Margaret atwood



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dienza, silenzio e nessuna traccia di sessualità. La sessualità, sebbene non

se ne parlasse mai, andava stroncata sul nascere. Mi aveva lasciato a bri-

glia sciolta troppo a lungo. Era tempo che ci si occupasse di me.

Anche Laura fu coinvolta in qualcuna di queste lavate di capo, sebbene

non avesse ancora raggiunto l'età giusta. (Qual'era l'età giusta? L'età della

pubertà, ora mi è chiaro. Ma allora ero semplicemente confusa. Che crimi-

ne avevo commesso? Perché venivo trattata come se fossi reclusa in uno

strano riformatorio?)

«Sei troppo duro con le bambine» diceva Callista. «Non sono ragazzi».

«Purtroppo» ribatteva mio padre.

Fu da Callista che andai il giorno in cui scoprii di avere contratto un'or-

ribile malattia, perché in mezzo alle gambe mi colava il sangue: stavo sicu-

ramente morendo! Callista si mise a ridere. Poi spiegò: «È soltanto una

seccatura» disse. E che avrei dovuto parlarne come del «mio amico», o di

un «ospite». Reenie aveva idee più presbiteriane. «È il ciclo» disse. Si

fermò di colpo, prima di dire che era un ennesimo, più bizzarro piano di

Dio, escogitato per rendere spiacevole la vita: era proprio così che stavano

le cose, disse. Quanto al sangue, fai a pezzi degli stracci. (Non disse san-

gue, disse sporcizia). Mi fece una tazza di camomilla che ricordava l'odore

della lattuga andata a male; e anche una borsa dell'acqua calda, per i cram-

pi. Nessuna delle due mi fu di giovamento.

Laura trovò una macchia di sangue tra le mie lenzuola e scoppiò a pian-

gere. Ne dedusse che sarei morta. Sarei morta come la mamma, singhioz-

zò, senza prima avvertirla. Avrei avuto un piccolo bambino grigio che as-

somigliava a un gattino e poi sarei morta.

Le dissi di non fare la sciocca. Dissi che quel sangue non aveva niente a

che fare con i bambini. (Callista non aveva affrontato quell'argomento, a-

vendo senza dubbio deciso che troppe informazioni di quel genere tutte in

una volta avrebbero potuto procurarmi seri danni alla psiche).

«Un giorno accadrà anche a te» dissi a Laura. «Quando avrai la mia età.

È una cosa che succede alle ragazze».

Laura era indignata. Rifiutò di crederci. Come in molte altre cose, era

convinta che nel suo caso sarebbe stata fatta un'eccezione.

C'è un ritratto mio e di Laura risalente a quegli anni, scattato nello studio

di un fotografo. Io indosso il vestito di velluto scuro regolamentare, uno

stile troppo da bambina per me: ho, chiaramente, quello che un tempo ve-

niva definito il petto. Laura siede accanto a me, in un abito identico. Ab-

biamo tutte e due calze bianche al ginocchio, Mary Janes di vernice; ab-

biamo le gambe con le caviglie decorosamente accavallate, la destra sulla

sinistra, come ci era stato insegnato. Tengo un braccio intorno a Laura, ma

in maniera incerta, come se mi fosse stato ordinato di metterlo lì. Da parte

sua Laura ha le mani giunte in grembo. Ognuna di noi ha i capelli chiari

divisi nel mezzo e tirati bene indietro, a lasciare scoperto il viso. Entrambe

sorridiamo, in quel modo apprensivo dei bambini a cui è stato detto che

devono fare i buoni e sorridere, come se fossero due cose uguali: è un sor-

riso imposto dalla minaccia della disapprovazione. Minaccia e disapprova-

zione sarebbero venute da papà. Ne avevamo paura, ma non sapevamo

come evitarle.

Le metamorfosi di Ovidio

Mio padre aveva deciso, non a torto, che la nostra educazione era stata

trascurata. Voleva che imparassimo il francese, ma anche la matematica e

il latino - esercizi mentali che avrebbero fatto da correttivo al nostro carat-

tere eccessivamente sognante. Anche la geografia ci avrebbe rinvigorite.

