La vita e I miracoli



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Mentre lasciava il palazzo della Concistoriale, Francesco Morcaldi era piuttosto preoccupato. L’in­contro con il cardinale Raffaello Rossi aveva aperto prospettive che erano sì interessanti, ma anche molto pericolose. "Potrebbe essere l'inizio di una soluzione definitiva" rifletteva fra sé l'avvocato camminando frettoloso. Aveva deciso di tornare a casa a piedi, per rilassarsi e chiarirsi le idee. Camminare lo aiu­tava a pensare. "Io consegno le copie del libro e gli originali dei documenti al cardinale Rossi, e poi?" si domandava. "E se non succede niente? Se Padre Pio continua a restare prigioniero? È vero che il mio in­terlocutore è un cardinale, un principe della Chiesa, ma non sa­rebbe il primo a fregare il prossimo." Ripensando all'incontro con il porporato, gli pareva di aver agi­to troppo impulsivamente. "Avrei dovuto prendere tempo, tenerlo sulla corda, fargli capire che non ero disposto a trattare subito." Gli venne in mente Padre Pio. Antonio Massa, nella sua ultima lettera da San Giovanni, gli aveva scritto: «Il Padre sta malissimo. Fa una gran pena vederlo in quello stato". «Ammettiamo" disse a se stesso "che il cardinale si prenda il li­bro e i documenti e non muova un dito per il Padre: che potrei fare io? Lamentarmi? Con chi? In base a quali accordi?" Sentì come un brivido lungo la schiena. Un senso di vuoto, qua­si un capogiro. Non aveva niente in mano, era costretto a fidarsi sulla parola. Camminò in silenzio. "Se non mi fido di lui" disse ancora fra sé Morcaldi «di chi dovrei fidarmi? Non ho parlato con segretari, intermediari, ma direttamente con lui, e mi ha dato la sua parola d'onore." Gli parve di sentire la voce di Padre Pio, severa e decisa: "Sata­nasso, gettati ai piedi della Chiesa". - Caro Padre - disse ad alta voce come se Padre Pio fosse lì, con lui, in mezzo a quella gente affannata e stanca - io mi getto, ma se le cose non dovessero andare per il verso giusto, Emanuele mi uccide. - Che cosa ha detto? - gli domandò un passante che lo aveva sentito parlare. - Ah, niente, mi scusi. Sa, ogni tanto parlo da solo. - Succede anche a me, soprattutto quando litigo con mia mo­glie. Me ne vado in giro e mi accorgo che parlo da solo ad alta vo­ce. - Sorrise. - Le preoccupazioni fanno perdere la testa - disse Morcaldi. - Ha proprio ragione - commentò lo sconosciuto agitando ri­petutamente il capo in segno di consenso. Le preoccupazioni! Quella sera Morcaldi era tenuto sulle spine da molte preoccupazioni. Soprattutto da una, che si chiamava Ema­nuele Brunatto. "Se lo informo di questa trattativa, non accetterà mai le condi­zioni suggerite dal cardinale Rossi" si disse Morcaldi. "Se agisco di mia iniziativa, tenendolo all'oscuro, e l'operazione non va a buon fine, sarà la fine della nostra amicizia. Morcaldi ormai conosceva molto bene Brunatto. Non aveva nessun dubbio sul fatto che fosse un uomo dal cuore d'oro, gene­roso fino all'inverosimile. Ma sapeva anche che era facile all'ira. Erano più di cinque anni che Brunatto lavorava per mettere insie­me quei documenti. "Chissà quanto gli sono costati!" pensò. "Anche dal punto di vi­sta economico. Deve aver speso una fortuna. E chissà dove è anda­to a trovare i soldi. E adesso io prendo quei documenti e, a sua insa­puta, di mia iniziativa, li consegno all'avversario”sperando”che faccia qualcosa per liberare Padre Pio! È indubbiamente una cosa pazzesca! Un rischio tremendo, azzardato. Brunatto avrebbe pie­namente ragione di arrabbiarsi. Ma se non rischio..." Organizzare la consegna dei libri e dei documenti segreti non fu facile. Le persone che li custodivano si erano impegnate a non cederli per nessun motivo. Brunatto aveva preso precauzioni severe e astute. Aveva raccomandato loro di non dare mai niente a nessu­no se non dietro un ordine scritto e firmato da lui e da Morcaldi. Le due firme insieme. Una non sarebbe stata sufficiente. Le persone scelte per la custodia erano fidatissime. Nessuna avrebbe mai tradito. Morcaldi pensò che, per convincerle a ceder­gli i documenti senza il consenso di Brunatto, doveva dire loro la verità. Andò