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Abbiamo portato esempi del biografema di Barthes, nonostante il suo sganciamento da ogni discorso saggistico, per mostrare una sua prospettiva anti-individuale, almeno nel periodo qui considerato. Barthes sarà infatti considerato come l’ultimo importante prosecutore del grande progetto letterario nazionale inaugurato da Montaigne: l’io come vocazione, la vita come lettura dell’io425. Ma l’individualismo moderno non può trovare in Barthes il suo difensore, per varie ragioni non solo legate allo strutturalismo e alla sua critica del concetto di autore (abbiamo già ricordato La mort de l’auteur). Si tratta, come si evince in S/Z e Sade, Fourier, Loyola, di una più profonda critica alla morale individualistica dell’ideologia culturale moderna e ai suoi generi di “propaganda”, tra cui il saggio ha giocato un ruolo importante, come si evinceva dalla sua storia. Quella critica non perde l’obiettivo più generale di rivolgersi a un discorso della cultura comune alla narrazione classica e realista e all’argomentazione tradizionale della logica dissertatoria. Se consideriamo tutta la parabola della sua produzione e non solo il suo ultimo periodo, Barthes utilizza procedimenti di finzione all’interno dei suoi saggi non tanto nello scopo di costruire una scrittura della soggettività, quanto per motivi legati alla funzione della scrittura saggistica nell’epoca moderna, dove oltretutto eventuali “io” dell’autore o altrui diventano figure svuotate di ogni totalità individuale o di una completa identità narrativa e biografica. Eppure, proprio come Montaigne, Barthes s’impegna a mantenere un pluralismo dei propri oggetti nelle letture di un individuo sempre critico verso le normali consegne del linguaggio, sia con la rappresentazione di un senso letterario non esaurito e alienato nei testi che attraversa, sia nella ricerca utopica di un’esperienza differente della Storia – a prezzo di sminuire il potere originante della realtà e del suo titolare di fronte alla scrittura, l’autore – e realizzabile a partire dalle alternative stilistiche proposte da alcuni scrittori.

Un tentativo di narrativizzare la critica sempre connesso a scopi di riforma sociale si riscontra in misura forse più decisiva in un altro scrittore francese. Jean-Paul Sartre disse in un’intervista del 1970 a proposito del suo prossimo libro L’Idiot de la famille:

Je voudrais qu’on lise mon étude comme un roman puisque c’est l’histoire, en effet, d’un apprentissage qui conduit à l’échec de toute une vie. Je voudrais en même temps qu’on le lise en pensant que c’est la vérité, que c’est un roman vrai. Dans l’ensemble de ce livre, c’est Flaubert tel que je l’imagine mais, ayant des méthodes qui me paraissent rigoureuses, je pense en même temps que c’est le Flaubert tel qu’il est, tel qu’il a été. Dans cette étude, j’ai besoin d’imagination à chaque instant. (Sartre 1976: 94)

L’autore riflette esplicitamente sull’unione di romanzo – genere dell’immaginazione – e saggio – genere apodittico improntato alla ricerca della verità – in una nuova forma di scrittura intellettuale: studio definisce ancora la sua monografia su Flaubert; aggiunge anche che non si può considerare L’Idiot de la famille un’opera scientifica (perciò appare nella collana di filosofia di Gallimard426): «C’est un ouvrage de philosophie (je ne le prends pas comme un ouvrage de critique littéraire, mais un ouvrage de philosophie)»427. A fianco della filosofia, un pensiero di natura immaginativa e una pur minima dose di fantasia sarebbero necessari per ricostruire come verità oggettiva il soggetto di quello studio, l’uomo e lo scrittore Flaubert. Il genere del saggio si ritrova pertanto al centro della possibile congiunzione tra filosofia e letteratura come rispettivi discorsi della verità e della narrazione; potenzialità del genere già segnalata e ribadita con queste stesse parole da Jean Terrasse:

