L'autunno dell'innocenza



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Il fiume, nel 1960, era largo più di cento metri in quel punto; sono tornato a guardarlo, da allora, e ho trovato che si era ri­stretto un bel po' nel corso degli anni. Da sempre sono stati a giocare con il fiume, cercando di farlo lavorare meglio per i mulini, e ci hanno messo tante di quelle dighe che è quasi del tutto domato. Ma a quei tempi c'erano solo tre dighe per tutta la lunghezza del fiume attraverso il New Hampshire e mezzo Maine. Il Castle era ancora quasi libero allora, e una primavera sì e due no usciva dagli argini e inondava la Route 136 a Harlow o a Danvers Junction, o in tutti e due i posti.

Ora, alla fine dell'estate più secca che il Maine occidentale avesse mai visto dalla depressione, era ancora ampio. Da dove eravamo noi, dal lato di Castle Rock, il lato di fitta foresta dalla parte di Harlow sembrava tutto un altro paese. I pini e gli abeti rossi dall'altra parte erano azzurrini nella foschia del calore po­meridiano. I binari attraversavano il fiume a un'altezza di una quindicina di metri, sostenuti da una struttura di pali di legno incatramato e di travi incrociate. L'acqua era così bassa che guardando di sotto si poteva vedere la parte superiore dei bloc­chi di cemento piantati a tre metri di profondità nel letto del fiume per sostenere il ponte.

Questo era piuttosto rozzo — i binari correvano su una lun­ga piattaforma di travi di legno di dieci per quindici. Tra ogni coppia di queste travi c'era uno spazio di dieci centimetri, attra­verso il quale si poteva guardare nell'acqua per tutto l'attraver­samento. Dai due lati, non c'era più di mezzo metro tra la rotaia e il bordo del ponte. Se arrivava un treno, forse c'era spazio a sufficienza per evitare di farsi schiacciare... ma l'aria spostata da un merci sparato ti avrebbe spedito sicuramente a morte certa sulle rocce affioranti alla superficie dell'acqua che correva di sotto.

Guardando il ponte, sentimmo tutti la paura che prendeva a strisciarci nello stomaco... e mista alla paura c'era l'eccitazione di una grossa sfida, ma grossa davvero, qualcosa di cui potevi poi vantarti per settimane una volta tornato a casa... se tornavi a casa. Quella luce strana stava tornando negli occhi di Teddy, e pensai che non era affatto il ponte ferroviario della GS&WM che vedeva, ma una lunga spiaggia sabbiosa, mille mezzi da sbarco prendere terra tra le onde schiumose, diecimila Gì cari­care sulla sabbia, gli stivali da combattimento ben piantati. Saltano rotoli di filo spinato! Lanciano granate nelle casematte! Snidano postazioni di mitragliere!

Eravamo accanto ai binari dove i ciottoli scivolavano via verso la riva del fiume — il punto in cui la massicciata terminava e iniziava il ponte. Guardando giù, potevo vedere dove la discesa cominciava a farsi ripida. I ciottoli lasciavano il posto ai cespu­gli ispidi e duri e alle lastre di roccia grigia Più giù c'era qualche abete stentato con le radici all'aria che si tacevano strada attra­verso le fessure delle lastre di roccia; sembravano guardar giù verso il loro misero riflesso nell'acqua che scorreva.

In quel punto, il Castle sembrava davvero abbastanza pulito; a Castle Rock sarebbe entrato nella zona degli impianti tessili del Maine. Ma non c'erano pesci che guizzavano, anche se il fiume era così limpido che si vedeva il fondo — bisognava risa­lirlo di una decina di miglia verso il New Hampshire prima di vedere qualche pesce, nel Castle. Non c'erano pesci, e lungo le rive si potevano vedere le strisce di schiuma sudicia attorno alle rocce — schiuma del colore dell'avorio vecchio. Neppure l'odo­re del fiume era particolarmente gradevole; sembrava una vasca di ammollo di una lavanderia piena di tovaglie ammuffite. Le libellule si appoggiavano al pelo dell'acqua deponendovi impunemente le loro uova. Non c'erano trote che le mangiassero. Cavoli, nemmeno lasche c'erano.

«Gente», disse Chris a bassa voce.

«Forza», fece Teddy con quella sua maniera secca, arrogan­te. «Andiamo.» Già si stava dirigendo verso il ponte, cammi­nando sulle travi tra le rotaie scintillanti.

«Sentite», disse Vern a disagio, «qualcuno di voi sa quan­do dovrebbe passare il prossimo treno?»

Ci stringemmo tutti nelle spalle.

Io dissi: «C'è il ponte stradale della 136...»