a San Giovanni Rotondo e radunò gli amici in casa delle sorelle Serritelli, dove erano custoditi i documenti. Oltre alle pa­drone di casa e allo stesso Morcaldi, c'erano Antonio Massa e Matteo Merla, i due amici del "Comitato per la difesa di Padre Pio" più attivi in quel momento. Morcaldi raccontò il suo incontro con il cardinale Rossi e riferì la richiesta esplicita che questi gli aveva fatto. - Al termine di una lunga discussione mi ha detto: «Occorre che diate una prova tangibile del vostro attaccamento alla Chie­sa", facendomi chiaramente capire che questa prova serviva a convincere il Papa della nostra serietà. E ha aggiunto deciso: "Ap­pena consegnati tutti i libri e i documenti, Padre Pio sarà libero". Ha detto proprio così. - Impossibile, richiesta impossibile! - sbottò Antonio Massa. - Sono la nostra unica arma. Se li consegniamo, siamo finiti -aggiunse Matteo Merla. - E poi non siamo i proprietari di quei documenti - precisò Angela Serritelli. - Li abbiamo solo in consegna e ci siamo impe­gnati a custodirli gelosamente. - Bisogna avvertire subito Brunatto - propose Massa. - Calma, calma - intervenne Morcaldi. - Ragioniamo un po­co. Tutto quello che dite è giusto, però voi sapete bene che Brunatto non cederà mai i documenti, quindi chiamarlo in causa significhe­rebbe chiudere la trattativa. D'altra parte, io ho l'assicurazione for­male che alla consegna dei documenti Padre Pio sarà liberato. È la promessa di un cardinale che mi ha dato la sua parola d'onore. E non l'ha data solo a me, ma anche ad altre persone, come Padre Sa­verio, suo confessore, Padre Bini, che mi ha mandato da lui, e credo anche Don Orione, che è all'origine segreta di questa iniziativa. Tocca a noi fare una scelta precisa: fidarci, consegnare i documenti e ottenere la liberazione di Padre Pio; oppure continuare questa lot­ta disperata che non presenta, per il momento, alcuna via d'uscita. - E se poi il cardinale non libera il Padre? Che garanzie abbiamo che manterrà la sua promessa? - domandò Massa. - La sua parola - rispose Morcaldi. - Purtroppo, nient'altro che la sua parola. Lo so che è poco, ma trovate un'altra strada... - Non mi fido - replicò Antonio Massa dopo qualche attimo di riflessione. - Parole sacrosante! - disse Morcaldi. - Che però danno un nuovo giro di chiave alla prigione di Padre Pio... - Che intendi dire? - Butti via l'unica occasione che ci è offerta in questo mo­mento per tentare di porre fine al carcere del Padre. - Ma se il cardinale non mantiene la parola, abbiamo buttato via tutte le occasioni possibili. Senza quei documenti per noi è fi­nita, non possiamo più trattare con quei signori. - È vero anche questo - ammise Morcaldi e aggiunse: - Se, però, il cardinale fosse uomo di parola, avremmo risolto la que­stione. Comunque ci siamo riuniti per discutere, valutare e pren­dere una decisione. Io mi sono impegnato a dare una risposta. - Io rischierei - disse Matteo Merla. - Anch'io - aggiunse Angela Serritelli. - Non riesco a convincermi - affermò scuotendo tristemente il capo Antonio Massa. - Però credo che si debba rischiare. - Allora siamo tutti d'accordo - concluse Morcaldi. - Posso cominciare ad organizzare la consegna. I presenti annuirono in silenzio. «L’ostacolo più difficile è superato" disse fra sé Morcaldi men­tre camminava nella notte verso la propria abitazione. Il paese era avvolto nel silenzio. Spirava una leggera brezza. L'estate ormai se n'era andata. "Siamo a metà settembre, e il caldo canicolare dovrebbe essere finito" si disse ancora Morcaldi inspirando profondamente. "La prima pioggia d'agosto rinfresca il bosco." Sorrise. Aveva meccanicamente ripetuto quel vecchio proverbio che, da bambino, aveva sentito tante volte dalla nonna. La nonna! L’infanzia! Quanti ricordi in quel paese, per quelle strade. Quanti anni erano passati. Quanti sogni non realizzati. Quante avventure aveva affrontato: la guerra, la Vita a Roma, le lotte politiche. E ora era lì a dannarsi per un frate chiuso in convento, come un car­cerato. Da mesi buttava via tempo e denaro, trascurava gli affari. Non pensava al proprio avvenire, preoccupandosi solo di quel religioso. Guardò in