Nonostante l'avesse a malapena notata durante il suo servizio, decretò che

Miss Violence e le sue maniere fiacche, stantie e tinte di rosa dovevano es-

sere spazzate via. Voleva che gli orli di merletto arricciati e contorti ci fos-

sero recisi quasi fossimo lattuga, lasciando un nucleo semplice e sano. Non

capiva perché ci piacesse quello che ci piaceva. Voleva che ci trasformas-

simo in copie di maschi, in un modo o nell'altro. Be', cosa ci si poteva a-

spettare? Non aveva mai avuto sorelle.

Al posto di Miss Violence assunse un uomo chiamato signor Erskine,

che un tempo aveva insegnato in una scuola maschile in Inghilterra ma era

stato spedito in Canada, di punto in bianco, per motivi di salute. A noi non

sembrava affatto malandato: non tossiva mai, per esempio. Era tarchiato,

vestito di tweed, sui trenta o forse trentacinque anni, aveva i capelli rossic-

ci e una bocca carnosa, bagnata e rossa, una barbetta a punta, un'ironia ta-

gliente e un brutto carattere, e per finire un odore che ricordava il fondo di

una cesta di panni da lavare impregnata di umidità.

Fu presto chiaro che essere distratte e fissare la fronte del signor Erskine

non ci avrebbe liberato di lui. Prima di tutto ci sottopose a dei test per sta-

bilire cosa sapessimo. Non molto, risultò, sebbene più di quanto pensassi-

mo opportuno divulgare. Poi disse a mio padre che avevamo cervelli da in-

setti o da marmotte. Il nostro stato era decisamente deplorevole, ed era un

miracolo che non fossimo cretine. Avevamo sviluppato abitudini mentali

indolenti - ci era stato permesso di farlo, aggiunse in tono di rimprovero.

Per fortuna, non era troppo tardi. Mio padre disse che in tal caso il signor

Erskine avrebbe dovuto portarci al livello desiderato.

A noi, il signor Erskine disse che la pigrizia, l'arroganza, la tendenza a

bighellonare e a sognare a occhi aperti e lo svenevole sentimentalismo non

avevano fatto altro che rovinare il nostro approccio a quel serio affare che

è la vita. Nessuno si aspettava che fossimo dei geni, e non ci sarebbero sta-

ti accordati favori se lo fossimo state, ma certo si richiedeva un minimo

anche alle ragazze: saremmo state soltanto un ingombro per qualunque

uomo abbastanza stupido da sposarci, a meno che non fossimo state dispo-

ste a rimboccarci le maniche.

Ordinò un gran mucchio di quaderni, del tipo economico a righe, con la

copertina di cartone leggero. Ordinò una scorta di semplici matite di grafi-

te, munite di gomma. Quelle erano le bacchette magiche, disse, grazie alle

quali avremmo trasformato noi stesse, con il suo aiuto.

Disse aiuto con un sorriso ammiccante.

Gettò via le stelle di carta luccicante della signorina Goreham.

La biblioteca ci distraeva troppo, disse. Chiese e ottenne due banchi di

scuola, che sistemò in una delle stanze degli ospiti; fece togliere il letto e

tutti gli altri mobili, in modo da lasciare soltanto la stanza nuda. La porta

veniva chiusa a chiave, ed era lui a tenerla. Ora avremmo potuto rimboc-

carci le maniche e metterci d'impegno.

I metodi del signor Erskine erano diretti. Era uno che tirava capelli e o-

recchie. Sbatteva la riga sul banco accanto alle nostre dita, se non sulle dita

stesse, o ci dava schiaffi sulla nuca, quando era esasperato, o ancora, come

ultima risorsa, ci lanciava addosso libri o ci picchiava dietro le gambe. Il

suo sarcasmo era mortificante, almeno per me: spesso Laura lo prendeva

alla lettera, il che lo mandava ancora di più in bestia. Non si faceva com-

muovere dalle lacrime; in realtà credo che ne godesse.

Non era così ogni giorno. Le cose magari procedevano senza problemi

per un'intera settimana. Poteva far mostra di pazienza, perfino di una goffa

gentilezza. Poi c'era un'esplosione, e si comportava come un pazzo. Non

sapere mai cosa avrebbe potuto fare, o quando avrebbe potuto farlo, era la

cosa peggiore.

Non potevamo lamentarci con nostro padre, perché il signor Erskine non

eseguiva forse i suoi ordini? Così diceva. Ma ci lamentavamo con Reenie,

naturalmente. Era offesa. Io ero troppo grande per essere trattata in quel

modo, diceva, e Laura era troppo nervosa, e tutte e due eravamo... insom-

ma, chi si credeva di essere? Cresciuto sulla strada e pieno di arie, come

tutti gli inglesi che finivano quaggiù pensando di poter spadroneggiare, e

se faceva il bagno una volta al mese si sarebbe mangiata la camicia. Quan-

do Laura andò da Reenie con le piaghe sulle palme delle mani, Reenie af-

frontò il signor Erskine, ma le fu detto di pensare ai fatti propri. Era stata

lei a viziarci, disse il signor Erskine. Ci aveva viziate con l'eccessiva in-

dulgenza e trattandoci da bambocce - era fin troppo ovvio - e ora toccava a

lui riparare ai suoi danni.

Laura disse che o se ne andava il signor Erskine o se ne sarebbe andata

lei. Sarebbe scappata. Sarebbe saltata fuori da una finestra.

«Non farlo, tesoro» disse Reenie. «Ci spremeremo le meningi. Gli ren-

deremo pan per focaccia».

«Ma lui non ha focacce» singhiozzò Laura.

Callista Fitzsimmons avrebbe potuto essere di un qualche aiuto, ma ve-

deva da che parte tirava il vento: non eravamo figlie sue, ma di papà. Lui

aveva scelto la sua linea di condotta, e sarebbe stato un errore tattico per

lei intromettersi. Era un caso di sauve qui peut, un'espressione che, grazie

allo zelo del signor Erskine, ero ormai in grado di tradurre.

L'idea che il signor Erskine aveva della matematica era abbastanza sem-

plice: dovevamo sapere come far quadrare i conti di una casa, il che signi-

ficava sommare, sottrarre e tenere una partita doppia.

La sua idea del francese erano le forme verbali e Phaedra. Faceva inol-

tre assegnamento sulle concise massime degli autori illustri. Si jeunesse

savait, si vieillesse pouvait - Estienne; C'est de quoi j'ai le plus de peur que

la peur - Montaigne; Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point -

Pascal; L'histoire, cette vietile dame exaltée et menteuse - de Maupassant;

Il ne faut pas toucher aux idoles : la dorure en reste aux mains - Flaubert;

Dieu s'est fait homme; soit. Le diable s'est fait femme - Victor Hugo. E co-

sì via.


La sua idea della geografia erano le capitali d'Europa. La sua idea del la-

tino era Cesare che sottometteva i galli e attraversava il Rubicone, alea

iacta est; e, oltre a quello, brani scelti dall'Eneide di Virgilio - gli piaceva

il suicidio di Didone - e dalle Metamorfosi di Ovidio, le parti in cui gli dei

facevano cose sgradevoli alle giovani donne. Il ratto di Europa a opera di

un grosso toro, di Leda da parte di un cigno, di Danae da parte di una

pioggia dorata - queste almeno avrebbero catturato la nostra attenzione, di-

ceva, con il suo sorriso ironico. Su questo punto aveva ragione. Ogni tanto,

per cambiare, ci faceva tradurre poesie d'amore latine di tipo cinico. Odi et

amo - quel genere di cose. Andava in brodo di giuggiole nel vederci com-

battere con i cattivi giudizi dei poeti sul tipo di ragazze che apparentemen-

te eravamo destinate a diventare.

«Rapìo, rapis, rapui, raptum, rapere» diceva il signor Erskine. «"Affer-

rare e portare via". La parola inglese rapture, "estasi, rapimento", deriva

dalla stessa radice. Coniugate». Tac, faceva la riga.