«Ehi, un momento, piantatela!» esclamò Teddy. «Signifi­cherebbe camminare per cinque miglia lungo il fiume da questa parte e per cinque miglia in qua dall'altra parte... faremmo notte! Se usiamo questo ponte possiamo arrivare allo stesso punto in dieci minuti

«Ma se arriva il treno, non c'è dove andare», disse Vern. Non guardava Teddy. Guardava giù per il fiume rapido.

«Cazzo se non c'è!» disse Teddy schifato. Passò oltre il bordo e si tenne a uno dei supporti di legno tra le rotaie. Non si era spinto troppo in là — le scarpe gli toccavano quasi il suolo — ma l'idea di fare la stessa cosa sopra il centro del fiume con un salto di quindici metri sotto e un treno che passa sferraglian­do giusto sopra la mia testa, un treno che probabilmente mi schizza un bel po' di scintille infuocate tra i capelli e lungo la schiena... proprio non mi faceva sentire la Reginetta del Giorno.

«Vedete com'è facile?» disse Teddy. Si lasciò cadere sulla massicciata, si spolverò le mani e risalì tra noi.

«Vuoi dire che ti appendi in quel modo se c'è sopra un mer­ci da duecento carri?» chiese Chris. «Che te ne stai appeso lì attaccato con le mani per cinque o dieci minuti?»

«Ti tiri indietro?» ringhiò Teddy.

«No, sto solo chiedendo che intendi fare», disse Chris sor­ridendo. «Stai buono, amico.»

«Voi fate il giro se volete!» sbraitò Teddy. «Chi se ne fotte? Vi aspetto! Mi faccio un sonno!»

«Un treno è già passato», dissi io riluttante. «E probabil­mente non ce ne sono più di uno o due al giorno che passano a Harlow. Guardate qua.» Diedi un calcio alle erbacce che cre­scevano in mezzo alle traversine. Tra i binari della linea che va da Castle Rock a Lewiston di erbacce non ce n'erano.

«Ecco. Visto?» fece Teddy trionfante.

«Ma c'è sempre la possibilità», aggiunsi.

«Già», disse Chris. Guardava soltanto me, gli occhi che gli brillavano. «Ti sfido, Lachance.»

«Chi sfida va prima.»

«Okay», disse Chris. Allargò lo sguardo fino a comprende­re Teddy e Vern. «C'è qualche femminuccia qui?»

«No!» urlò Teddy.

Vern si schiarì la voce, tossì, se la schiarì di nuovo, e disse «No» con una voce esilissima. Fece un debole sorriso.

«Okay», disse Chris... ma esitammo un attimo, anche Teddy, guardando cauti su e giù per le rotaie. Mi inginocchiai e strinsi forte con una mano un binario, senza curarmi che scottava quasi da bruciare la pelle. Il binario era muto.

«Okay», dissi, e mentre lo dicevo qualcuno nel mio stoma­co fece il salto con l'asta. Mi piantò l'asta nelle palle, mi parve, e mi finì a cavalcioni sul cuore.

Ci avviamo lungo il ponte in fila indiana; Chris per primo, poi Teddy, poi Vern e poi io a fare il fanalino di coda perché avevo detto io chi sfida va prima. Camminavamo sulle traverse in mezzo ai binari, e bisognava guardare dove si mettevano i piedi, che si avesse paura dell'altezza o meno. Un passo falso e ci si infilava nello spazio vuoto, probabilmente con anche una caviglia rotta.

La massicciata scendeva ripida sotto di me, e ogni passo avanti sembrava sigillare più fermamente la nostra decisione... e farla sembrare più stupidamente suicida. Mi fermai per alzare gli occhi quando vidi le rocce lasciare il posto all'acqua, lonta­no, sotto di me. Chris e Teddy erano molto avanti, quasi a me­tà, e Vern avanzava lentamente dietro di loro, scrutando atten­tamente giù ai suoi piedi. Sembrava una vecchia signora che prova i trampoli, la testa spinta in avanti, la schiena curva, le braccia in fuori per mantenere l'equilibrio. Mi guardai alle spal­le. Troppo lontano, amico. Dovevo continuare ad andare, or­mai, e non solo perché poteva arrivare un treno. Se fossi tornato indietro sarei stato una femminuccia per tutta la vita.

E così ripresi a camminare. Dopo aver guardato giù l'inter­minabile serie di traversine per un po', con tra l'una e l'altra la visione dell'acqua che ci scorreva sotto, cominciai a sentire le vertigini, a sentirmi disorientato. Ogni volta che mettevo giù un piede, una parte del mio cervello mi giurava che sarei affondato nel vuoto, anche se potevo vedere benissimo che non era così.