direzione della chiesetta di Santa Maria delle Grazie. Non si vedeva niente, ma sentì nel cuore un palpito, un sentimen­to fresco. "Non so perché" si disse Morcaldi "ma quello non è un religio­so qualsiasi. È Padre Pio. Io non mi batto per un innocente, mi batto per Padre Pio. È come se mi battessi per mio padre, per me stesso. Come sia nato questo legame, non lo so, ma è fortissimo. E sento che per lui farei qualunque cosa." Il mattino dopo Morcaldi cominciò a pensare ai volumi di Let­tera alla Chiesa custoditi in un garage a Monaco di Baviera. Li aveva in consegna Giuseppe De Paoli, un gioielliere di Bolzano che aveva negozi anche in Germania. "Figlio spirituale" di Padre Pio, De Paoli era un uomo fidatissimo, molto affezionato a Bru­natto. Morcaldi gli scrisse una lunga lettera in cui metteva a dura prova tutte le sue capacità dialettiche. Spiegò anche a lui la que­stione, gli evidenziò l'impossibilità di convincere Brunatto a com­piere quell'operazione, ma che era l'unico tentativo possibile per cercare di abbreviare le sofferenze di Padre Pio. Questo argomento, "abbreviare le sofferenze di Padre Pio", fu decisivo. Leggendo la lettera, De Paoli sentì che doveva fare il pos­sibile per collaborare. Tutti i "figli spirituali" del Padre sapevano quanto dolorosa fosse quella segregazione per lui, che aveva votato la propria vita al prossimo. Valutando le prospettive che avevano di fronte, sapendo che l'interlocutore era il cardinale Rossi in per­sona, anche De Paoli decise che era giusto rischiare. Tutto era pronto, quindi. Morcaldi e gli altri amici del Padre ave­vano fretta. Volevano abbreviare al massimo la sua segregazione. Morcaldi tornò a Roma. - Siamo pronti - comunicò a Padre Saverio. - Mi dica a chi devo consegnare il materiale. - Questa sera vado dal cardinale e domattina riceverò istruzio­ni precise - rispose. Il giorno dopo Padre Saverio disse a Morcaldi: - I libri devono essere consegnati al Nunzio Apostolico di Mo­naco di Baviera. Lui è già al corrente e provvederà a farli perveni­re al Papa con una valigia diplomatica. In questo modo, mi ha spiegato il cardinale, si evita che siano controllati alla frontie­ra. Gli altri documenti invece li consegnerete a me, che li porterò personalmente al cardinale Rossi. - Quindi, devo far trasportare i libri dal loro nascondiglio se­greto alla Nunziatura - disse Morcaldi. - Esatto. Il cardinale ha detto che le spese saranno a carico della Nunziatura. - No, no - replicò con orgoglio Morcaldi. - Non voglio sov­venzioni da nessuno. Provvederò io, a mie spese, a mandare una persona di mia fiducia ad effettuare il trasporto. - Per i documenti originali ci vediamo qui da me. - Sarò da lei al più presto. - Vedrà che i risultati dell'operazione saranno immediati - aggiunse Padre Saverio. Morcaldi fece in modo che fosse eseguito tutto alla perfezione e anche in fretta. In data 10 ottobre 1931 il segretario della Nunzia­tura Apostolica di Monaco di Baviera rilasciava a Giuseppe De Paoli, su carta intestata, una dichiarazione in cui affermava di "aver ricevuto 998 copie del libro Lettera alla Chiesa e 13 pacchi di cliché". In data 19 ottobre Padre Saverio, a Roma, rilasciava a Morcaldi di una dichiarazione in cui riferiva di «aver ricevuto 21 buste di documenti originali, debitamente elencati in appositi fogli e da me controllati", e che il tutto era stato da lui personalmente "rimesso nella mani delle alte autorità della Chiesa". Diceva anche: "Ci tengo a dichiarare che l'avvocato Francesco Morcaldi ha effettua­to tale consegna per mio mezzo, da figlio obbediente della Chiesa, a conoscenza della delicatezza dei medesimi documenti disinteres­satamente e al solo scopo di fare atto filiale e devoto ossequio alle suddette autorità ecclesiastiche". Cominciò l'attesa. A San Giovanni Rotondo tirava aria di festa. Morcaldi era convinto di aver portato a termine un'importante operazione diplomatica. Tutti coloro che vi avevano collaborato erano soddisfatti. Ma tutti, ora, attendevano i risultati. Morcaldi era impaziente. Pensava che lo "scambio" fosse im­mediato. Lui aveva consegnato libri e documenti, loro dovevano liberare Padre Pio. Dopo