Margaret atwood



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muto questa eventualità, ma ora ero talmente terrorizzata che l'avevo scac-

ciata dalla mia mente.

L'ultima mattina, che non sapevo sarebbe stata l'ultima, la mamma sem-

brava più presente. Era più fragile, ma al tempo stesso più compatta - più

concreta. Mi guardava come se mi vedesse. «C'è così tanta luce qui den-

tro» mormorò. «Potresti chiudere le tende?» Feci come mi era stato chie-

sto, poi tornai al suo capezzale, tormentando il fazzoletto che Reenie mi

aveva dato nel caso mi fossi messa a piangere. Mia madre mi prese la ma-

no; la sua era calda e asciutta, le dita come duttile filo metallico.

«Fai la brava bambina» disse. «Spero che sarai una buona sorella per

Laura. So che ci proverai».

Annuii. Non sapevo cosa dire. Mi sentivo vittima di un'ingiustizia: per-

ché toccava sempre a me essere una buona sorella per Laura, e non vice-

versa? Sicuramente mia madre voleva più bene a Laura che a me.

Forse non era così; forse ci amava nello stesso modo. O forse non aveva

più l'energia di amare nessuno: era andata oltre tutto questo, nella strato-

sfera gelata, lontanissima dal campo magnetico denso e caldo dell'amore.

Ma non riuscivo a immaginare una cosa del genere. Il suo amore per noi

era un dato - solido e tangibile, come una torta. L'unico problema era a

quale di noi sarebbe andata la fetta più grossa.

(Che invenzioni sono, le madri. Spaventapasseri, bambole di cera su cui

poter conficcare le nostre spille, rozzi diagrammi. Neghiamo loro un'esi-

stenza propria, le costruiamo in modo che si adattino a noi - alle nostre

bramosie, ai nostri desideri, ai nostri difetti. Ora che lo sono stata anch'io,

lo so).


Mia madre mi fissava con il suo sguardo azzurro. Che sforzo deve esser-

le costato tenere gli occhi aperti. Come devo esserle sembrata lontana - una

macchia rosa remota, vacillante. Quanto deve esserle riuscito difficile con-

centrarsi su di me! Eppure, io non scorsi affatto il suo stoicismo, se pure di

stoicismo si trattava.

Volevo dire che si era sbagliata sul mio conto, sulle mie intenzioni. Non

provavo sempre a essere una brava sorella: piuttosto era il contrario. A

volte chiamavo Laura peste e le dicevo di non darmi fastidio, e solo la set-

timana prima l'avevo trovata a leccare una busta - una delle mie buste spe-

ciali, per i biglietti di ringraziamento - e le avevo detto che la colla che c'e-

ra sopra era fatta con i cavalli bolliti, cosa che le aveva provocato conati di

vomito e l'aveva fatta singhiozzare. A volte mi nascondevo da lei in un ce-

spuglio di lillà accanto alla serra, e me ne stavo là a leggere libri con le dita

infilate nelle orecchie, mentre lei andava in giro a cercarmi, chiamando i-

nutilmente il mio nome. Talmente spesso me la cavavo facendo solo il mi-

nimo indispensabile.

Ma non avevo parole per esprimere tutto ciò, il mio disaccordo con la

versione delle cose data dalla mamma. Non sapevo che di lì a poco mi sa-

rebbe rimasta addosso l'idea che lei aveva di me; l'idea della mia bontà ap-

puntata su di me come una spilla, e senza alcuna possibilità di tirargliela

appresso (come sarebbe stato il normale sviluppo degli avvenimenti tra

una madre e una figlia - se lei fosse vissuta, quando io fossi stata più gran-

de).

Fiocchi neri



Stasera c'è un tramonto fosco, che stenta a spegnersi. A est lampi che ba-

lenano sul cielo sospeso, poi un tuono improvviso, una porta che sbatte di

colpo. La casa è come un forno, nonostante il mio nuovo ventilatore. Ho

portato fuori una lampada; a volte vedo meglio nell'oscurità.