L’essai se trouve ainsi en porte-à-faux, comme son nom l’indique, entre la littérature et la philosophie: l’essayiste s’engage comme l’écrivain, et comme le philosophe, il croit atteindre une réalité objective; son discours signifie la littérature, même s’il semble coïncider avec le référent. (Terrasse 1977: 7)

Il problema filosofico della ricostruzione del referente reale Flaubert si scontra con strategie che abbisognano dell’immaginazione, per motivi precisi che riguarderanno l’incompletezza dell’oggetto restituito dalle testimonianze di scrittura. Sulla necessità di una tale convergenza Sartre e Barthes s’incontrano, se poco dopo l’intervista del primo, il secondo, interrogato a propria volta sulla risposta fornita da Sartre, rilancia:

Je comprends très bien ce souhait, dans la mesure où je ne crois pas du tout à la séparation des genres. Je crois que ce qu’on appelle encore le discours de l’essai ou de la critique va être l’objet d’un remaniement, d’une subversion profonde qui est en train de se chercher, alors que maintenant des romans, en gros, on ne peut plus en écrire […] La notion de texte va forcément englober l’essai, la critique, enfin ce qui était jusqu’à présent le discours dit intellectuel ou même scientifique. (Barthes 2002i: 691)

Se Sartre pensa di poter scrivere uno studio che attinga alla verità filosofica anche per tramite di una mediazione romanzesca, Barthes condivide l’idea di una cooperazione tra generi in un tentativo non più circoscritto a uno studio specifico, come quello di Sartre su Flaubert, ma lanciato verso un’avanguardia più generale della scrittura (il Testo). In una prospettiva esistenzialista l’approccio di Sartre non pare però meno sperimentale di quello di Barthes; una nozione come quella del Testo costituirebbe un nuovo termine formale o una sorta di genere letterario totale (e quindi tipicamente postmoderno) che rischierebbe di proporre ancora una gabbia strutturale per l’uomo esistenzialista: un freno inaccettabile per la dialettica di Sartre legata all’affermazione della libertà come somma possibilità esistenziale428.

Ma anche Sartre avverte come Barthes, e già durante la Seconda Guerra mondiale, una crisi del saggio contemporaneo da superare con nuove proposte critiche, tanto che scriveva nell’articolo Un nouveau mystique (1943): «Il y a une crise de l’essai […] Le roman contemporain, avec les auteurs américains, avec Kafka, chez nous avec Camus, a trouvé son style. Reste à trouver celui de l’essai. Et je dirai aussi: celui de la critique»429. Dedicato alla saggistica di Bataille, Sartre ne riconosceva la modernità in quel contributo430, ma ne riconduceva anche l’essenza a un modello ancora surrealista, chiamato essay-martyre, e soprattutto ne condannava la povertà filosofica, il cui risultato era disancorare dal testo gli stessi contenuti dell’esperienza. Se combiniamo queste critiche con la formula romanzo vero affibbiata al suo Idiot de la famille, Sartre ci forse confessa di aver tentato fino in fondo di coniugare l’esplorazione filosofica con la scrittura biografica per completare l’analisi di una vita come contenuto esperienziale definito, indipendente nella sua totalità individuale, mai astratta; evitando allora di costruire una filosofia o un romanzo su un’idea assoluta della vita.

Sembrerebbe poi che Sartre ritorni sui propri passi qualche anno dopo le prime dichiarazioni, in un’intervista del novembre 1976, in cui giunge quasi alla sconfessione. Leggendo il suo discorso interamente, l’autore approfondisce in realtà la questione della dialettica tra filosofia e romanzo, ritornando sulla necessità di un loro funzionamento in parallelo:

J’ai peut-être exagéré un peu quand j’ai dit que c’était un roman. Je ne l’ai jamais envisagé comme tel quand je l’écrivais et la part de l’imagination, qui est en effet une part de mise en liberté de l’imaginaire, est quand même reprise par une vérité qu’il y a dans l’imaginaire […] Ce roman n’est pas en fait un roman: il a essayé pendant un certain temps de laisser aller l’imaginaire, mais l’imaginaire est repris et transformé en un certain sens de la réalité […] ce roman n’a été qu’un fait subjectif, le fait de lancer dans l’imagination romanesque avant de savoir à quelles données je pouvais distinguer l’imagination romanesque de l’imagination retranscriptive […] c’est-à-dire qu’il y a une imagination entièrement fictive, mais cette même imagination contient déjà des éléments de vérité considérables […] Il y a quelque chose là-dedans qui est une vérité, qui n’est pas celle de l’image en tant que telle, mais qui est comme insérée dans l’image. (Sartre 1989: 148-149)

Quando si sgancia dalle pressioni di una definizione della sua opera aderente a generi letterari, l’autore riflette sul ruolo dell’immaginazione nell’accertamento della verità. La finzione svolgerebbe una funzione collaborativa all’interpretazione filosofica dell’oggettività totale di Flaubert. Perciò, anche se molti commentatori si sono soffermati sulle qualità narrative delle saggistica di Sartre431, queste potenzialità vanno lette dentro un tentativo di bilanciamento stilistico per raggiungere una verità o una realtà che non vengono date spontaneamente, ma risultano da uno sforzo intellettivo totale.

Nel nostro percorso, oltre a quella su Flaubert si devono ricordare altre due monografie di Sartre432, il Baudelaire (1946) e il Saint-Genet (1952), definite saggi al contempo finzionali e filosofici433 anche a seguito delle dichiarazioni del loro autore. A questi tre libri, Michael Scriven dedica un intero studio, includendovi anche l’autobiografia Les Mots (1964) e i frammenti su Mallarmé e Tintoretto: la definizione proposta è existential biographies434. Soprattutto, è interessante ciò che Scriven individua sul piano cronologico: tali monografie assumerebbero il compito di sostituire il genere del romanzo all’interno dell’attività letteraria di Sartre; più o meno all’altezza del 1949, con l’incompiuto La Dernière Chance abbandonato nel 1950, lo scrittore termina la sua carriera di romanziere per concentrarsi su altri generi, tra cui la monografia critica, e comincerebbe proprio con il Saint-Genet (il Baudelaire era stato composto tra il 1944 e il 1946; quindi in mezzo ai tre romanzi riuniti sotto il titolo di Les Chemins de la liberté: L’Âge de raison e Le Sursis pubblicati nel 1945, La Mort dans l’âme uscito nel 1949435). Scriven indaga allora le ragioni di questo passaggio di genere:

The novel is judged on the hand as ideologically unsound since its form and content reflect and therefore perpetuate the social practices of an oppressive class, and on the other hand as methodologically unsound since its explanatory procedures are couched in a literary style which at best is naïve and at worst is a strategic ploy designed to mystify the readership into acquiescing to the class values implicit in its narrative. Sartre therefore turns this back on the traditional novel and looks around for an effective critical alternative. (Scriven 1984: 43)

Nel percorso dello scrittore Sartre, il saggio critico tenta ancora di essere un’alternativa alle forme discorsive dell’ideologia borghese, non solo con la combinazione di modi diversi, tra cui anche quello narrativo, ma pure con la scelta di un contenuto particolare. Gli oggetti dei suoi studi saranno d’ora in poi specifici rappresentanti della cultura borghese, quelli che hanno occupato per lungo tempo il ruolo di suoi miti; in quella biografie, Sartre studia come gli scrittori nascono, partecipano ed eventualmente si oppongono alla società che li ospita e legittima:

Sartre has produced a hybrid form in which the lives of the great heroes of the bourgeois cultural tradition are on the one hand described with the verve and brio of a talented novelist yet on the other mercilessly dissected and scrutinized with the incisiveness of a skilled methodological surgeon […] Sartre’s existential biographies are, in short, a privileged textual site in which the alienation of the modern French writer is probed, scrutinized and diagnosed. (Ivi: 44)

Si può aggiungere un’ultima osservazione prima di passare al loro commento: come passato romanziere, Sartre non avrebbe avuto alcuna ragione di introdurre una cornice narrativa autonoma in un saggio per fornire, ad esempio, la rappresentazione di uno sfondo sociale borghese come contesto della propria analisi. Non si tratta di trovare una nuova narrazione lontana dal romanzo borghese, quanto di inventare una critica delle determinazioni che conducono gli scrittori a quel modello narrativo.