una settimana andò a trovare Padre Saverio. - Sia ragionevole - gli disse il religioso. - Il meccanismo ec­clesiastico è piuttosto complicato, fatica a mettersi in moto. Si tratta di aspettare qualche giorno ancora. Qui c'è di mezzo un cardinale importante, stia sicuro che tutto andrà a buon fine. Passarono altre due settimane. - Ho saputo proprio ieri che il Sant'Uffizio si è riunito in ses­sione plenaria e ha deciso la liberazione di Padre Pio - disse Padre Saverio. - Ma quando avverrà questa liberazione? - insistette Morcaldi. - Il tempo di formalizzare la decisione. - Quanto tempo? - Non lo so, non credo ci vorrà molto tempo. A dicembre Morcaldi ricevette una brutta notizia, un colpo mor­tale al suo progetto. La notizia proveniva dal Guardiano del convento di Santa Ma­ria delle Grazie, Padre Raffaele, di cui Morcaldi era amico. Padre Raffaele, ufficialmente, non sapeva nulla di ciò che Morcaldi e i suoi amici stavano facendo a favore di Padre Pio. In realtà era al corrente di tutto. Non poteva approvare quei metodi poco orto­dossi, ma in cuor suo sperava che riuscissero smuovere qualcosa. Perciò seguiva, e, se poteva, dava qualche aiuto. - Mi ha scritto il Padre generale, ci sono brutte notizie - co­municò a Morcaldi che era andato a fargli visita. - Non è possibile. Ho ricevuto assicurazioni dal cardinale Rossi che Padre Pio sarà liberato il più presto possibile - affermò sicuro Morcaldi. - Nella sua lettera il Generale mi informa di aver inviato una richiesta al Sant'Uffizio per ottenere un « addolcimento" della condizioni di Padre Pio. Non la «liberazione", ma un «addolci­mento" dell'attuale stato di segregazione. E gli è stato rifiutato. Questo significa che al Sant'Uffizio non sanno proprio niente del­le promesse del cardinale Rossi. Morcaldi si senti mancare. Provò un senso d’amarezza tremen­do. Si era fidato di quel porporato per devozione alla Chiesa, e sembrava che la sua fiducia fosse stata mal riposta. - Se le cose stanno veramente così - disse - allora è proprio fi­nita. Nel senso che non ci si può più fidare di nessuno. - Non saprei proprio che cosa pensare - aggiunse amaramen­te Padre Raffaele. - Anch'io mi ero illuso che la trattativa con il cardinale Rossi fosse più che sicura. Tuttavia, se ci fosse qualche iniziativa in corso, quelli del Sant'Uffizio non avrebbero dato una simile risposta al nostro Generale. Morcaldi aveva il morale a terra. Non riusciva ancora a convin­cersi che il cardinale lo avesse ingannato. "Non posso condannarlo finché lui stesso non mi ha dato una spiegazione" si disse e decise di tornare a Roma. L’atmosfera della città eterna in quei giorni che precedevano il Natale era fantastica. Nelle chiese c'era un fervore religioso e un'aria di festa che commuovevano. Morcaldi cominciò a tempe­stare di domande tutte le persone che lo avevano affiancato nel­l'operazione a favore di Padre Pio, e tutte difendevano accanita­mente il cardinale Rossi. - È una persona degnissima - gli assicurò Padre Bini. – È stato Don Orione a suggerirci di rivolgerci a lui. - So con certezza che manterrà le sue promesse - affermò ca­tegorico Padre Saverio, confessore del cardinale Rossi. Morcaldi registrava con soddisfazione tutte quelle prove di sti­ma nei confronti del cardinale, ma continuava ad essere sulle spine. Finalmente riuscì a farsi ricevere dal porporato. - Non deve agitarsi, ho promesso e manterrò - disse il cardi­nale Rossi. - Mi hanno riferito che al Sant'Uffizio non sanno niente delle sue promesse. - Non dia ascolto alle chiacchiere. I miei contatti non sono con gli impiegati del Sant'Uffizio. Si fidi di me. - I documenti che le ho consegnato sono arrivati al Papa? - Tutto a posto. Lei è stato preciso. - Ma lei, Eminenza, mi fa sospirare. Io pensavo che lo scambio fosse immediato... - Figliolo, mi sto muovendo. La pratica procede. Al Sant'Uffizio stanno studiando la formula da usare per poter cambiare le disposizioni. A quanto mi risulta, non è mai accaduto che il Sant'Uf­fizio abbia riesaminato una pratica già archiviata con il proposito di modificarne le conclusioni. Bisogna lasciar loro il tempo per mo­tivare le ragioni di questo cambiamento.