Mi venne la coscienza precisissima di tutti i rumori dentro e fuori di me, come una orchestra di matti che accorda gli stru­menti. Il picchiare continuo del cuore, il battito del sangue nelle orecchie come un tamburo suonato con le spazzole, il cigolio dei tendini come le corde di un violino troppo tese, il sibilo ininter­rotto del fiume, il ronzare incandescente di una cavalletta che scavava in una corteccia, il richiamo monotono di una cincia, e da qualche parte, molto lontano, il latrato di un cane. Forse Chopper. L'odore di muffa del Castle penetrava acuto nel mio naso. I muscoli delle cosce mi tremavano. Continuavo a dirmi quanto più sicuro (e probabilmente anche più rapido) sarebbe stato mettersi a quattro zampe e avanzare così. Ma non potevo farlo — nessuno di noi poteva farlo. Se mai gli spettacoli del sabato mattina al cinema Gem ci avevano insegnato qualcosa, questo era che Solo i Perdenti Strisciano. Era uno dei coman­damenti fondamentali del Vangelo secondo Hollywood. I tipi in gamba camminano eretti, e se i tendini ti cigolano come corde di violino troppo tirate perché l'adrenalina ti scorre a fiumi per tutto il corpo, e se i muscoli delle gambe ti tremano per la stessa ragione, be', amen.

Dovetti fermarmi in mezzo al ponte e alzare gli occhi al cielo per un po'. La sensazione di vertigine stava peggiorando. Vidi delle traversine fantasma — mi ballavano giusto davanti al na­so. Poi svanirono e mi sentii di nuovo a posto. Guardai avanti e vidi che avevo quasi raggiunto Vern, che avanzava più lenta­mente che mai. Chris e Teddy erano arrivati quasi dall'altra par­te.

E anche se da allora ho scritto sette libri su gente che sa fare cose stravaganti come leggere il pensiero e prevedere il futuro, fu quella la mia prima e ultima esperienza di un lampo psichico. Sono sicuro che si trattò di quello; come spiegarlo altrimenti? Mi chinai e presi nel pugno il binario alla mia sinistra. Vibrava nella mano. Vibrava così forte che era come tenere un pugno di serpenti metallici.

Avete sentito dire: «Sentì le viscere farsi acqua»? Io lo so che cosa significa questa frase — so esattamente che cosa signifi­ca. Potrebbe essere la più precisa frase fatta mai coniata. Da allora ci sono state altre volte in cui ho avuto paura, molta pau­ra, ma mai quanta ne avevo in quel momento, mentre tenevo in mano quel binario vivo e rovente. Mi parve per un attimo che tutti gli organi al di sotto del livello della gola si fossero fatti inerti e rimanessero lì stesi in uno svenimento interno. Un sottile rivolo di orina mi corse abbandonato lungo una coscia. La boc­ca mi si aprì. Non la aprii io, si aprì da sola, la mascella scattò cadendo come una trappola a cui sia stato d'un tratto tolto il fermo. La lingua mi si era incollata contro il palato in maniera soffocante. Tutti i muscoli erano bloccati. Questo era il peggio. Gli organi erano inerti ma i muscoli erano in una specie di spa­ventosa paralisi, e non potevo fare alcun movimento. Fu solo un attimo, ma nel flusso temporale soggettivo, parve un'eternità.

Tutti i dati sensoriali si intensificarono, come se fosse avve­nuto un sovraccarico di corrente nell'impianto elettrico del cer­vello, portando il tutto da centodieci volt a duecentoventi. Sentii un aeroplano passare nel cielo da qualche parte nelle vicinanze ed ebbi il tempo di desiderare di esserci sopra, seduto in poltro­na con una Coca in mano a guardare oziosamente giù la linea scintillante di un fiume di cui non sapevo il nome. Potevo vedere ogni minima scheggia e nodo della traversina incatramata su cui ero accucciato. E con la coda dell'occhio potevo vedere il bina­rio che la mia mano stringeva ancora, che scintillava pazzamen­te. La vibrazione del binario era penetrata così profondamente nella mano che quando la tolsi vibrava ancora, le terminazioni nervose che si urtavano all'infinito, formicolandomi come for­micola una mano o un piede che s'è addormentato e comincia a svegliarsi. Potevo sentire il sapore della mia saliva, improvvisa­mente tutta elettrica e aspra e spessa sulle gengive. E, peggio, più orribile di tutto, non potevo ancora sentire il treno, non potevo sapere se mi avrebbe travolto davanti o dalle spalle, né quanto era vicino. Era invisibile. Non annunciato, tranne che per quella rotaia vibrante. C'era solo questo ad avvertire l'arrivo imminente. Un'immagine di Ray Brower, spaventosamente ma­ciullato e scaraventato in un fosso da qualche parte come un sacco di biancheria squarciato, mi si presentò davanti agli occhi. Lo avremmo raggiunto, o almeno lo avremmo raggiunto Vern e io, o almeno l'avrei raggiunto io. Ci eravamo invitati al nostro funerale.