Imparavamo. Imparavamo davvero, in uno spirito vendicativo: non con-

cedevamo alcuna scusante al signor Erskine. Non c'era nulla che volesse di

più che mettere un piede su ciascuno dei nostri colli - be', se possibile, quel

piacere gli sarebbe stato negato. Quello che imparammo davvero da lui fu

come imbrogliare. Era difficile bluffare in matematica, ma nel tardo pome-

riggio passavamo molte ore copiando le nostre versioni di Ovidio da un

paio di libri della biblioteca del nonno - vecchie traduzioni di illustri vit-

toriani, in caratteri piccoli e un lessico difficile. Traevamo il senso del bra-

no da quei libri, quindi sostituivamo i vocaboli con altre parole più sempli-

ci e aggiungevamo qualche errore, per far sembrare di aver fatto tutto da

sole. Qualunque fosse il risultato, il signor Erskine imperversava sulle no-

stre traduzioni con la sua matita rossa e scriveva feroci commenti ai mar-

gini. Non imparammo molto latino, ma sulla contraffazione sì. Imparam-

mo anche a rendere i nostri visi vacui e rigidi, come se fossero stati inami-

dati. Era meglio non reagire al signor Erskine in nessuna maniera visibile,

soprattutto non indietreggiando.

Per un po' Laura rimase intimidita dal signor Erskine, ma il dolore fisico

- almeno quello inferto a lei - non le faceva molto effetto. Presto la sua at-

tenzione prese a vagar via anche quando lui urlava. Lui aveva una gamma

talmente limitata. Laura guardava la carta da parati - un motivo di boccioli

di rosa e nastri - o fuori della finestra. Sviluppò l'abilità di astrarsi in un

batter d'occhio - un istante era concentrata su chi le parlava, l'istante suc-

cessivo era altrove. O piuttosto era l'interlocutore a essere altrove: lei lo

congedava, come se avesse agitato un'invisibile bacchetta magica; come se

fosse stato lui stesso a farsi svanire.

Il signor Erskine non sopportava di venire rifiutato in quel modo. Co-

minciava a scuoterla - per farla uscire da quello stato, diceva. Non sei la

Bella Addormentata, gridava. A volte la gettava contro il muro, o la scrol-

lava tenendole le mani attorno al collo. Mentre la scuoteva lei chiudeva gli

occhi e si afflosciava, cosa che lo irritava ancora di più. In un primo mo-

mento cercai di intervenire, ma non serviva a niente. Venivo semplicemen-

te spinta da un lato da un colpo del suo maleodorante braccio rivestito di

tweed.


«Non lo irritare» dissi a Laura.

«Non importa che lo irriti o meno» ribatté lei. «E comunque, non è irri-

tato. Vuole soltanto mettermi le mani nella camicetta».

«Non l'ho mai visto farlo» dissi. «Perché dovrebbe?»

«Lo fa quando non guardi» fece lei. «O sotto la gonna. Quello che gli

piace sono le mutandine». Lo disse con una tale calma che pensai che do-

vesse esserselo inventato, o che avesse frainteso. Frainteso le mani del si-

gnor Erskine, le loro intenzioni. Ciò che aveva descritto era talmente poco

plausibile. Non mi pareva il tipo di cosa che un uomo adulto potesse fare,

o fosse interessato a fare in generale: Laura non era che una bambina...

«Non dovremmo dirlo a Reenie?» provai a chiederle.

«Potrebbe non credermi» disse Laura. «Come te».

Ma Reenie le credette, o scelse di crederle, e quella fu la fine del signor

Erskine. Sapeva che non avrebbe dovuto sfidarlo a duello: lui avrebbe

semplicemente accusato Laura di dire delle sporche bugie, dopodiché le

cose sarebbero andate peggio che mai. Quattro giorni dopo marciò nell'uf-

ficio di papà alla fabbrica di bottoni con una manciata di foto proibite. Non

era il genere di cose che oggi potrebbe provocare più di un'alzata di so-

pracciglia, ma allora erano scandalose - donne in calze nere con seni a

forma di budino che straripavano dai giganteschi reggiseni, le stesse donne

con niente indosso, in posizioni contorte, a gambe allargate. Disse che le

aveva trovate sotto il letto del signor Erskine quando aveva spazzato la sua

stanza, ed era quello il tipo d'uomo a cui dovevano essere affidate le figlie

del Capitano Chase?

C'era un pubblico interessato, che comprendeva un gruppo di operai,

l'avvocato di papà e, tra gli altri, il futuro marito di Reenie, Ron Hincks. La

vista di Reenie - le guance con le fossette tutte infuocate, gli occhi fiam-

meggianti come quelli di una Furia vendicativa, la nera crocchia di capelli

sul punto di sciogliersi - che sventolava un fascio di donne nude dalle

grosse tette con i cespugli bene in vista, fu troppo per Ron. Mentalmente

cadde in ginocchio davanti a lei, e da quel giorno cominciò a darle la cac-

cia, che alla fine fu coronata dal successo. Ma questa è un'altra storia.

Se c'è una cosa che Port Ticonderoga non avrebbe sopportato, disse l'av-

vocato di mio padre col tono del consulente, era quel genere di sconcezze

tra le mani di insegnanti di giovani innocenti. Mio padre si rese conto che

dopo quell'episodio non avrebbe potuto tenere il signor Erskine in casa

senza essere considerato un orco.

(Per molto tempo ho sospettato che Reenie si fosse procurata da sé le fo-

to, dal fratello che era nella distribuzione delle riviste e avrebbe potuto fa-

cilmente organizzare la cosa. Sospetto che il signor Erskine fosse innocen-

te per quanto riguarda le fotografie. Se mai, i suoi gusti andavano alle

bambine, non ai grossi reggiseni. Ma a quel punto non poteva aspettarsi un

comportamento leale da Reenie).

Il signor Erskine se ne andò, protestando la sua innocenza - indignato,

ma anche scosso. Laura disse che le sue preghiere erano state esaudite.

Disse che aveva pregato perché il signor Erskine fosse cacciato dalla no-

stra casa, e che Dio l'aveva ascoltata. Reenie, disse, aveva fatto la Sua vo-

lontà, con le fotografie sporche e tutto. Mi chiesi cosa ne pensasse Dio,

supposto che esistesse - una cosa su cui nutrivo dubbi crescenti.

Laura, invece, nel periodo in cui il signor Erskine era stato al nostro ser-

vizio, si era data seriamente alla religione: aveva ancora paura di Dio, ma

costretta a scegliere tra un tiranno iracondo e imprevedibile e l'altro, aveva

scelto quello che era più grande, nonché più lontano.

Una volta operata la scelta, la portò agli estremi, come faceva con tutto.

«Mi farò suora» annunciò in tono placido, mentre mangiavamo il nostro

pranzo a base di panini al tavolo della cucina.

«Non puoi» disse Reenie. «Non ti prenderanno. Non sei cattolica».

«Potrei diventarlo» ribatté Laura. «Potrei unirmi a loro».

«Bene» disse Reenie, «dovrai tagliarti i capelli. Sotto tutti quei loro veli,

le suore sono calve come uova».

Questa fu una mossa acuta da parte sua. Laura non ne sapeva niente. Se

c'era una cosa di cui andava fiera, erano i suoi capelli. «E perché?» chiese.

«Credono che sia il volere di Dio. Credono che Dio voglia che gli offra-

no i loro capelli, il che dimostra soltanto quanto siano ignoranti. Cosa do-

vrebbe farsene?» disse Reenie. «Che idea! Tutti quei capelli!»

«E cosa ne fanno dei capelli?» chiese Laura. «Una volta che sono stati

tagliati?»

Reenie stava sgusciando i fagioli: toc, toc, toc. «Ne fanno parrucche per

le donne ricche» disse. Non perdeva un colpo, ma sapevo che era una frot-

tola, come le sue vecchie storie secondo cui i bambini erano fatti con la pa-

sta del pane. «Ricche donne con la puzza sotto il naso. Tu non vorrai mica

vedere i tuoi bei capelli in giro sulla testa grande, grossa e sudicia di qual-

cun altro».

Laura rinunciò a farsi suora, o almeno così sembrò; ma chi poteva dire

quale sarebbe stato il suo prossimo amore? Aveva una spiccata tendenza a

credere. Era aperta, si affidava, si consegnava, si metteva alla mercé. Un

po' di incredulità sarebbe stata una prima linea di difesa.

A questo punto erano trascorsi parecchi anni - sprecati, in sostanza, con

il signor Erskine. Ma forse non dovrei dire sprecati: avevo imparato molte

cose da lui, sebbene non sempre quelle che si era proposto di insegnarci.

Oltre alla menzogna e all'imbroglio, avevo imparato l'insolenza mal celata

e la resistenza silenziosa. Avevo imparato che la vendetta è un piatto che è

meglio consumare freddo. Avevo imparato a non farmi cogliere sul fatto.

Nel frattempo era cominciata la Depressione. Mio padre non perse molto

nel crollo della Borsa, ma qualcosa perse comunque. Perse anche il suo

margine di errore. Avrebbe dovuto chiudere le fabbriche in risposta alla

diminuzione della domanda, avrebbe dovuto depositare in banca il denaro

- accumularlo, come stavano facendo altri nella sua posizione. Questa sa-

rebbe stata la cosa sensata. Ma non la fece. Non poteva sopportarlo. Non

poteva sopportare di cacciare i suoi uomini dal lavoro. Doveva della lealtà,

ai suoi uomini. Anche se alcuni di loro erano donne.

La povertà piombò su Avilion. Le nostre stanze divennero fredde d'in-

verno, le nostre lenzuola logore. Reenie ne tagliava via le strisce centrali

consumate, poi cuciva insieme le due parti rimaste. Un certo numero di

stanze vennero chiuse; gran parte della servitù fu mandata via. Non c'era

più un giardiniere, e le erbacce presero furtivamente piede. Mio padre di-

ceva che avrebbe avuto bisogno della nostra collaborazione per mandare

avanti le cose - per superare quel brutto momento. Potevamo aiutare Ree-

nie in casa, disse, dal momento che eravamo tanto ostili al latino e alla ma-

tematica. Potevamo imparare come farci bastare un dollaro. Questo signifi-

cava, in pratica, mangiare fagioli o baccalà o conigli per pranzo, e ram-

mendare le nostre calze.

Laura si rifiutava di mangiare conigli. Sembravano bambini scuoiati, di-

ceva. Bisognava essere cannibali per mangiarli.

Reenie diceva che la troppa bontà non avrebbe giovato a mio padre. Di-

ceva anche che era troppo orgoglioso. Un uomo dovrebbe ammettere

quando è stato sconfitto. Lei non sapeva cosa ci aspettasse, ma la rovina

era il risultato più probabile.

Ormai avevo sedici anni. La mia educazione ufficiale, per quello che va-

leva, era terminata. Me ne stavo così, in attesa, ma di cosa? Che ne sarebbe

stato di me, ora?

Reenie aveva le sue preferenze. Si era messa a leggere la rivista Mayfair,

con le descrizioni delle feste dell'alta società, e le pagine mondane dei

giornali - i matrimoni, i balli di beneficenza, le vacanze lussuose. Memo-

rizzava liste di nomi - i nomi delle persone importanti, delle navi da cro-

ciera, dei buoni alberghi. Avrei dovuto fare il mio ingresso in società, di-

ceva, con tutti gli annessi e connessi - tè per conoscere le madri che conta-

no nel bel mondo, ricevimenti e gite alla moda, e un ballo ufficiale a cui

invitare i giovanotti più appetibili. Avilion si sarebbe di nuovo riempita di

gente ben vestita, come ai vecchi tempi; ci sarebbero stati quartetti d'archi

e torce sul prato. La nostra famiglia era buona almeno quanto le famiglie

alle cui figlie veniva assicurato tutto questo - altrettanto buona, se non mi-

gliore. Mio padre avrebbe dovuto tenere un po' di denaro in banca apposta.

Se solo mia madre non fosse morta, diceva Reenie, si sarebbe fatta ogni

cosa per bene.

Ne dubitavo. Da quello che avevo sentito su mia madre, magari avrebbe

insistito perché fossi mandata a scuola - l'Alma Ladies' College, o qualche

istituto più rispettabile e tetro - a imparare qualcosa di utile ma altrettanto

tetro, come la stenografia; ma l'ingresso in società sarebbe stato considera-


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