Margaret atwood



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Non c'erano soldi per ripararla: la compagnia di assicurazioni nicchiava,

adducendo le misteriose circostanze legate all'incendio doloso. Si sussur-

rava che non tutto fosse come sembrava: alcuni insinuarono perfino che

fosse stato mio padre ad appiccare il fuoco, una calunniosa accusa non suf-

fragata da alcuna prova. Le altre due fabbriche erano ancora chiuse; mio

padre si lambiccava il cervello per trovare il modo di riaprirle. Andava a

Toronto sempre più spesso per affari. A volte mi portava con lui, e al-

loggiavamo al Royal York Hotel, a quel tempo considerato il migliore. Era

lì che tutti i presidenti di imprese e i dottori e gli avvocati inclini a questo

genere di cose tenevano le loro amanti e facevano le loro baldorie lunghe

un'intera settimana, ma a quel tempo non lo sapevo.

Chi pagava queste nostre gite? Avevo un sospetto che fosse Richard,

sempre presente in queste occasioni. Era con lui che mio padre stava con-

cludendo un affare: l'ultimo tra i pochissimi ancora possibili. L'affare con-

cerneva la vendita delle fabbriche, ed era complesso. Mio padre aveva già

provato a venderle, ma in quel periodo nessuno comprava, non alle condi-

zioni stabilite da lui. Voleva vendere soltanto una partecipazione di mino-

ranza. Voleva mantenere il controllo. Voleva un'immissione di capitale.

Voleva riaprire le fabbriche, in modo che i suoi uomini riavessero i loro

posti. Li chiamava «i suoi uomini», come se fossero ancora nell'esercito e

lui fosse ancora il loro capitano. Non voleva ridurre le sue perdite e abban-

donarli, perché come tutti sanno, o sapevano una volta, un capitano do-

vrebbe affondare insieme alla nave. Ora nessuno si farebbe tanti scrupoli.

Ora incasserebbero e si metterebbero in salvo, poi si trasferirebbero in Flo-

rida.


Mio padre diceva che aveva bisogno di portarmi con sé «perché pren-

dessi appunti», ma non ne presi mai. Credevo di essere lì soltanto perché

in quel modo avrebbe avuto con sé qualcuno - per un sostegno morale. Ne

aveva certamente bisogno. Era magro come uno stecco e le mani gli tre-

mavano in continuazione. Gli costava uno sforzo scrivere il proprio nome.

Laura non partecipava a queste trasferte. La sua presenza non era richie-

sta. Rimaneva a casa, a distribuire con parsimonia il pane vecchio di tre

giorni e la minestra acquosa. Aveva cominciato a lesinare perfino sui pro-

pri pasti, quasi sentisse di non averne diritto.

«Gesù mangiava» diceva Reenie. «Mangiava di tutto. Non si teneva a

stecchetto».

«È vero» replicava Laura, «ma io non sono Gesù».

«Be', ringraziamo il Signore che ha almeno il buonsenso di capire que-

sto» brontolava Reenie rivolgendosi a me. Faceva scivolare nel pentolone i

due terzi della cena di Laura avanzati, perché sarebbe stato un peccato e

una vergogna che andassero sprecati. Era un punto di orgoglio per Reenie

durante quegli anni non avere mai gettato via nulla.