Quest'ultimo pensiero ruppe la paralisi e scattai in piedi. Probabilmente a chi mi avesse visto sarei sembrato un pupazzo a molla di quelli che balzano fuori dalla scatola, ma a me diedi l'impressione di uno visto al rallentatore sott'acqua, che schizza su non per un metro e mezzo di aria ma attraverso centocinquanta metri di acqua, muovendosi lentamente, muovendosi con paurosa fiacchezza in mezzo all'acqua che si apre a fatica.

Ma finalmente ruppi la superficie.

Urlai «TRENO!»

Le ultime tracce di paralisi mi abbandonarono e attaccai a correre.

La testa di Vern si girò di scatto. La sorpresa che ne distor­ceva i lineamenti pareva quasi una caricatura umoristica, scritta in grande come le lettere del sillabario. Mi vide rompere nella mia goffa corsa sbilenca, saltellando da una traversina orribil­mente alta all'altra, e capì che non scherzavo. Si mise anche lui a correre.

Molto più in là, vidi Chris che scendeva dai binari sulla soli­da sicura massicciata e lo odiai con un improvviso lampo verde di odio, aspro e amaro come il succo di una foglia di aprile. Era in salvo. Quel fottuto era in salvo. Lo vidi che si buttava in ginocchio e afferrava una rotaia.

Il piede sinistro mi mancò quasi sotto. Agitai le braccia, gli occhi che mi scottavano come cuscinetti a sfera in un macchina­rio, ripresi l'equilibrio e continuai la mia corsa. Ora ero alle spalle di Vern. Avevamo superato la metà e per la prima volta sentii il treno. Veniva da dietro di noi, dal lato Castle Rock del fiume. Era un rombo profondo che cominciava a crescere e a dividersi nel ruggito del motore e nel rumore più acuto, più sini­stro delle grosse ruote che giravano pesanti sui binari.

«Ahhhhhhhhhh, cazzo!» strillava Vern.

«Corri, vigliacco!» urlai io e gli diedi un colpo nella schie­na.

«Non posso! Cado!»

«Corri più forte!»

«AHHHHHHHHHHH-CAZZO!»

Ma correva più forte, spaventapasseri saltellante col dorso nudo, abbronzato, il colletto della camicia ciondolante sotto il sedere. Vedevo il sudore spuntargli sulle scapole spellate; fermo in perline perfette. Vedevo la peluria fine sulla base del collo. I suoi muscoli si tendevano e si distendevano, si tendevano e si distendevano, si tendevano e si distendevano. La spina dorsale spuntava con una serie di nodi, e ogni nodo proiettava la sua ombra a mezzaluna — vedevo che questi nodi si facevano più fitti man mano che si avvicinavano al collo. Stringeva ancora il suo sacco a pelo e io stringevo ancora il mio. I piedi di Vern pestavano sulle traversine. Ne mancò quasi una, balzò in avanti con le braccia in fuori, e io gli battei ancora sulla schiena per spingerlo ad andare avanti.

«Gooordieee non posso AHHHHHHHHH-CAAAAAZZOOO...»

«CORRI PIÙ FORTE, FACCIADICAZZO!» urlai e me la stavo godendo?

Già — in un certo modo particolarissimo, autodistruttivo, un modo che ho poi provato solo quando ero completamente e definitivamente sbronzo, me la stavo godendo. Stavo spingendo Vern Tessio come un vaccaro che porta al mercato una vacca particolarmente bella. E forse lui si stava godendo la sua paura in quello stesso modo, muggendo come quella stessissima vacca, urlando e sudando, la cassa toracica che si gonfiava e ricadeva come il mantice del fabbro, mantenendo goffamente il passo, barcollando avanti.

Il treno era fortissimo adesso, il motore profondo come un tuono continuo. Il fischio risuonò quando arrivò al punto di snodo dove ci eravamo fermati a tirare sassi alla bandierina. Alla fine l'avevo avuto il mio cane infernale, che mi piacesse o no. Continuavo ad aspettare che il ponte si mettesse a tremarmi sotto i piedi. A quel punto lo avremmo avuto giusto dietro di noi.

«VAI PIÙ FORTE, VERN! PIÙ FORTEEE!»

«ODDIO Gordie Oddio Gordie Oddio Gordie OHHHHHHHH-CAAAAAAZZOOO!»

La sirena elettrica del merci frantumò all'improvviso l'aria in mille pezzi con un solo lungo violento scoppio, facendo volar via tutto quello che hai mai visto in un film o in un libro di fumetti o in uno dei tuoi sogni a occhi aperti, facendoti sapere che cosa eroi e vigliacchi sentono veramente quando la morte vola su di loro:

WHHHHHHHHONNNNNNK! WHHHHHHHHHHHH-HONNNNNNNNNK!