6

A San Giovanni Rotondo la vita di Padre Pio scorreva nell'immobilità assoluta. La sua giornata era fat­ta soprattutto di preghiera. La Messa che celebrava in una celletta trasformata per l'occasione in piccola cappella, alla presenza del so­lo inserviente, durava anche tre ore, ed era seguita da almeno un'ora di ringraziamento in coro. Il tempo libero, il Padre lo trascorreva in biblioteca a leggere libri di storia della Chiesa e di teologia. Pochissime persone riuscivano ad entrare in convento e ad avere contatti con lui. Solo un giovane di San Giovanni Rotondo, Petruccio, cieco dalla nascita, aveva il privilegio di poter incontrare il Padre quando voleva. E attraverso quel giovane Padre Pio face­va arrivare, di tanto in tanto, qualche bigliettino agli amici, alle "figlie spirituali". Era l'unico conforto umano che si concedeva. Secondo le dispo­sizioni dei Superiori, gli sarebbe stato proibito anche quello. Ma Padre Pio era una persona con cuore e sentimenti, e sapeva che quel piccolo, innocente sotterfugio, non faceva del male a nessuno e gli permetteva di portare un pò di sollievo alle persone che lo amava­no e che, in questa situazione, soffrivano pensando a lui. I pellegrini, sapendo che non era più possibile incontrare il Padre, a poco a poco erano andati scemando. Con l'arrivo della stagione invernale, quasi più nessuno saliva al convento. Il sagrato della chie­sa, un tempo sempre popolato, era deserto. Il silenzio assoluto. Ogni giorno, verso il tramonto, arrivava una ragazza che entrava in chiesa e si fermava a lungo a pregare. Poi usciva e, lentamente, fa­ceva un giro intorno alle mura dell'orto, guardando di tanto in tanto verso il convento nella speranza di vedere Padre Pio. Per i pellegrini di passaggio era una sconosciuta, mentre gli abitanti di San Giovan­ni la conoscevano bene: era Cleonice, una delle "figlie spirituali" di Padre Pio, la più giovane e quella che gli era più affezionata. Il Padre l'aveva vista crescere fin da quando era bambina. Orfana di papà, aveva trovato in lui un sostegno affettivo straordinario. Un "secon­do papà" che, con i suoi consigli e incoraggiamenti, l'aveva aiutata, soprattutto negli anni difficili degli studi magistrali. Adesso, non potendo parlare con lui, si sentiva orfana per la seconda volta. - Non devi andare al convento - gli ripeteva sua madre, Car­mela, anche lei "figlia spirituale" di Padre Pio. - Lo sai che non puoi vedere il Padre. Che ci vai a fare? - Se mio padre fosse in carcere - rispondeva Cleonice - io continuerei a girare intorno a quel carcere pur di poterlo védère. Padre Pio è come un papà per me, lo sai bene. Non posso rinun­ciare a tentare di vederlo, sia pure da lontano. Carmela capiva. Soffriva moltissimo anche lei per Padre Pio, ma anche per quella sua figlia, così affezionata al religioso. Un giorno Cleonice pensò di servirsi di Petruccio per far giunge-re un bigliettino al Padre. Su un foglio strappato da un quaderno di scuola scrisse: "Caro Padre, non vi affliggete tanto. Ora voi po­tete stare più vicino a Gesù, potete pregare di più". - Petruccio, fammi il favore, consegna questo bigliettino al Pa­dre - disse Cleonice al fortunato giovane che poteva entrare e uscire dal convento quando voleva. - Certo, Cleonice, lo faccio volentieri - rispose Petruccio che, nonostante il suo handicap, sapeva perfettamente quali erano le persone più care e vicine a Padre Pio, di chi poteva fidarsi e a chi poteva fare dei favori. Il giorno dopo Petruccio tornò da Cleonice con la risposta. Sul­lo stesso foglio il Padre aveva scritto: "Prega, e non credere che io sia contento. Farò la volontà di Dio. Ma devi sapere che la missio­ne del sacerdote è sull'altare e in confessionale". Il Padre, quindi, obbediva a quanto gli era stato imposto, ma ri­badiva la sua convinzione che quel "carcere" non era giusto, né davanti agli uomini né davanti a Dio. Aveva ricevuto una missine da Dio e doveva esercitarla. Non aveva commesso colpe che giustificassero quella punizione. Perciò soffriva. "Non credere che io sia contento." Cleonice voleva essergli vicino, fare qualche cosa per lui. Desi­derava fargli sentire il suo affetto filiale. Aveva escogitato un pia­no: trovare il modo di far sapere al Padre che, in alcuni momenti della giornata, si metteva in contatto spirituale con lui e, insieme, restavano uniti nella preghiera davanti a Dio. Tornò da Petruccio con un nuovo biglietto per il Padre in cui gli domandava quanto tempo, la sera dopo cena, si tratteneva in coro a pregare. Lui le rispose che ci stava fino alle li. Allora Cleonice gli scrisse: "Padre, mentre voi siete nel coro a pregare, io salgo nel­la soffitta della mia casa, dove c'è un abbaino dal quale posso ve­dere il convento. Vi tengo compagnia pregando per