Mio padre non teneva più un autista, e non si fidava più a guidare. Io e

lui raggiungevamo Toronto in treno, arrivavamo alla Union Station e an-

davamo in albergo, dall'altra parte della strada. Di pomeriggio, mentre lui

combinava i suoi affari, io avrei dovuto divertirmi in qualche modo. Ma

per lo più rimanevo nella mia stanza, perché avevo paura della città e mi

vergognavo dei miei abiti fuori moda, che mi facevano apparire di qualche

anno più giovane. Leggevo riviste: Ladies' Home Journal, Collier's, Ma-

yfair. Per lo più leggevo i racconti che parlavano d'amore. Non avevo al-

cun interesse nei pasticci e nei modelli all'uncinetto, ma i consigli di bel-

lezza catturavano la mia attenzione. Leggevo anche la pubblicità. Un bu-

stino di latex con doppio elastico mi avrebbe aiutata a giocare meglio a

bridge. Potevo anche fumare come una ciminiera, ma non c'era alcun pro-

blema, perché la mia bocca avrebbe avuto un meraviglioso profumo di pu-

lito se avessi fatto regolare uso di Spud. Qualcosa chiamato Larvex avreb-

be messo fine alle mie preoccupazioni riguardo alle tarme. Alla Bigwin

Inn, sul bel lago di Bays, dove ogni momento era elettrizzante, avrei potu-

to fare ginnastica dimagrante a suon di musica sulla spiaggia.

Alla fine della giornata tutti e tre - mio padre, Richard e io - cenavamo al

ristorante. In queste occasioni non dicevo nulla, perché cosa avrei potuto

mai dire? Gli argomenti erano l'economia e la politica, la Depressione, la

situazione in Europa, i preoccupanti progressi del comunismo mondiale.

Richard pensava che Hitler avesse senza dubbio fatto migliorare la Ger-

mania dal punto di vista finanziario. Era meno favorevole a Mussolini, che

era un incompetente e un dilettante. A Richard era stato proposto un inve-

stimento in una nuova stoffa che gli italiani stavano mettendo a punto in

gran segreto, fatta di proteine del latte riscaldate. Ma se quella roba si ba-

gnava, diceva Richard, odorava terribilmente di formaggio, e perciò le si-

gnore del Nord America non l'avrebbero mai accettata. Avrebbe insistito

con il rayon, sebbene si spiegazzasse quando pioveva, e avrebbe tenuto le

orecchie bene aperte e colto qualsiasi idea promettente. Doveva per forza

esserci qualcosa nell'aria, qualche stoffa artificiale che avrebbe tolto la seta

dal mercato, e in buona misura anche il cotone. Quello che volevano le si-

gnore era un prodotto che non andasse stirato - che potesse essere appeso

al filo da bucato, che si asciugasse senza pieghe. Volevano anche calze che

durassero e al tempo stesso fossero leggere, in modo da mettere in mostra

le gambe. Non aveva ragione? mi domandò con un sorriso. Aveva l'abitu-

dine di fare appello a me nelle questioni che riguardavano le signore.

Annuii. Annuivo sempre. Non ascoltavo mai con grande attenzione, non

solo perché quelle conversazioni mi annoiavano, ma anche perché mi fa-

cevano star male. Mi feriva vedere mio padre dimostrarsi d'accordo su o-

pinioni che sapevo non poteva condividere.

Richard disse che avrebbe voluto invitarci a cena a casa sua, ma siccome

era uno scapolo sarebbe stata una cosa sciatta. Viveva in un appartamento

triste, disse; disse di essere praticamente un monaco. «Cos'è la vita senza

una moglie?» chiese, sorridendo. Sembrava una citazione. Credo che lo

fosse.

Richard chiese la mia mano nella Sala Imperiale del Royal York Hotel.



Mi aveva invitata a pranzo insieme a mio padre, ma poi all'ultimo minuto,

mentre camminavamo lungo i corridoi dell'albergo dirigendoci verso l'a-

scensore, lui disse che non avrebbe potuto essere dei nostri. Sarei dovuta

andare sola.

Naturalmente era una cosa combinata tra loro due.

«Richard ha qualcosa da chiederti» mi disse mio padre. Aveva un tono

di scusa.

«Oh?» feci. Probabilmente qualcosa sulla stiratura, non che me ne im-

portasse granché. Per quanto mi riguardava Richard era un uomo adulto.

Aveva trentacinque anni, io diciotto. Era tutt'altro che interessante.

«Credo che potrebbe chiederti di sposarlo» disse.