Ed ecco che Chris era sotto di noi e sulla destra, e Teddy era dietro di lui, gli occhiali lampeggianti di sole, e tutti e due ave­vano sulla bocca una sola parola e la parola era salta! ma il treno aveva succhiato via tutto il sangue, dalla parola, lascian­done solo la forma sulla bocca. Il ponte cominciò a vibrare ap­pena il treno vi montò sopra. Saltammo.

Vern finì lungo disteso nella polvere e i sassi, e io atterrai vicinissimo a lui, quasi addosso a lui. Non lo vidi mai, quel treno, né so se il macchinista ci vide — quando un paio di anni fa accennai a Chris alla possibilità che non ci avesse visto, lui disse: «Non suonano la sirena così per gioco, Gordie». Ma poteva anche essere; poteva aver tirato la sirena tanto per fare. Penso io. In quel momento, questi particolari non avevano eccessiva importanza. Mi schiacciai le orecchie con le mani e ficcai la faccia nella polvere mentre il merci passava, metallo stridente contro metallo, l'aria che ci inve­stiva. Non avevo nessuna fretta di guardare. Era un lungo treno, ma non lo guardai mai. Prima che fosse completamente passato sentii una mano calda sul collo e seppi che era Chris.

Quando fu passato — quando fui sicuro che fosse passato — alzai la testa come un soldato che esce dalla sua tana alla fine di un giorno intero di sbarramento di artiglieria. Vern era ancora incol­lato a terra, tremante. Chris sedeva a gambe incrociate in mezzo a noi, una mano sul collo sudato di Vern, l'altra ancora sul mio.

Quando Vern finalmente si mise a sedere, tremando per tut­to il corpo e leccandosi freneticamente le labbra, Chris disse: «Che ne dite se ci bevessimo quelle Coche? A qualcun altro andrebbe oltre che a me?»

A tutti ne andava una.
15
A circa quattrocento metri dentro la zona di Harlow, il tracciato della GS&WM si infilava direttamente in mezzo ai boschi. Il terreno fitto di vegetazione scendeva in pendio verso un'area paludosa. Era pieno di zanzare grosse quanto dei caccia, ma era fresco... benedettamente fresco.

Ci sedemmo all'ombra a berci le nostre Coca cola. Vern e io ci tirammo le camicie sulle spalle per difenderci dagli insetti, mentre Chris e Teddy rimasero nudi fino alla vita, freschi e a loro agio come due eschimesi nel loro igloo. Non eravamo lì neppure da cinque minuti che Vern dovette allontanarsi tra i cespugli a farsi una seduta, cosa che provocò un bel po' di bat­tute e di gomitate quando ritornò.

«Te ne ha messa di paura il treno, eh, Vern?»

«No», rispose Vern. «Dovevo già farla quando abbiamo cominciato ad attraversare, comunque, dovevo farla, sapete?»

«Verrrrrrn?» fecero Chris e Teddy in coro.

«Andiamo ragazzi, dovevo. Veramente.»

«Allora non ti dispiace se controlliamo il fondo dei tuoi cal­zoni?» chiese Teddy, e Vern rise, comprendendo finalmente che lo stavano prendendo in giro.

«Andate a farvi fottere.»

Chris si volse a me. «Ti ha spaventato quel treno, Gordie?»

«Noo», feci io, e presi un sorso di Coca.

«Non molto, sbruffone.» Mi diede un pugno al braccio.

«Veramente! Non ero per niente spaventato.»

«Sì? Non eri spaventato?» Teddy mi scrutava attentamente.

«No! Ero pietrificato.»

Questo li stese tutti, compreso Vern, e ridemmo forte e a lungo. Poi rimanemmo sdraiati lì, senza dire altro, solo a bere in silenzio. Mi sentivo il corpo caldo, attivo, in pace con me stesso. Dentro filava tutto liscio come l'olio. Ero vivo e felice di esserlo. Mi pareva che ogni cosa spiccasse con una tenerezza speciale, e anche se non avrei mai potuto esprimerlo a parole pensavo che non importasse — forse quel senso di tenerezza era qualcosa che volevo tenere per me.

Credo che fu quel giorno che cominciai a capire un po' come succede che un uomo diventa un temerario. Un paio di anni fa ho pagato venti dollari per vedere Evel Kneivel che tentava il salto sopra lo Snake River Canyon e mia moglie ne fu inorridita. Mi disse che se fossi nato nell'antica Roma sarei stato sempre nel Colosseo a piluccare grappoli d'uva e a guardare i leoni che sbudellavano i cristiani. Aveva torto, anche se mi fu difficile spiegarle perché. Non tirai fuori quei venti biglietti per guardare quell'uomo morire, anche se ero sicuro che era esattamente quello che sarebbe successo. Ci andai per quelle ombre che sono sempre da qualche parte dietro i nostri occhi, per quello che Bruce Springsteen in una delle sue canzoni chiama le tenebre al limite del paese, e prima o poi credo che tutti vogliano sfidare quelle tenebre a dispetto dei goffi corpi che qualche burlone di un Dio ha dato a noi esseri umani. No... non a dispetto dei goffi corpi, ma grazie a loro.