voi e per le vostre intenzioni". Padre Pio le rispose: «Ti permetto di stare a pregare in soffitta solo fino alle 11, ma non un minuto di più. Prima di ritirarmi nel­la mia cella, io vado a spegnere il faro che, quando comincia a far buio, viene acceso davanti alla chiesa. Quando vedi che spengo quel faro, sappi che ti do la benedizione e la buona notte". Leggendo quel biglietto Cleonice provò una grande gioia. Ave­va instaurato un contatto, un dialogo a distanza. Un dialogo tra anime: quella di un giovane sacerdote segnato nel corpo con il si­gillo di Cristo e ingiustamente incarcerato; e quella di una ragazza segnata dall'innocenza e dall'entusiasmo della propria giovinezza vissuta alla luce della fede e dell'amore. Tutte le sere Cleonice saliva in soffitta e si affacciava a quell'abbaino che le permetteva di vedere da lontano il faro acceso davan­ti alla chiesa del convento. Restava là, concentrata nella preghiera più intensa, sapendo di trovarsi davanti a Dio insieme al Padre, che in quel medesimo istante pregava nel coro della chiesa di fron­te al tabernacolo. E, in comunione spirituale con lui, offriva amo­re e sacrifici, offriva tutta se stessa per continuare la missione su­prema del Cristo, la salvezza del mondo. Cleonice si immergeva nella contemplazione dell'universo, «visi­bile e invisibile", come insegnava il «Credo". Guardava il cielo, a volte stellato, a volte denso di nubi minacciose, e si domandava quanto grande fosse, dove abitassero gli angeli, i santi, Dio. Imma­ginava quell'immenso mondo spirituale, e lo sentiva vivo e palpitante. Lo pregava per il suo "Padre" che tanto l'aveva aiutata e tan­to le voleva bene. Trascorreva le ore in questo stato di rapimento. Il freddo a volte era pungente, umido, penetrava nelle ossa, ma lei re­sisteva in attesa del "segnale" della buona notte. I fratelli di Cleonice si lamentavano. - Quella è fanatica - dicevano. - Con questo freddo può prendere un accidente. Si rivolgevano alla madre, Carmela: - Falla ragionare. Che cosa crede di ottenere standosene lassù sul tetto, come una pazza? - Avete ragione, ma non mi ascolta - si lamentava mamma Carmela. - Dice che Padre Pio è d'accordo, glielo ha permesso lui di stare là a pregare fino alle 11. - Fantasie, invenzioni. Figurati se Padre Pio ha tempo di pen­sare a lei, con tutto quello che gli succede. È fissata. Se va avanti così, si ammala. Carmela, sobillata da tutti i figli, si allarmava e non smetteva di richiamare la figlia alla realtà. - Cleonice, per favore, non essere ridicola. - Mamma, lasciami tranquilla. - Non posso lasciarti tranquilla vedendo che ti comporti da ir­responsabile. - Sto solo a pregare in unione con il Padre: che faccio di male? - Stai al freddo. Le notti ormai sono gelide, potresti ammalar­ti. Prega standotene a letto, sotto le coperte, al caldo. - La preghiera che conta non è quella fatta di parole, ma di soffe­renze. Padre Pio prega soprattutto con le stigmate che sanguinano. - Se questi tuoi sacrifici portassero un beneficio al Padre, capi-rei, ma non servono a niente. Rischi solo la polmonite. - Non è vero che i sacrifici non servono a niente. Sono preziosi, invece. Me lo ha insegnato il Padre. Noi, uniti a Cristo, formiamo un "unico corpo mistico". I meriti che una singola persona ottiene con le preghiere, le sofferenze, i sacrifici sopportati per amore di Gesù, servono ai fratelli che ne hanno bisogno. Il Padre soffre, offre le sue sofferenze per la conversione dei peccatori e sa che in questo modo ottiene la salvezza di tante anime. Restando lassù, sui tetti, al freddo, unita in preghiera con lui, io so di collaborare alla sua mis­sione. Per questo lo faccio. Il Padre mi ha detto di restare finché lui spegne il faro, perché in quel momento mi dà la benedizione. Carmela capiva. Quelle parole, quei concetti li aveva sentiti an­che lei da Padre Pio. Sapeva che facevano parte del suo insegna­mento, delle sue convinzioni. Ma aveva paura per la salute della figlia. Cleonice, invece, si sentiva coinvolta in un grande progetto. La sua povera vita di ragazza qualsiasi di un paesino sul Gargano era illuminata dalla consapevolezza d’essere, attraverso e in unione con Padre Pio, in contatto con Dio, di fare qualche cosa d’utile per il mondo. La sua esistenza era, in questo modo, piena, viva, fortemente motivata. Certe sere, però, soprattutto in quel gelido mese di dicembre, c'era la nebbia. Cleonice, nell'abbaino, si trovava avvolta in una nu­be grigiastra, umida, che penetrava nelle ossa. Il freddo era più atro­ce. Cercava di difendersi tenendo una coperta sulle spalle. Conti­nuava a guardare nella direzione del convento, tentando di scorgere il faro. Non voleva perdere il momento in cui il Padre lo spegneva, perché sapeva che in quel preciso istante le mandava la sua benedi­zione. Era l'attimo magico in cui si sentiva perfettamente unita a lui; il momento in cui poteva trasmettergli tutto il proprio affetto, sa­pendo che Padre Pio la pensava e che insieme erano immersi nella bontà infinita di Dio. Pregava e piangeva chiedendo al Signore che allontanasse quella brutta coltre di foschia. E quasi sempre, verso le 11, si levava una leggera brezza che squarciava la nebbia, e Cleonice poteva vedere quando il Padre spegneva il faro. "Oh, Signore, vi ringrazio" pregava Cleonice tra lacrime di gioia e andava a letto felice. Una sera, mentre era a tavola con la famiglia e le critiche dei fratelli per il suo comportamento che loro ritenevano assurdo era­no più forti del solito, arrivò Petruccio. - Ho un biglietto di Padre Pio per Cleonice - sussurrò a Car­mela che era andata alla porta. - Grazie, Petruccio, glielo do subito. Vuoi restare a cena con noi? - No, signora Carmela, vado a casa, mi aspettano. - Chi era, mamma? - domandò Antonietta, la figlia maggio­re, quando la madre rientrò in cucina dove stavano cenando. - Era Petruccio. Ha portato un biglietto di Padre Pio per Cleonice - e lo allungò alla figlia che lo lesse immediatamente. - Possiamo sapere che cosa ti scrive? - domandò Giuseppe, il cognato, con tono ironico. Cleonice lo guardò amareggiata perché sapeva che non le crede­va mai. Poi lesse ad alta voce: - La tua compagnia mi è di conforto, pregherò per te. Padre Pio. Quelle parole furono accolte da un gran silenzio. In famiglia ca­pirono finalmente che il Padre sapeva delle veglie notturne di Cleonice e le apprezzava. La ragazza, quindi, non era una mito­mane. Da quel giorno non la presero più in giro. A Pietrelcina la notizia che Padre Pio non riceveva più i pellegrini, non si faceva vedere tra la gente e non celebrava la Messa in chiesa aveva portato apprensione, soprattutto tra i suoi parenti. Michele Forgione, il fratello maggiore, continuava a chiedere informazioni. Ma, purtroppo, dopo la morte del vecchio parroco, Don Salvatore Pannullo, i nuovi sacerdoti non ne sapevano molto più di lui. - Non ti preoccupare, se fosse ammalato te lo avrebbero fatto sapere - gli dicevano per tranquillizzarlo. Michele, conoscendo le strane difficoltà in cui suo fratello si di­batteva, non era affatto sereno. Temeva soprattutto che le chiac­chiere giungessero alle orecchie del papà, Grazio. Dopo la perdita della moglie, Grazio si era chiuso in se stesso. Stava tutto il giorno nei campi e, tornando a casa, parlava poco. Michele cercava di di­strarlo, ma senza riuscirci. Nuove preoccupazioni per il figlio reli­gioso avrebbero potuto aumentare le sue sofferenze. Michele andò da Don Orlando, il sacerdote amico di famiglia e legatissimo a Padre Pio. - Cercate di sapere esattamente che cos'è accaduto - gli do­mandò apprensivo. - Conta su di me, Michele - gli promise Don Orlando parlan­dogli con tono sicuro. - Ho già chiesto in giro e so che sta bene. Non scende a celebrare la Messa in chiesa per le solite beghe che co­nosci anche tu. I suoi Superiori vorrebbero evitare l'eccessivo entu­siasmo con cui viene accolto. La gente gli vuole troppo bene. Gli sta addosso, vuole toccarlo. Figurati che gli tagliano perfino i vestiti per potersene andare con un suo ricordo. Ecco la ragione per cui vogliono tenerlo fuori dalla mischia. Subito dopo le feste andrò a trovarlo e gli porterò i tuoi saluti. Comunque, tranquillizzati che tuo fratello sta bene, ne sono sicuro. Michele tornò a casa sereno, e Don Orlando iniziò ad organizzare il viaggio a San Giovanni. Da tempo pensava di andare a trovare il suo Piuccio, ma per una ragione o per l'altra aveva sempre rimanda­to. Le preoccupazioni di Michele lo avevano convinto. "Chissà come si sentirà restando sempre chiuso in convento,”diceva fra sé. "Sono stato proprio cretino a non pensare di andare subito da lui." Il giorno dell'Epifania il Sud fu invaso da una corrente d’aria cal­da proveniente dall'Africa, e sembrava che fosse arrivata la primave­ra con grande anticipo. Don Orlando decise di affrontare il viaggio. - Caro Peppino, ti vedo tanto volentieri - gli disse Padre Pio abbracciandolo con affetto. - Che fatica entrare qua dentro - si lamentò Don Orlando. - Non ti volevano far passare? - Ho dovuto litigare. Io sono un sacerdote e sono tuo cugino, perbacco. Inoltre, vengo a nome di tuo fratello Michele e di tuo padre Grazio. - Devi avere pazienza, Peppino. I miei confratelli hanno rice­vuto degli ordini e cercano di rispettarli per non offrire occasioni alle autorità per altri rimproveri, altre restrizioni. A proposito, co­me stanno i miei? - Bene. Però Michele è preoccupato. Teme che qualche pette­golezzo arrivi alle orecchie di tuo padre. Grazio è sempre tanto solo e parla