A quel punto eravamo nella hall. Mi sedetti. «Oh» feci. All'improvviso

mi fu chiaro ciò che avrebbe dovuto esserlo da qualche tempo. Mi venne

voglia di ridere, quasi si trattasse di uno scherzo. Avevo anche l'impressio-

ne che mi fosse sparito lo stomaco. Eppure la mia voce rimase calma. «Co-

sa devo fare?»

«Ho già dato il mio consenso» disse mio padre. «Perciò la decisione sta

a te». Quindi aggiunse: «È in ballo una certa somma».

«Una certa somma?»

«Devo considerare il vostro futuro. Casomai dovesse succedermi qual-

cosa, cioè. Il futuro di Laura, in particolare». Quello che stava dicendo era

che, a meno che non sposassi Richard, saremmo rimasti senza un soldo.

Stava anche dicendo che noi due - me e soprattutto Laura - non saremmo

mai state in grado di provvedere a noi stesse. «Devo considerare anche le

fabbriche» disse. «Devo considerare la loro attività. Potrebbe essere ancora

salvata, ma i banchieri mi stanno dietro. Mi stanno alle costole. Non aspet-

teranno ancora a lungo». Si curvava sul bastone, lo sguardo al tappeto, e

vedevo quanto si vergognasse. Quanto fosse prostrato. «Non voglio che

tutto questo non sia servito a niente. Tuo nonno, e poi... Che cinquanta,

sessanta anni di duro lavoro vadano sprecati».

«Oh. Capisco». Ero con le spalle al muro. Non si può certo dire che a-

vessi qualche alternativa da proporre.

«Si prenderanno anche Avilion. La venderanno».

«Lo farebbero?»

«È ipotecata fino all'ultimo mattone».

«Oh».


«Ci vorrebbe una certa dose di fermezza. Una certa dose di coraggio. In-

goiare il rospo e così via».

Non dissi niente.

«Ma naturalmente» aggiunse, «qualunque decisione tu prenda sarà uni-

camente affar tuo».

Non dissi niente.

«Non vorrei che tu facessi nulla a cui fossi assolutamente contraria» dis-

se, guardando oltre di me con l'occhio buono, aggrottando leggermente le

ciglia, come se un oggetto di grande importanza fosse appena entrato nel

suo campo visivo. Dietro di me non c'era nulla oltre al muro.

Non dissi niente.

«Bene. Il discorso è chiuso, allora». Sembrava sollevato. «Ha molto

buonsenso, Griffen. Credo che sotto sotto sappia il fatto suo».

«Credo di sì» dissi. «Sono sicura che è così».

«Saresti in buone mani. E anche Laura, naturalmente».

«Naturalmente» dissi piano. «Anche Laura».

«Testa alta, allora».

Lo biasimo? No. Non più. Riconsiderando le cose con la prospettiva di

oggi, il giudizio è chiaro, ma lui stava soltanto facendo ciò che al tempo

sarebbe stato considerato - e fu considerato - responsabile. Stava facendo

del suo meglio.

Richard ci raggiunse, quasi avesse ricevuto un segnale, e i due uomini si

diedero la mano. La mia, di mano, fu presa e stretta brevemente. Poi il mio

gomito. Era così che a quei tempi gli uomini portavano in giro le donne -

per il gomito -, dunque fui portata per il gomito nella Sala Imperiale. Ri-

chard disse che avrebbe voluto il Caffè Veneziano, che era più luminoso e

dall'atmosfera più festosa, ma sfortunatamente era tutto prenotato.

È strano ricordarlo adesso, ma al tempo il Royal York Hotel era l'edifi-

cio più alto di Toronto, e la Sala Imperiale era la sala da pranzo più grande.

A Richard piacevano le cose grandi. Quanto alla sala, aveva file di larghe

colonne quadrate, un soffitto intarsiato, una serie di lampadari, ognuno con

una nappa appesa in fondo: un'opulenza raggelata. Dava l'idea del coriace-

o, del massiccio, del pingue - con qualche venatura. Porfido è la parola che

mi viene in mente, anche se magari non ce n'era.