«Ehi, raccontaci quella storia», disse all'improvviso Chris, mettendosi a sedere.

«Che storia?» chiesi io, anche se immaginavo di saperlo.

Mi sentivo sempre imbarazzato quando il discorso cadeva sulle mie storie, nonostante tutti sembrassero apprezzarle — aver voglia di raccontare storie, o addirittura di scriverle... era quasi tanto bizzarro da essere fin troppo regolare, come deside­rare crescere e fare l'ispettore delle fogne o il meccanico del Grand Prix. Richie Jenner, un ragazzo che se la faceva con noi finché nel 1959, la famiglia non si trasferì nel Nebraska, fu il primo a scoprire che da grande volevo fare lo scrittore, che vo­levo farlo come lavoro a tempo pieno. Eravamo su nella mia stanza, a perdere tempo, e lui trovò un mazzo di fogli scritti, sotto i fumetti in una cartella nell'armadio. Cosa è questo? chie­de Richie. Niente, dico io, e cerco di tirarglieli via. Richie tiene le pagine lontane dalla mia presa... e devo ammettere di non aver fatto uno sforzo eccessivo per riprenderle. Volevo che le leggesse e al tempo stesso non volevo — un misto scomodo di orgoglio e di timidezza che non è mai cambiato troppo dentro di me quando qualcuno chiede di vedere. L'atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione — oh, ho un amico che ha fatto cose come scrivere storie nelle vetrine delle librerie e dei grandi magazzini, ma quello è un uomo che ha un coraggio quasi folle, il tipo di uomo che vorreste avere con voi se vi capi­ta un infarto in una città dove non vi conosce nessuno. Per me è sempre un voler essere sesso e non arrivarci — sempre il lavoro di mano da adolescente nel bagno con la porta chiusa.

Richie stette quasi tutto quel pomeriggio seduto sul mio letto a leggere la roba che avevo fatto, per lo più influenzata dallo stesso genere di fumetti che dava gli incubi a Vern. E quando ebbe finito, Richie cominciò a guardarmi in uno strano modo nuovo, che mi faceva sentire molto particolare, come se si ve­desse costretto a riconsiderare tutta quanta la mia personalità. Disse: Sei bravo. Perché non glieli fai vedere a Chris? Io dissi no, doveva essere un segreto, e Richie disse: Perché? Non è mica cosa da femminucce. Non sei mica un finocchio. Voglio dire, mica sono poesie.

Mi feci promettere lo stesso di non dire a nessuno delle mie storie, cosa che chiaramente lui fece immediatamente, e risultò che a quasi tutti piacevano le cose che scrivevo, cose per lo più su essere sepolti vivi o su uno che torna dall'aldilà e fa fuori la giuria che l'ha condannato con i Dodici Metodi Più Interessanti o del maniaco che dà fuori e riduce la gente in cotolette prima che l'eroe, Curt Cannon «fece a pezzi il folle subumano, un pezzo di piombo dopo l'altro, con la sua fumante quarantacinque automatica».

Nei miei racconti c'erano sempre pezzi di piombo. Mai proiettili.

Per cambiare ritmo c'erano le storie di Le Dio. Le Dio era una cittadina della Francia, e durante il 1942, uno sporco ploto­ne di stanche facce di mastini americani cercavano di riprender­la dai nazisti (questo due anni prima che scoprissi che gli Alleati non sbarcarono in Francia prima del 1944). Continuavano a tentare di rioccuparla, combattendo di strada in strada, nel cor­so di una quarantina di racconti che scrissi tra i nove e i quat­tordici anni. Teddy andava completamente pazzo per le storie di Le Dio, e credo di aver scritto l'ultima dozzina solo per lui — a quel punto ero stufo marcio di Le Dio e di scrivere cose come Mon Dieu e Cherchez le Boche! e Fermez la porte! A Le Dio i contadini francesi sibilavano in continuazione sulle facce di ma­stino americane di Fermez la porte! Ma Teddy si curvava sulle pagine, gli occhi spalancati, la fronte imperlata di sudore, la faccia contratta. Certe volte potevo proprio sentire le Browning raffreddate ad aria e le 88 sventagliare dentro il suo cranio. Il modo in cui sollecitava sempre nuove storie di Le Dio era a un tempo lusinghiero e spaventoso.