Conviene allora ripercorrere cronologicamente le tre monografie di Sartre per valutare i tentativi successivi e via via perfezionati di una critica sociale dello scrittore: percorso durato ventisei anni, interessanti soprattutto perché disposti (come anche per Debenedetti) in quelli più centrali per la costituzione della cultura novecentesca.

Il Baudelaire (1946) nasce come prefazione agli Écrits intimes, da cui il carattere più breve rispetto i due lavori successivi; anche il Saint-Genet sarà la prefazione, ma di ben 573 pagine al primo volume delle opere complete di Jean Genet. Oltre la loro vicinanza storica, a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta rispetto il successivo L’Idiot de la famille, la cui pubblicazione si distanzia di quasi due decenni, il legame tra le prime due monografie è rafforzato dalla dedica del Baudelaire proprio a Genet. Al suo interno, Sartre impronta lo sviluppo biografico sull’adorazione di Baudelaire per la madre436: «Baudelaire n’a jamais songé à détruire l’idée de famille, bien au contraire: on pourrait dire qu’il n’a jamais dépassé le stade de l’enfance»437. L’analisi dell’uomo e dello scrittore si racchiude in quella convinzione438, attraverso cui tutte le sue opere e i suoi eventi biografici successivi vengono passati al setaccio:

Tel il était à vingt ans, tel nous le retrouvons à la veille de sa mort: il est simplement plus sombre, plus nerveux, moins vif […] le choix libre que l’homme fait de soi-même s’identifie absolument avec ce qu’on appelle sa destinée. (Sartre 1988a: 178-179)

Tuttavia, il destino dell’uomo Baudelaire incontra un problema filosofico moderno: la formazione dello scrittore e delle poetiche presenti nel tempo della società borghese. Il ragionamento di Sartre, pur concentrato a non perdere di vista la propria destinazione, si ritrova continuamente implicato in scrittura che presenta molti punti in comune con la narrazione biografica; come sostiene anche Douglas Collins nel suo libro Sartre as biographer: «Rather than being the bastardization of philosophy, biography is its legitimation»439. Certo, come ha ripetuto lo stesso Sicard, l’evoluzione temporale del personaggio di Baudelaire rimane sempre funzionale all’esplicitazione della critica sociale di Sartre, verso «une famille d’idéologie encore féodale, dans un monde devenu fondamentalement bourgeois»440, ma non per questo è meno evidente il rischio di un appiattimento del discorso filosofico sulla costituzione dello scrittore sopra la caratterizzazione biografica che il critico ugualmente ne forniscce. Un mescolamento tra saggistica e biografia sarà d’altronde percepito come particolarmente nocivo dallo stesso Adorno in Il saggio come forma, scritto nel 1958, cioè quasi un decennio dopo la prima monografia di Sartre:

Le biografie romanzate, e quanto a esse si aggancia nella letteratura “introduttiva” che a quelle è affine, non sono una semplice degenerazione, ma la continua tentazione di una forma che ha bensì in sospetto la falsa profondità, ma al tempo stesso non possiede nulla che la immunizzi dal pericolo di ribaltarsi in versatile superficialità. Tale tendenza al ribaltamento si viene precisando già in Sainte-Beuve, da cui indubbiamente discende il genere del saggio moderno. (Adorno 1979: 8)

La considerazione riservata da Sartre all’autore reale ha difatti attivato nella critica l’immediato paragone con Sainte-Beuve, che Adorno individua come uno dei responsabili di una forma “superficiale” del saggio moderno ma a cui, indubbiamente, manca la dialettica filosofica che regge psicologia e letteratura in tutta la produzione di Sartre441. Contro quelle carenze filosofiche imputate alla saggistica biografica (e da Sartre stesso a quella di Bataille), l’autore tenta con il Baudelaire un primo esempio di critica basata su strumenti filosofici estratti dalla psicologia e rivolti allo studio integrale di un soggetto umano, la cui personalità però si può studiare soltanto nel dispiegamento in una narrazione della sua vita442, come avverrà soprattutto per Genet e Flaubert.

Il Saint-Genet: comédien et martyr (1952) è una monografia di maggiore spessore rispetto alla precedente e, pertanto, la componente biografica occupa un volume maggiore. Sartre vi sperimenta con più decisione la costruzione di un discorso saggistico moderno conforme agli obiettivi già prefissati e a quelli che si prefigureranno in futuro443; per di più, l’opera intrattiene già qualche rapporto con la monografia su Flaubert (soprattutto con la sua prima parte444). Lateralmente, conviene anche osservare che Jean Genet pare uno scrittore particolarmente prolifico a incitare alla scrittura di saggi per lo meno originali, se anche Derrida comporrà parecchi anni dopo il già ricordato Glas (1974445). L’obiettivo perseguito da Sartre con questa monografia si rivela con precisione nella chiusura finale del Saint-Genet:

Montrer les limites de l’interprétation psychanalytique et de l’explication marxiste et que seule la liberté peur rendre compte d’une personne en sa totalité, faire voir cette liberté aux prises avec le destin, d’abord écrasée par ses fatalités puis se retournant sur elles pour les digérer peu à peu, prouver que le génie n’est pas un don mais l’issue qu’on invente dans les cas désespérés, retrouver le choix qu’un écrivain fait de lui-même, de sa vie et du sens de l’univers jusque dans les caractères formels de son style et de sa composition, jusque dans la structure de ses images, et dans la particularité de ses goûts, retracer en détail l’histoire d’une libération: voilà ce que j’ai voulu; le lecteur dira si j’ai réussi. (Sartre 1952: 536)

La figura di Genet diventa l’occasione per una verifica: il concetto esistenzialista di libertà può comporre una sintesi teorica dei metodi marxisti e di quelli psicoanalitici nella definizione dell’individuo? La risposta si raggiunge soltanto con lo studio della totalità di quell’individuo, per come emerge dall’analisi della sua interiorità a partire dagli eventi della vita e dalle loro conseguenze: la scrittura rappresenta proprio il collegamento tra l’immaginario del soggetto e l’azione sociale, sia quella subìta sia quella praticata nell’intervento artistico-letterario. Perciò, quando Sartre parte dall’infanzia di Genet non si tratta soltanto di un vincolo cronologico proprio dell’elaborazione della sua biografia. In questa scelta si concentra già una prospettiva filosofica alternativa al marxismo e in polemica a una visione della persona ridotta al lavoratore, al membro sociale di una classe produttiva determinata dal sistema economico446. Soprattutto, più di altri periodi della vita, l’infanzia assume un valore fondamentale per la costituzione della personalità in ragione della metodologia che converge nell’opera, quella psicocritica:

L’enfant jouait dans la cuisine; il a remarqué tout à coup sa solitude et l’angoisse l’a pris, comme d’habitude. Alors il s’est “absenté”. Une fois de plus; il s’est abîmé dans une sorte d’extase. A présent il n’y a plus personne dans la pièce: une conscience abandonnée reflète des ustensiles. Voici qu’un tiroir s’ouvre; une petite main s’avance…



Pris la main dans le sac: quelqu’un est entré qui le regarde. Sous ce regard l’enfant revient à lui. Il n’était encore personne, il devient tout à coup Jean Genet. (Ivi: 23)