Era mezzogiorno, una di quelle mutevoli giornate invernali che sono più

luminose di quanto dovrebbero. La bianca luce del sole faceva cadere i

suoi raggi attraverso le aperture tra le pesanti tende, che dovevano essere

di un marrone rossiccio, mi pare, ed erano sicuramente di velluto. Sotto i

soliti odori delle sale da pranzo degli alberghi, di ortaggi tenuti in caldo e

di pesce tiepido, c'era puzza di metallo rovente e di stoffa bruciata. Il tavo-

lo riservato da Richard era in un angolo buio, lontano dalla graffiante luce

del giorno. C'era un bocciolo di rosa in un vaso per boccioli; fissai Richard

al di sopra di esso, curiosa di come avrebbe condotto le cose. Mi avrebbe

preso la mano, l'avrebbe stretta, avrebbe esitato, balbettato? Non lo crede-

vo.

Non che mi fosse eccessivamente antipatico. Non mi piaceva. Avevo



poche opinioni su di lui, perché non ci avevo mai pensato troppo, sebbene

- di tanto in tanto - avessi notato l'eleganza disinvolta dei suoi vestiti. A

volte era pomposo, ma almeno non era quel che si dice brutto, per niente.

Supponevo che fosse un ottimo partito. Mi sentivo un po' stordita. Non sa-

pevo ancora cosa avrei fatto.

Venne il cameriere. Richard ordinò. Poi guardò l'orologio. Poi parlò.

Sentii poco di quanto disse. Sorrideva. Tirò fuori una piccola scatola rive-

stita di velluto nero, l'aprì. Dentro c'era una scintillante scheggia di luce.

Trascorsi quella notte rannicchiata e tremante nel grande letto del-

l'albergo. Avevo i piedi ghiacciati, le ginocchia tirate su, la testa di traver-

so sul cuscino; davanti a me la distesa artica delle bianche lenzuola inami-

date si stendeva all'infinito. Sapevo che non avrei mai potuto attraversarla,

riguadagnare il sentiero, tornare dove faceva caldo; sapevo di avere perdu-

to l'orientamento; sapevo di essermi smarrita. Sarei stata scoperta qui anni

dopo da qualche intrepida squadra imbattutasi nelle mie tracce, un braccio

allungato come se cercassi di afferrare disperatamente qualcosa, i linea-

menti disseccati, le dita rosicchiate dai lupi.

Ciò che stavo sperimentando era terrore, ma non terrore di Richard in

quanto tale. Era come se la cupola illuminata del Royal York Hotel fosse

stata strappata via e ora venissi fissata da una presenza maligna situata in

qualche punto al di sopra della risplendente superficie nera e vuota del cie-

lo. Era Dio, che puntava verso di me il riflettore vacuo e ironico del suo

occhio. Mi stava osservando; stava osservando la mia situazione; stava os-

servando la mia incapacità di credere in lui. Non c'era il pavimento nella

stanza: ero sospesa in aria, sul punto di precipitare. La mia caduta sarebbe

stata senza fine - un'incessante caduta verso il basso.

Tuttavia simili sensazioni tetre spesso si dileguano alla chiara luce del

mattino, quando si è giovani.

L'Arcadian Court

Fuori della finestra, nel cortile che si è fatto scuro, c'è la neve. Quel suo-

no simile a un bacio contro il vetro. Si scioglierà perché siamo solo a no-

vembre, ma è sempre un assaggio. Non so perché io lo trovi così eccitante.

So cosa ci aspetta: neve sciolta mista a fango, buio, influenza, ghiaccio in-

visibile sulle strade, vento, macchie di sale sulle scarpe. Eppure c'è un sen-

so di aspettativa: la tensione prima della battaglia. L'inverno è qualcosa in

cui si può entrare dentro, che si può affrontare e poi sconfiggere ritirando-

cisi dentro casa. Eppure, mi piacerebbe che in questa casa ci fosse un ca-

minetto.


La casa in cui vivevo con Richard aveva il caminetto. Anzi, ne aveva

quattro. Ce n'era uno nella nostra camera da letto, se ben ricordo. Fiamme

che lambivano la carne.