Oggi scrivere è il mio lavoro e il piacere è un po' diminuito, e sempre più spesso quel piacere colpevole, masturbatorio, è ve­nuto ad associarsi nella mia mente con le fredde immagini cliniche dell'inseminazione artificiale: vengo secondo le norme e le regole stabilite dal mio contratto di edizione. E anche se nessu­no mi chiamerà mai il Thomas Wolfe della mia generazione, raramente mi sento un imbroglione: mi ci metto con tutta la mia forza ogni fottuta volta. Fare di meno sarebbe, in un certo sen­so, come diventare finocchio — o quello che significava per noi allora. Quello che mi spaventa è quanto spesso oggi mi fa male. Allora a volte mi prendeva il disgusto per quanto dannatamente mi faceva star bene scrivere. Oggi, qualche volta, guardo questa macchina per scrivere e mi domando quando rimarrà all'asciut­to di parole giuste. Non voglio che questo accada. Scommetto che posso rimanere in forma finché non rimango a corto di pa­role giuste, sapete?

«Che storia è?» chiese Vern a disagio. «Non sarà una storia dell'orrore, eh, Gordie? Non credo che ho voglia di sentire storie dell'orrore. Non sono in vena, amico.»

«No, non è dell'orrore», disse Chris. «È divertentissima. Vai avanti Gordie. Raccontaci.»

«È su Le Dio?» chiese Teddy.

«No, non è su Le Dio, fanatico», fece Chris e gli diede un pugno. «È su una gara di mangiatorte.»

«Ehi, ma non l'ho ancora nemmeno scritta», dissi io.

«Sì, ma raccontala.»

«Volete sentirla?»

«Certo», disse Teddy. «Dai, capo.»

«Be', è su questa città inventata, Gretna, l'ho chiamata. Gretna, Maine.»

«Gretna?» ghignò Vern. «Che razza di nome è? Non ci so­no Gretne nel Maine.»

«Stai zitto, idiota», disse Chris. «Ti ha appena detto che si tratta di una città inventata, no?»

«Sì, ma Gretna, suona così stupido...»

«Un sacco di paesi suonano stupidi», disse Chris. «Voglio dire, che c'è di intelligente in Alfred, Maine? O in Saco, Maine? O in Jerusalem's Lot? O in Castle-fottuto-Rock? C'è un castello, lì. Tutti i nomi di paesi, quasi, sono stupidi. Non ci fai caso per­ché sei abituato. Giusto, Gordie?»

«Certo», dissi, ma dentro di me pensai che Vern aveva ra­gione — Gretna era un nome proprio stupido per una città. Solo che non me ne era venuto un altro. «Insomma, fanno le loro annuali Giornate dei Pionieri, proprio come a Castle Rock...»

«Già, le Giornate dei Pionieri sono una cosa bestiale», fece Vern gravemente. «Ho convinto tutta la famiglia a salire su quella galera a ruote che hanno, perfino quel fottuto di Billy. Era solo un'ora e mezzo e mi è costato tutta quanta la mia paga settimanale, ma valeva la pena solo per sapere dove quel figlio di puttana di...»

«Vuoi chiudere il becco e lasciarlo continuare?» lo zittì Teddy.

Vern sbatté gli occhi. «Certo. Sicuro. Okay.»

«Vai avanti, Gordie», disse Chris.

«Non è davvero un gran...»

«Andiamo, non ci aspettiamo molto da un piscione come te», disse Teddy, «ma raccontala lo stesso.»

Mi schiarii la gola. «Allora. Sono le Giornate dei Pionieri e l'ultima sera fanno queste tre grosse manifestazioni. C'è la gara con le uova per i bambini piccoli, una corsa nei sacchi per quelli sugli otto o nove anni, e poi c'è la gara delle torte. E il perso­naggio principale della storia è questo ragazzino grasso che non è simpatico a nessuno e che si chiama Davie Hogan.»

«Come il fratello di Charlie Hogan, se ne avesse uno», disse Vern, e poi si tirò indietro quando Chris gli diede un altro pu­gno.

«Questo ragazzo è uno della nostra età, ma è grasso. Peserà ottanta chili e continuano a picchiarlo e a sfotterlo. E tutti i ragazzi invece di chiamarlo Davie lo chiamano Culo di Lardo Hogan e lo sfottono ogni volta che ne hanno l'occasione.»

Annuirono pieni di rispetto e di considerazione per il povero Culo di Lardo, anche se, se mai un tipo così si fosse presentato a Castle Rock, saremmo tutti usciti a sfotterlo e a tormentarlo.

«E allora lui decise di prendersi una rivincita perché ne ha, diciamo, piene le scatole, sapete? Lui si presenta soltanto alla gara delle torte da mangiare, ma quella è la manifestazione fina­le durante le Giornate dei Pionieri e ci tengono tutti. Il premio sono cinque carte...»

«E allora lui vince e glielo mette nel culo a tutti!» disse Teddy. «Fantastico!»