In conformità con la filosofia di Sartre, l’individuo prende coscienza di sé attraverso l’interazione con l’Altro, in questo caso con uno sguardo intimidatorio che cristallizza la componente criminale nella personalità di Genet. Poco oltre Sartre infatti concettualizzerà: «Le regard des adultes est un pouvoir constituant qui l’a transformé en nature constituée […] l’important n’est pas ce qu’on fait de nous mais ce que nous faisons nous-mêmes de ce qu’on a fait de nous»447; la formazione dell’individuo risulta cioè da due momenti consecutivi della psiche: interiorizzazione dell’esterno e risposta personale all’alterità incontrata. Se quella prima narrazione convoca un episodio centrale per l’evoluzione di Genet, significa che Sartre non abbandona l’idea di determinismo psicologico durante la sua trattazione: la criminalità motiverebbe l’inizio della vita, la sua età adulta comproverebbe il carattere ribelle dell’infante Genet. Esiste perciò nel Saint-Genet la narrazione della biografia di un personaggio ricostruito in buona parte dal saggista secondo una totalizzazione ideale della sua psiche, non suddivisa per momenti successivi ma conformata attorno a un evento specifico che viene investito di un forte valore causale. Genet appare così un personaggio biografico a tutto tondo, la cui vita è però interpretata a partire soprattutto da un momento intermedio della sua cronologia. Così, Sartre imprime alla sua biografia un intreccio narrativo degli eventi strutturato sulla logica causale condotta dall’argomentazione, a sua volta guidata da una psicologia determinista impiegata per elaborare l’idea del personaggio di Genet; la biografia stessa risulta tutta orientata dalle scelte di una logica filosofica, mentre l’argomentazione che la esprime ben si sposa a un modo narrativo nient’affatto neutro nel conferimento agli episodi biografici di un valore diverso dalla loro disposizione nella cronologia della vita di Genet. La filosofia di Sartre si serve della narrazione biografica quando soltanto dalla stessa biografia il critico può raggiungere la sua interpretazione del personaggio-individuo: solidali in teoria, sul piano della scrittura i due discorsi si realizzano soltanto tramite un continuo parallelismo, che tuttavia consente l’individuazione di due flussi nel testo e permette anche di isolarne le parti più narrative.

Ad esempio, Sartre riassume la biografia picaresta del suo personaggio (d’altronde perfettamente in linea con l’autobiografia Journal du voleur di Genet medesimo448) prima di poter accordarvi la sua riuscita nella scrittura:

Chassé de partout, le jeune Caïn vagabonde, en Espagne, en Pologne, en Tchécoslovaquie. Il a vingt ans, vingt-deux ans. Il marche en silence. Pourtant, à chaque respiration, des mots lui remplissent la bouche. Ils viennent tout seuls comme dans les rêves. Sur le rythme de la marche et du souffle, des phrases s’ébauchent qui cassent sous leur propre poids. A qui parle-t-on? A personne. Nulle intention de désigner, de communiquer, d’enseigner. Et qui parle? Personne. Ou plutôt, le langage lui-même […] le résultat ne se fait pas attendre: un jour qu’il erre dans la campagne, apeuré devant le “mystère diurne” de la Nature, un caillot de mots sort de sa bouche; ce conglomérat se révèle plus solide que les autres, c’est un octosyllabe: “Le premier vers que je m’étonnais d’avoir formé, c’est celui-ci: ‘moissonneur des souffles coupés’”. (Ivi: 281-282)

Dei versi di Genet Sartre non specifica nemmeno il riferimento bibliografico449, quasi a cancellare l’originale e a rafforzare il collegamento istituito dalla propria argomentazione tra i contenuti vitali dell’erranza e i risultati dell’opera dell’individuo-scrittore: un nesso che si vorrebbe ottenuto soltanto dal proprio metodo di ragionamento e, soprattutto, in maniera autonoma da quanto Genet stesso ha già confessato nel Journal. Quando il critico legge l’approdo alla scrittura di Genet come conseguenza di un determinismo psicologico, quell’opera letteraria verrà poi discussa da un punto di vista soprattutto culturale, cioè relativo a una critica della Storia. Quindi, la narrazione biografica rispetterà sempre scopi di denuncia finale, che spesso assumono i toni di una satira intellettuale contro la società borghese sia causa, sia obiettivo critico della scrittura di Genet:


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