Srotolo le maniche del mio maglione, mi tiro i polsi sulle mani. Come

quei guanti senza dita che si portavano una volta - i fruttivendoli, persone

del genere - per lavorare al freddo. Finora è stato un autunno caldo, ma

non posso continuare a far finta di niente. Dovrei pensare alla manutenzio-

ne della caldaia. Tirare fuori la camicia da notte di flanella. Fare scorta di

un po' di fagioli in scatola, di un po' di candele, di un po' di fiammiferi.

Una tempesta di ghiaccio come quella dell'inverno scorso potrebbe blocca-

re tutto, e allora si rimane senza elettricità, con un bagno impraticabile e

niente acqua potabile tranne quella che si può sciogliere.

Il giardino non contiene nulla se non foglie morte e fragili gambi e cri-

santemi duri a morire. Il sole sta perdendo quota; fa buio presto ora. Scrivo

al tavolo della cucina, in casa. Mi manca il rumore delle rapide. Il vento

che a volte soffia tra i rami spogli è molto simile, ma ci si può fare meno

affidamento.

La settimana dopo il fidanzamento venni spedita a pranzo fuori con la

sorella di Richard, Winifred Griffen Prior. L'invito era venuto da lei, ma in

realtà avevo la sensazione che fosse stato Richard a mandarmici. Potevo

sbagliarmi, perché Winifred tirava molte fila, e in quell'occasione poteva

aver tirato anche quelle di Richard. La cosa più probabile è che lo avessero

voluto entrambi.

Il pranzo doveva aver luogo all'Arcadian Court. Era dove pranzavano le

signore, all'ultimo piano del grande magazzino Simpsons, sulla Queen

Street - uno spazio alto, ampio, definito «bizantino» nel design (il che si-

gnificava che aveva arcate e palme in vaso), in lilla e argento, con luci e

sedie dalle linee slanciate. Tutt'intorno a metà altezza correva una balcona-

ta con ringhiere di ferro battuto; era riservata agli uomini, agli uomini d'af-

fari. Potevano andarsi a sedere lassù e guardare le signore in basso, coperte

di piume e cinguettanti, come se fossero in una voliera.

Avevo indossato la mia migliore tenuta da giorno, l'unica tenuta possibi-

le di cui disponessi per un'occasione del genere: un tailleur blu oltremare

con la gonna a pieghe, una camicetta bianca con un fiocco al collo, un

cappello blu oltremare simile a una paglietta. Questo completo mi faceva

sembrare una scolaretta o una propagandista dell'Esercito della Salvezza.

Non accennerò neanche alle scarpe; ancora adesso pensarci è troppo avvi-

lente. Tenevo l'anello di fidanzamento nuovo di zecca chiuso nel mio pu-

gno inguantato, consapevole che, portato con abiti come i miei, dovesse

sembrare una pietra artificiale o rubata.

Il maître mi guardò come se fossi sicuramente capitata nel posto sbaglia-

to, o quanto meno fossi entrata dall'ingresso sbagliato - cercavo un lavoro?

Sembravo male in arnese, e troppo giovane per partecipare a un pranzo di

signore. Ma poi diedi il nome di Winifred e andò tutto liscio, perché Wini-

fred praticamente viveva all'Arcadian Court. (Praticamente viveva era una

sua espressione).

Almeno non dovetti aspettare, bevendo un bicchiere di acqua ghiacciata

da sola con donne ben vestite che mi fissavano e si chiedevano come aves-

si fatto a entrare, perché Winifred era già lì, seduta a uno dei tavoli dal co-

lore scialbo. Era più alta di quanto ricordassi - snella, o forse flessuosa, si

sarebbe detto, sebbene in parte fosse merito del bustino. Indossava un

completo verde - non un verde pastello ma un verde vivace, quasi sgar-

giante. (Era dello stesso colore delle gomme da masticare alla clorofilla

che divennero di moda due decenni più tardi). