensa che la loro sistemazione abitativa è molto precaria: abitano presso una signora italiana, di quasi cent’anni, che la donna assiste come badante.

È chiaro che idealizzare o generalizzare questo comportamento sarebbe insensato. Ma anche una storiella del genere può servire per mettere in discussione quei luoghi comuni che descrivono gli immigrati come ‘nuovi unni’.
Oltre al fatto che l’ordine e la pulizia della propria casa sono valori diffusi anche nei paesi di emigrazione, abbiamo conosciuto in questi anni di lavoro a Cologno, e anche in occasione di questa ricerca, parecchie persone che sentono pesantemente lo stigma dell'extracomunitario: per questo, e per enfatizzare la loro estraneità rispetto agli elementi devianti che sono innegabilmente presenti in ogni comunità, essi sono portati a reagire con forme di iper-correttezza e iper-rispettabilità20. Un giovane marocchino ci ha raccontato di avere addirittura tolto il suo nome dal citofono per evitare qualsiasi equivoco, dopo che una ragazza italiana sconosciuta aveva suonato una sera: “le ho risposto che forse si confondeva, ma lei insisteva, cercava uno spacciatore, ha visto un nome arabo e ha pensato che lì poteva trovarlo”. (Cs 3)
L’impatto dei nuovi arrivati, in positivo o in negativo, non si ferma alla soglia di casa, ma – come abbiamo già tentato di spiegare – esso riguarda il territorio urbano nel suo complesso. E in particolare i rapporti di vicinato.

Come si è visto in precedenza tra gli stranieri di Cologno circola l’idea che qui il tessuto sociale sia diverso da quello di Milano o di altri sobborghi, e complessivamente più accogliente. Che ciò corrisponda o meno alla realtà è un dato tutt’altro che irrilevante; ma è comunque probabile che questa opinione, come succede per le credenze sociali, produca qualche effetto per il solo fatto di essere enunciata e ribadita.

Quello che è certo è che per l’integrazione di chi arriva in una realtà che gli è estranea, straniera per l'appunto, un buon rapporto con i vicini può rappresentare una delle risorse più importanti. E chi ne è consapevole di cerca in tutti i modi di coltivare queste relazioni, basate anche sulla solidarietà che nasce da piccoli scambi di favori.
Ho visto anche con gli amici che sono venuti ad abitare con mio fratello, quella vicina mi ha detto “ma i vostri paesani sono un po’ cattivi”, chiedo perché, ha detto “Perché escono al mattino, loro mi vedono, non mi salutano”; ho detto “no, mi dispiace, ma loro sono in Italia da 6 mesi, ancora non conoscono niente della lingua, anche si vergognano”. Poi ho detto a mio fratello “mi raccomando, di’ ai tuoi amici di cominciare a salutare la signora, se no si arrabbia.”

[…]


Ci aiutiamo molto.

Per esempio? Per i figli…

È la mia vicina che ha tenuto mio figlio quando sono andata a partorire il secondo figlio [...] più o meno adesso ha 65 anni, e poi avevo qui la vicina, anche lei un po’ anziana, lei mi chiedeva le cose e le facevo.

[Aveva bisogno di] qualcuno che le parla, perché sua figlia sempre lavorava, lei è da sola. Mi chiedeva “vieni da me”, dico “no, vieni tu, almeno quando ci sei tu io riesco a fare le mie cose, stiro, guardiamo le telenovelas insieme” e passavamo il tempo.

C’è anche l’altra vicina, era un po’ più anziana e aveva anche lei bisogno di quelle cose, “va bene te lo faccio”, magari “mi aiuti, solo a mettere il lenzuolo perché non riesco da sola”, “sì, un attimo, adesso vengo, facciamo questo, facciamo quello”. E così abbiamo fatto molte volte insieme, con i miei figli che giocavano fuori sul pianerottolo.

(Cs 4)

Ho questa vicina che vuole aiutarmi per trovare un lavoro, mi ha detto che poteva aiutarmi per fare il curriculum, ma io non ho voluto perché è sempre sola e non ho voluto entrare in casa sua, non so dopo cosa pensano gli altri. Vado tante volte a casa sua, ho giocato con il suo figlio piccolo con il GameBoy, ma sempre quando c’è il marito. Sempre mi dà dei dolci, ieri mi ha portato una specie di torta; quasi tutte le domeniche mi porta qualcosa. Anche il marito parla sempre con noi, a casa sua o da noi.



Sono tutti felici che siamo lì. C’è una donna che ha quasi 70 anni, una grande signora, anche lei mi dà sempre qualcosa, un cioccolatino, dice che è troppo grassa e non mangia le cose dolci che le portano le figlie.