«No, è meglio di così», disse Chris. «Stai zitto e senti.»

«Culo di Lardo pensa tra sé, cinque carte, che saranno? Se qualcuno si ricorderà più niente del tutto tra due settimane, sarà solo che quel brutto porco di Hogan si è fatto fuori tutto, be', diranno, andiamo a casa sua e facciamogli il culo, solo che ora lo chiameremo Culo di Torta invece che Culo di Lardo.»

Annuirono ancora, d'accordo sul fatto che David Hogan era uno con le rotelle che gli giravano bene. Cominciavo ad affezio­narmi alla mia storia.

«Ma tutti si aspettano che lui partecipi alla gara, sapete. Anche la sua mamma e il suo papà. Ehi, praticamente danno quei cinque dollari per già spesi.»

«Già, esatto», disse Chris.

«E così lui ci pensa su, e tutta la faccenda gli fa schifo, perché essere grasso non è poi colpa sua. Vedete, ha quelle fot­tute glandole strane, qualcosa, e...»

«Mia cugina è così!» esclamò Vern eccitato. «Veramente! Pesa quasi centocinquanta chili! Dovrebbe essere la glandola iboide o qualcosa del genere. Non so niente della sua glandola iboide, ma cazzo che palla che è, senza scherzi, pare un fottuto tacchino ripieno e una volta...»

«Vuoi chiudere quella cazzo di bocca, Vern?» gridò con violenza Chris. «Per l'ultima volta! Giuro su Dio!» Aveva fini­to la sua coca e ora aveva impugnato la bottiglia per il collo e la puntava minaccioso verso la testa di Vern.

«Sì, giusto, scusa. Vai avanti, Gordie. È una storia bestiale.»

Sorrisi. In realtà non mi dispiacevano le interruzioni di Vern, ma ovviamente questo a Chris non potevo dirlo; lui si era auto­nominato Guardiano dell'Arte.

«E così si sta rigirando la cosa nella mente, sapete, per tutta la settimana prima della gara. A scuola, i compagni continuano ad andargli vicino e a dirgli: Ehi Culo di Lardo, quante torte ti mangi? Te ne mangi dieci? Venti? Ottanta? E Culo di Lardo, lui dice: Che ne posso sapere? Non so neppure di che tipo sono. E, vedete, c'è un certo interesse per la gara perché il campione è uno grande che si chiama, ehm, Bill Traynor, probabilmente. E questo Traynor, lui non è nemmeno grasso. Anzi, è un vero chiodo. Ma è capace di mangiare torte come se niente fosse, e l'anno prima si è mangiato sei torte in cinque minuti.»

«Torte intere?» chiese Teddy sbalordito dall'ammirazione.

«Esatto. E Culo di Lardo è il più giovane che abbia mai partecipato alla gara.»

«Forza, Culo di Lardo!» gridò Teddy eccitato. «Fatti fuori quelle fottute torte!»

«Digli degli altri della gara», mi sollecitò Chris.

«Okay. Oltre a Culo di Lardo Hogan e Bill Traynor, c'era Calvin Spier, il tizio più ciccione della città — era il proprietario della gioielleria.»

«Gretna Gioielli», fece Vern e sghignazzò. Chris gli lanciò un'occhiata da fulminarlo.

«E poi c'era questo tizio che faceva il disc jockey in una radio di Lewiston. Non era proprio grasso, ma un po' paffuto, sapete. E infine c'era Hubert Gretna Terzo, che era il direttore della scuola di Culo di Lardo Hogan.»

«E lui mangia contro il suo direttore?» chiese Teddy.

Chris si strinse le ginocchia e si mise a dondolare avanti e indietro felice. «Non è grande? Vai avanti, Gordie!»

Ormai li tenevo in pugno. Erano tutti ansiosi. Sentivo un inebriante senso di potere. Lanciai la mia bottiglia vuota nel folto e mi agitai un po' per trovare una posizione comoda. Mi ricordo che sentii di nuovo la cincia, tra gli alberi, molto più lontana, adesso, che alzava il suo richiamo monotono, intermi­nabile, nel cielo: di-di-di-di...

«E allora gli viene quest'idea», dissi, «la più grande idea di vendetta che abbia mai avuto un ragazzino. La grande serata arriva - l'ultima delle Giornate dei Pionieri. La gara delle torte si fa subito prima dei fuochi d'artificio. Il corso principale di Gretna è stato chiuso al traffico, così che la gente può cammi­narci, e c'è un grande palco alzato proprio nella via. È tutto imbandierato e davanti c'è una gran folla. C'è anche un fotogra­fo del giornale. E poi, avevo quasi dimenticato di dirvelo, de­vono mangiare le torte con le mani legate dietro la schiena. E così sapete, salgono sul palco...»


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