La scorsa settimana non ho scritto nulla. Mi sono scoraggiata. Perché

annotare avvenimenti così tristi? Ma ho ricominciato. Ho ripreso i miei

scarabocchi neri; si svolgono come un lungo filo scuro di inchiostro attra-

verso la pagina, intricati ma leggibili. Ho dunque intenzione di lasciare una

firma, dopo tutto? Dopo tutto quanto ho fatto per evitare di lasciare il mio

segno: iniziali scritte col gesso sul marciapiede, o la X di un pirata sulla

mappa, per svelare la spiaggia in cui era sepolto il tesoro.

Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? Perfino

mentre siamo ancora vivi. Desideriamo affermare la nostra esistenza, come

i cani che fanno la pipì sugli idranti antincendio. Mettiamo in bella mostra

le nostre fotografie in cornice, i nostri diplomi di pergamena, le nostre taz-

ze placcate d'argento; mettiamo i monogrammi sulla nostra biancheria, in-

cidiamo i nostri nomi sugli alberi, li scarabocchiamo sulle pareti dei bagni

pubblici. È sempre lo stesso impulso. Cosa speriamo di ricavarne? Ap-

provazione, invidia, rispetto? O semplicemente attenzione, di qualunque

tipo riusciamo a ottenerne?

Come minimo vogliamo un testimone. Non sopportiamo l'idea che alla

fine le nostre voci tacciano, come una radio che si sta scaricando.

Il giorno dopo i funerali di mia madre fui mandata con Laura in giardi-

no. Fu Reenie a spedirci fuori; disse che aveva bisogno di tenere i piedi un

po' sollevati, perché l'avevano portata su e giù tutto il giorno. «Sono allo

stremo delle forze» disse. Aveva delle macchie violacee sotto gli occhi, e

supposi che avesse pianto, in segreto per non disturbare nessuno, e che a-

vrebbe continuato a farlo una volta che avessimo sgombrato il campo.

«Faremo le brave» dissi. Non volevo uscire - mi pareva che ci fosse una

luce troppo viva, troppo abbagliante, e mi sentivo le palpebre gonfie e rosa

- ma Reenie disse che dovevamo andare, e che comunque l'aria fresca ci

avrebbe fatto bene. Non ci fu detto di uscire a giocare, perché sarebbe stato

irriverente farlo subito dopo la morte della mamma. Ci venne solo detto di

uscire.


Il ricevimento per il funerale aveva avuto luogo ad Avilion. Non fu

chiamata una veglia funebre - le veglie si tenevano dall'altra parte del fiu-

me Jogues, ed erano chiassose e sconvenienti, a base di liquori. No: il no-

stro era un ricevimento. Il funerale era stato affollato, erano venuti gli ope-

rai della fabbrica, le loro mogli, i loro bambini, e naturalmente i notabili

della città - i banchieri, il clero, gli avvocati, i dottori -, ma il ricevimento

non fu per tutti, anche se avrebbe potuto benissimo esserlo. Reenie disse

alla signora Hillcoate, che era stata chiamata per dare una mano, che Gesù

poteva anche avere moltiplicato i pani e i pesci, ma il Capitano Chase non

era Gesù e da lui non ci si aspettava che sfamasse le moltitudini, sebbene

come al solito non avesse saputo limitarsi e lei sperasse soltanto che nes-

suno sarebbe stato calpestato a morte nella ressa.

Quelli che erano stati invitati si erano accalcati in casa, pieni di deferen-

za, lugubri, avidi di curiosità. Reenie aveva contato i cucchiai sia prima

che dopo, e disse che avremmo dovuto usare quelli di qualità più scadente,

e che certa gente se ne sarebbe andata con qualunque cosa che non fosse

inchiodata a terra pur di avere un ricordino, e - considerato il modo in cui

mangiavano - avrebbe potuto benissimo mettere in tavola delle palette in-

vece dei cucchiai.

Nonostante ciò era avanzato del cibo - metà di un prosciutto, un muc-

chietto di biscotti, svariate torte saccheggiate - e io e Laura ci eravamo in-

trufolate furtivamente nella dispensa. Reenie lo sapeva, ma in quel mo-

mento non ebbe la forza di fermarci - di dire «Vi rovinerete la cena», o

«Smettetela di sgranocchiare nella mia dispensa o vi trasformerete in to-

pi», o «Mangiate un'altra briciola e scoppierete» - oppure di pronunciare

uno qualsiasi degli altri avvertimenti o profezie da cui ricavavo un segreto

conforto.

Per quell'unica volta avevamo avuto il permesso di rimpinzarci senza

freno. Io avevo mangiato troppi biscotti, troppi pezzi di prosciutto; avevo

mangiato un'intera fetta di torta alla frutta. Indossavamo ancora i vestiti ne-

ri, che erano troppo caldi. Reenie ci aveva pettinato i capelli in strette trec-

ce e li aveva tirati indietro, con un rigido nastro di gros-grain in cima e uno

in fondo a ogni treccia: quattro austere farfalle nere per ognuna di noi.

Fuori, il sole mi fece socchiudere gli occhi. Mi irritò il verde intenso del-

le foglie, il giallo e il rosso intensi dei fiori: la loro sicurezza, quel guizzan-

te mettersi in mostra, come se ne avessero il diritto. Pensai di decapitarli,

di devastarli. Mi sentivo desolata, nonché di malumore e gonfia. Lo zuc-

chero mi ronzava nella testa.

Laura voleva che ci arrampicassimo sulle sfingi accanto alla serra, ma

dissi di no. Poi voleva andare a sedersi accanto alla ninfa di pietra e guar-

dare i pesci rossi. Non ci vidi niente di male. Laura saltellò davanti a me

sul prato. Era allegra in maniera fastidiosa, come se non avesse una sola

preoccupazione al mondo; era stata così durante tutto il funerale della

mamma. Sembrava sconcertata dal dolore di quanti la circondavano. Ciò

che mi bruciava ancora di più era che per questo motivo la gente sembrava

più dispiaciuta per lei che per me.

«Povero agnellino» dicevano. «È così piccola, non si rende conto».

«La mamma è con Dio» diceva Laura. È vero, questa era la versione uf-

ficiale, il significato di tutte le preghiere che erano state recitate; ma Laura

aveva un suo modo di credere a certe cose, non nel duplice senso in cui ci

credevano tutti gli altri, ma con una tranquilla risolutezza che mi faceva

venire voglia di scuoterla.

Ci sedemmo sulla sporgenza rocciosa in riva allo stagno delle ninfee;

ognuna di esse scintillava al sole come gomma verde bagnata. Avevo do-

vuto issare Laura. Si era appoggiata contro la ninfa di pietra e dondolava le

gambe, agitando le mani nell'acqua, canticchiando tra sé e sé.

«Non dovresti cantare» le dissi. «La mamma è morta».

«Non è vero» replicò Laura con aria soddisfatta di sé. «Non è morta

davvero. È in Paradiso con il bambino».

La spinsi giù dalla sporgenza. Ma non dentro lo stagno - avevo un po' di

cervello. La spinsi sull'erba. Non era un gran salto e il terreno era soffice;

non si sarebbe potuta fare molto male. Si sdraiò sulla schiena, quindi si ro-

vesciò e mi guardò con gli occhi spalancati, come se non potesse credere a

ciò che avevo appena fatto. La bocca le si aprì in una perfetta O a bocciolo

di rosa, come un bambino che soffi sulle candeline in un libro illustrato.

Poi si mise a piangere.

(Devo ammettere che ne fui gratificata. Volevo che anche lei soffrisse -

quanto me. Ero stanca che la facesse sempre franca perché era tanto picco-

la).

Laura si tirò su dall'erba e si mise a correre lungo il vialetto posteriore



verso la cucina, piangendo come se l'avessi accoltellata. Le corsi dietro:

sarebbe stato meglio essere presente quando avesse raggiunto qualcuno dei

grandi, nel caso mi avesse accusato. Correva goffamente: le braccia spor-

gevano in modo buffo, le piccole gambe magre si aprivano in maniera

scomposta, i rigidi nastri ballonzolavano in fondo alle trecce, il vestito ne-

ro svolazzava. Strada facendo cadde una volta, e allora si fece male davve-

ro - si sbucciò la mano. Nel vederlo fui sollevata: un po' di sangue avrebbe

nascosto la mia cattiveria.

La bibita

Un giorno, nel mese dopo la morte della mamma - non ricordo quando

con precisione - mio padre disse che mi avrebbe portata in città. Non mi

aveva mai prestato troppa attenzione, e neppure a Laura - ci aveva affidate

alla mamma, e poi a Reenie - perciò fui sorpresa della sua proposta.

Non portò Laura. Non accennò neppure a farlo.

Annunciò l'imminente gita al tavolo della colazione. Aveva cominciato a

insistere che io e Laura facessimo colazione con lui, invece che in cucina

con Reenie, come prima. Noi sedevamo a un'estremità del lungo tavolo e

lui all'altra. Ci parlava raramente: preferiva leggere il giornale, e noi era-

vamo troppo in soggezione per interromperlo. (Lo adoravamo, naturalmen-

te. O lo adoravi o lo odiavi. Non ispirava emozioni più moderate).

Il sole che penetrava attraverso i vetri colorati delle finestre gettava su di

lui riflessi di varie sfumature, come se fosse stato immerso nell'inchiostro

da disegno. Ricordo ancora il cobalto della sua guancia, il mirtillo brillante

delle dita. Io e Laura avevamo anche noi quei colori a nostra disposizione.

Spostavamo i nostri piatti di porridge un po' a destra, un po' a sinistra, in

modo che perfino il grigio scialbo della nostra farina d'avena si trasformas-

se in verde o blu o rosso o viola: cibo magico, o incantato, o avvelenato a

seconda del mio capriccio o dell'umore di Laura. Poi mentre mangiavamo

ci facevamo a vicenda le smorfie, ma zitte zitte. Lo scopo era di compor-

tarsi così senza che lui se ne accorgesse. Be', dovevamo pur fare qualcosa

per divertirci.

Quello strano giorno, mio padre tornò presto dalla fabbrica e andammo

in città a piedi. Non era tanto lontano; a quel tempo nessun punto della cit-

tà era troppo lontano dall'altro. Mio padre preferiva camminare, piuttosto

che guidare o farsi portare dall'autista. Credo che fosse per la gamba catti-

va: voleva dimostrare di farcela. Gli piaceva camminare a grandi falcate

per la città e lo faceva nonostante zoppicasse. Io gli correvo accanto, cer-

cando di stare al passo con la sua andatura irregolare.

«Andiamo da Betty's» disse mio padre. «Ti compro una bibita». Nessuna

di queste due cose era mai accaduta prima. Il Betty's Luncheonette era per

la gente di città, non per me e Laura, diceva Reenie. Non sarebbe stato be-

ne scendere al di sotto del nostro livello. E poi, le bibite erano un vizio

dannoso e ci avrebbero rovinato i denti. Il fatto che due cose tanto proibite

mi fossero state offerte in un colpo solo, e in maniera così naturale, mi fece

quasi precipitare nel panico.

Sulla strada principale di Port Ticonderoga c'erano cinque chiese e quat-

tro banche, tutte fatte di pietra, tutte squadrate. A volte bisognava leggere i

nomi che c'erano scritti sopra per distinguerle, sebbene le banche fossero

senza campanile. Il Betty's Luncheonette era accanto a una di queste. Ave-

va un tendone a strisce verdi e bianche e in vetrina il disegno di un pastic-

cio di pollo che aveva piuttosto l'aria di un cappello da neonato fatto di

impasto per dolci, con una balza arricciata attorno al bordo. Dentro, la luce

era di un giallo fioco, e l'aria profumava di vaniglia e caffè e formaggio fu-

so. Il soffitto era fatto di lamiera stampata; ne penzolavano alcuni ventila-

tori con le pale che ricordavano eliche di aereo. Parecchie donne con il

cappello sedevano a tavolini bianchi pesantemente decorati; mio padre fe-

ce un cenno del capo nella loro direzione, e quelle lo ricambiarono.

Lungo un lato c'erano alcuni séparé di legno scuro. Mio padre prese po-

sto a uno di essi, e io gli scivolai di fronte. Mi chiese che tipo di bibita vo-

lessi, ma non ero abituata a trovarmi da sola con lui in un luogo pubblico,

ed ero intimidita. Inoltre non sapevo che tipi ce ne fossero. Così ordinò

una bibita alla fragola per me e una tazza di caffè per sé.

La cameriera aveva un vestito nero e una crestina bianca e le so-

pracciglia depilate a formare curve sottili, e una bocca rossa brillante come

marmellata. Chiamava mio padre Capitano Chase e lui la chiamava Agnes.

Da questo, e dal modo in cui appoggiava i gomiti sul tavolo, mi resi conto

che doveva già conoscere quel posto.

Agnes disse se ero la sua bambina, e com'ero dolce; mio padre mi lanciò

un'occhiata antipatica. Lei gli portò il caffè quasi subito, oscillando leg-

germente sui tacchi alti, e nel posarlo gli toccò brevemente la mano. (Presi

nota di quel tocco, anche se non potevo ancora interpretarlo). Poi portò la

bibita per me, in un bicchiere a cono come un berretto d'asino capovolto;

dentro c'erano due cannucce. Le bollicine mi andarono su per il naso e mi

fecero lacrimare gli occhi.

Mio padre mise una zolletta di zucchero nel caffè e lo girò, quindi batté

leggermente il cucchiaino su un lato della tazza. Lo studiai da sopra il bor-

do del mio bicchiere. All'improvviso sembrava differente; sembrava qual-

cuno che non avessi mai visto prima - più inconsistente, in qualche modo

meno solido, ma più dettagliato. Aveva i capelli pettinati all'indietro e ta-

gliati corti ai lati, e si stava stempiando; l'occhio buono era di un blu spen-

to, come la carta da zucchero. Il suo viso distrutto, ancora bello, aveva la

stessa aria distante che aveva la mattina, al tavolo della colazione, quasi

stesse ascoltando una canzone, o un'esplosione in lontananza. I baffi erano

più grigi di quanto avessi mai notato, e mi sembrava strano, a pensarci be-

ne, che agli uomini crescessero simili setole sulla faccia e alle donne no.

Anche i suoi soliti vestiti erano diventati misteriosi in quella cupa luce o-

dorosa di vaniglia, come se appartenessero a qualcun altro e lui li avesse

soltanto presi in prestito. Erano troppo grandi per lui, ecco. Si era ristretto.

Ma al tempo stesso era più alto.

Mi sorrise, e mi chiese se mi stessi gustando la mia bibita. Dopodiché

rimase in silenzio e pensieroso. Poi tirò fuori una sigaretta dalla custodia

d'argento che portava sempre con sé, l'accese e soffiò fuori il fumo. «Se

succede qualcosa» disse alla fine, «devi promettermi di prenderti cura di

Laura».


Annuii con aria solenne. Cosa voleva dire qualcosa? Cosa poteva succe-

dere? Temetti qualche cattiva notizia, anche se non avrei saputo dire quale.

Forse se ne sarebbe andato via, oltreoceano. Le storie della guerra non era-

no andate sprecate con me. Tuttavia non diede altre spiegazioni.

«Qua la mano, d'accordo?» disse. Allungammo le mani al di sopra del

tavolo; la sua era dura e asciutta, come il manico di una valigia di cuoio. Il

suo unico occhio buono mi studiava, come se stesse valutando se fossi o

meno affidabile. Sollevai il mento, raddrizzai le spalle. Volevo disperata-

mente meritarmi il suo giudizio positivo.

«Cosa puoi comprare con un nichelino?» chiese poi. Questa domanda mi

colse impreparata, mi lasciò ammutolita: non lo sapevo. Io e Laura non ri-

cevevamo mai denaro da spendere come volevamo, perché Reenie diceva

che prima dovevamo imparare il valore di un dollaro.

Dalla tasca interna del vestito scuro tirò fuori il suo taccuino rivestito di

pelle di cinghiale e ne strappò un foglietto. Poi si mise a parlare di bottoni.

Non era mai troppo presto, disse, perché cominciassi a imparare i semplici

rudimenti dell'economia, che mi sarebbero serviti per agire in maniera re-

sponsabile quando fossi cresciuta.

«Supponi di cominciare con due bottoni» disse. Disse: quello che ti co-

sta produrre i bottoni sono le tue spese, e la cifra a cui riesci a vendere i

bottoni è il tuo incasso. Questa cifra meno la spesa, nel corso di un dato

periodo di tempo, è il tuo guadagno netto. A questo punto potresti tenerti

una parte del guadagno netto e usare il resto per fare quattro bottoni, e poi

dovresti vendere anche quelli ed essere in grado di farne otto. Disegnò un

piccolo grafico con la sua matita d'argento: due bottoni, poi quattro botto-

ni, poi otto bottoni. I bottoni si moltiplicavano in maniera stupefacente sul-

la pagina; nella colonna accanto, il denaro si accumulava. Era come sgu-

sciare piselli: i piselli in una ciotola, i baccelli in un'altra. Mi chiese se ca-

pissi.

Lo scrutai in viso per vedere se era serio. Lo avevo sentito piuttosto



spesso inveire contro la fabbrica di bottoni come una trappola, una sabbia

mobile, una iattura, un incubo, ma quello era quando aveva bevuto. Ades-

so era abbastanza sobrio. Non sembrava che stesse spiegando qualcosa,

sembrava che si stesse scusando. C'era qualcos'altro che voleva da me, ol-

tre alla risposta alla sua domanda. Era come se volesse che lo perdonassi,

lo assolvessi da qualche crimine; ma cosa mi aveva fatto? Nulla che mi

venisse in mente.

Mi sentivo confusa, e anche non all'altezza: qualunque cosa volesse o

pretendesse da me, era al di là della mia comprensione. Era la prima volta

che un uomo si aspettava da me più di quanto fossi in grado di dare, e non

sarebbe stata l'ultima.

«Sì» risposi.

La settimana prima che morisse - in una di quelle terribili mattine - mia

madre disse una cosa strana, sebbene allora non la considerassi tale. Disse:

«In fondo, vostro padre vi vuole bene».

Non aveva l'abitudine di parlarci dei sentimenti, e soprattutto non di a-

more - del suo o di chiunque altro, eccetto di quello divino. Ma si suppone

che i genitori amino i propri figli, perciò devo aver preso questa cosa che

disse come una rassicurazione: nonostante le apparenze, mio padre era

come gli altri padri, o almeno come si pensava che fossero.

Ora credo che fosse più complicato. Poteva essere un avvertimento. Po-

teva anche essere un peso. Anche se in fondo c'era l'amore, era sepolto sot-

to un gran cumulo di cose, e che cosa puoi trovare, una volta che ti metti a

scavare? Non un semplice dono, d'oro puro e scintillante; no, qualcosa di

antico e magari di funesto, come un amuleto di ferro che si arrugginisce tra

vecchie ossa. È un talismano che non vale granché, questo amore, ma è pe-

sante; un arnese pesante da portarmi dietro, appeso alla sua catena di ferro

attorno al collo.

IV

L'assassino cieco: Il caffè



La pioggia è leggera ma costante da mezzogiorno. La nebbia si alza da-

gli alberi, dalle carreggiate. Lei supera la vetrina con la tazza di caffè di-

pinta sopra, bianca con una riga verde intorno e tre strisce di fumo che ne

fuoriescono in linee tremolanti, come se tre dita fossero scivolate giù lungo

il vetro bagnato. Sulla porta, in lettere dorate che stanno venendo via, c'è la

scritta Caffè; lei apre la porta ed entra, scuotendo l'ombrello. È color cre-

ma, come il suo impermeabile di popeline. Tira indietro il cappuccio.

Lui è nell'ultimo séparé, accanto alla porta a vento che conduce in cuci-

na, dove ha detto che sarebbe stato. Le pareti sono ingiallite dal fumo, i

pesanti séparé sono dipinti di un marrone opaco, ognuno ha un gancio di

metallo a forma di zampa di gallina per i cappotti. Vi sono seduti uomini,

soltanto uomini, con giacche sformate come coperte logore, niente cravat-

te, capelli tagliati male, le gambe aperte e i piedi in scarponi ben piantati


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