poco. Non si sa come potrebbe prenderla. - Povero papà mio, quanto vorrei essergli vicino! - Ma qui sei proprio in prigione! - esclamò Don Orlando, al quale non era affatto andata a genio l'accoglienza ricevuta. - So no venuto molte altre volte, mi conoscono, mi hanno sempre fatto tante feste, ho dormito in convento. Ohè, questa volta non mi vo­levano far passare! È dovuto intervenire il Guardiano. E ho fatto la voce grossa. Ma che sta succedendo, Piuccio? - Che ti devo dire? Non capisco. Non mi sento colpevole di nulla, non ho avuto nessun processo, ma sono stato ugualmente condannato. Che ci posso fare? - Sorrise amaramente. Don Orlando lo fissò dritto negli occhi. - Senti, Piuccio - gli disse - noi due siamo come fratelli, ci vo­gliamo bene. Non devi avere segreti per me: come stai veramente? Padre Pio abbassò lo sguardo e chinò il capo restando in silenzio. - Ho capito, non ti va molto bene - aggiunse Don Orlando. - Va male, Peppino - sospirò il Padre. - Va molto male. Vi­vere sempre qua dentro, senza poter fare niente per gli altri, è du­ra. Faccio la volontà di Dio. Ma se Lui mi ha fatto diventare sa­cerdote, mi ha affidato la missione di dedicarmi alla salute dei fratelli, non può volere che me ne stia chiuso qui dentro senza svolgere alcun apostolato. Nel caso avesse voluto questo da me, mi avrebbe chiamato a fare il trappista, il monaco benedettino. - Come hai trascorso il Natale? - Puoi immaginare... Ero abituato a viverlo in mezzo alla gente. Confessioni a non finire, il presepe, la Messa di mezzanotte con la processione per portare la statua di Gesù Bambino nel pre­sepe. Niente di tutto questo. Qui, solo. Per fortuna posso dire la Messa e quindi conversare con Gesù. - Padre Raffaele mi ha detto che il giorno di Natale sei rimasto sull'altare sette ore. - Ho cercato conforto in Gesù. Mi sentivo morire. Mi sono ag­grappato a Lui e ho cercato di trascorrere tutto il giorno con Lui. Crocifisso al crocifisso. Padre Pio tolse dalla tasca del saio il suo grande fazzoletto e si asciugò gli occhi. - Vedi, Peppino, io non sono forte. Non ho una gran salute. Non sarei potuto diventare un predicatore, un professore, un mis­sionario come tanti miei confratelli. Avevo chiesto al Signore di potermi dedicare all'apostolato delle confessioni, e sembrava che lui mi avesse ascoltato. Mi sentivo utile esercitando quel ministe­ro, e me lo hanno tolto. Adesso non servo proprio a niente. Sono inutile, Peppino. - Non dire così. Nessuno è inutile. Tu preghi e sai che la pre­ghiera vale molto più dell'azione. - Me lo dico sempre anch'io e cerco di pregare giorno e notte. - Hai notizie da Roma? So che il Padre generale e tanti tuoi amici influenti stanno cercando di porre fine a questo assurdo iso­la mento. - Lo so, ma pare che non si arrivi ad una conclusione positiva. - Come trascorri le tue giornate? - Prego, studio, leggo e do noia ai miei confratelli. - Mi hanno detto che non hai perduto il tuo buon umore, la voglia di scherzare, di raccontare barzellette. - Faccio il buffone. Siamo un pò tutti buffoni in questo mon­do, e ognuno deve ingegnarsi a fare il buffone dove il Buon Dio l'ha messo. Dovrei tediare i miei confratelli mettendo in mostra le mie lacrime di sangue? - Hai contatti con i tuoi "figli spirituali", con le "figlie spiri­tuali"? - Non so niente. Qualche biglietto di nascosto, come un ladro. Spero che il Signore mi perdoni. - Fatti coraggio, Piuccio. - Non ne ho quasi più, Peppino. - Insomma, sei proprio carcerato... - Peggio. Un carcerato vero, condannato per colpe autentiche, conosce il proprio destino. Dopo la sentenza, sa quanti anni, quan­ti mesi, quanti giorni devono passare prima della sua liberazione. Può contare le ore trascorse e quelle che deve ancora trascorrere in galera. Beato lui. Ma io? Non so niente. Non so perché sono carce­rato e quanto dovrò restare qui al chiuso. Non c'è processo, non c'è sentenza, non ci sono neppure accuse. È terribile, Peppino, te lo di­co io, è terribile! - Hai qualche idea da suggerirmi? Pensi che io possa fare qual­cosa per te? - Che vuoi fare, Peppino? Con chi te la vuoi prendere? Non si sa niente, questa è la verità. Vieni a trovarmi di tanto in tanto in modo che possa vedere il viso di un vero amico. Questo puoi fare. Cerca di volermi bene, Peppino. Si sta tanto male senza affetto. - Sai quanto te ne voglio, Piuccio. Stai tranquillo che tornerò presto e non preoccuparti che nessuno riuscirà a tenermi fuori del convento. Si abbracciarono. Don Orlando ricordò di averlo gia visto così sconvolto dal dolore tanti anni prima, nel 1918, quando aveva appena ricevuto le stigmate. "È sempre più crocifisso, povero diavolo" pensò e a stento riu­scì a frenare la commozione.

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