(Cs 1)
Abbiamo notato che alcuni di questi rapporti che nascono dallo scambio di favori e che possono evolvere in vera amicizia sono asimmetrici dal punto di vista generazionale: ci sono persone anziane italiane che prendono in grande simpatia famiglie di immigrati, o persino uomini soli, la categoria che secondo molte generalizzazioni sarebbe più refrattaria alla convivenza. È sempre più frequente la scena di bambini di origine chiaramente non italiana accompagnati a scuola da ‘nonni’ o ‘zii’ italianissimi. Visto il problema crescente degli anziani soli nelle nostre città, un'iniziativa che mirasse a consolidare e a estendere queste nuove reti sociali, riuscendo allo stesso tempo a non burocratizzare i rapporti personali, potrebbe davvero permettere di conseguire risultati molto positivi.


Chiaramente le difficoltà non vanno nascoste o minimizzate, ed è possibile che nascano conflitti, che però, se si riesce a creare un canale di comunicazione, possono anche essere risolti. Uno degli intervistati, che ha comprato casa in una delle vie di Cologno più conosciute per la presenza di immigrati, racconta:
La maggior parte dei vicini sono extracomunitari, c’è un buon rapporto.

All'inizio c'era una signora italiana, al secondo o terzo giorno ho messo la parabolica sul balcone collettivo [il ballatoio], questa signora esce e dice “togli quel cazzo di ferro”, senza dire buongiorno, ma lo spazio era davanti a casa mia. Poi le cose sono migliorate: con tutto il rispetto – le dico – io intendo farmi rispettare, quel “cazzo” mi dà proprio fastidio, se lo può tenere; dopo tre ore lei suona e dice “mi scusi, forse mi sono comportata male. Allora adesso discutiamo, ci sono i raggi che danneggiano la bambina...” Poi io ho spostato l’antenna: mi è piaciuto il modo in cui è venuta da me per scusarsi, ancora adesso viene a bussare, “ciao ciao”, anche se è andata via: ha venduto a un extracomunitario.

Ora sono tutti extracomunitari.

E come sono i rapporti con loro?

“Buongiorno”, se uno ha bisogno di qualcosa… Pulendo lo spazio davanti a casa mia vado avanti e faccio un altro pezzo, e loro sono contenti e anche loro fanno così, la risposta è positiva, se cade un vestito lo raccolgono, se arriva una lettera urgente firmano loro per il postino.

(Cs 3)
È più difficile creare una simile rete di relazioni quando si vive in condizioni di subaffitto: se infatti ci mettiamo nei panni di un condomino qualsiasi, è naturale che ci possa essere diffidenza quando vediamo di fianco a noi un continuo via-vai di persone diverse, numerose e forse anche provenienti da paesi diversi tra loro, e senza che riusciamo bene a capire perché vivano insieme.
Una conclusione realistica di questa parte del discorso, che resta volutamente al di fuori del dibattito ideologico sulle virtù o i vizi della multietnicità, ma che allo stesso tempo considera il carattere multietnico dei nostri centri urbani come un presupposto acquisito e che sarebbe poco lungimirante negare, potrebbe essere la seguente: c’è la possibilità che l'insediamento a Cologno di numerosi cittadini provenienti dall'estero avvenga senza generare nuovo degrado, e senza provocare danni sostanziali per coloro che, per riprendere l'espressione di Guido Bolaffi, “con il duro lavoro hanno rincorso per una vita intera la rispettabilità sociale”; e c’è persino la possibilità che tale insediamento costituisca un’opportunità importante per ridare vitalità alla nostra città, ai suoi caseggiati e alle sue strade. Perché tutto ciò avvenga è però necessario un intervento attivo e consapevole delle autorità pubbliche: vi è un grande bisogno di politiche che facilitino la convivenza.

Se è vero che molte occasioni di scontro tra i vicini sorgono dalle incomprensioni relative a questioni tecniche, quali l’utilizzo degli spazi comuni o la separazione dei rifiuti ai fini del riciclaggio, allora potrebbero essere utili campagne di informazione mirate. Inoltre, magari con la collaborazione degli amministratori condominiali, potrebbero essere sperimentate forme di mediazione dei conflitti a livello molto decentrato; oppure ancora una sorta di tutoraggio leggero delle famiglie da poco insediate, da affidare a vicini italiani ma anche stranieri, evitando però che si instaurino quelle forme di “relazione pedagogica”21 tra vicini che, anche quando sono in buona fede, veicolano una concezione gerarchica tra le persone e le culture.

Infine, in occasione di lamentele ripetute nei confronti dei comportamenti di residenti stranieri può valere la pena di raccogliere in modo sistematico tali lagnanze: ignorare il senso di insicurezza e la diffidenza che esse possono esprimere non è certamente il modo più lungimirante di affrontare il problema. E d’altronde, con una buona opera di mediazione e un po’ di capacità di compromesso potrebbe essere sanata almeno una parte di quei litigi per i quali, molto più spesso di quanto sarebbe opportuno, si chiamano in causa differenze culturali irriducibili, o presunte tali.


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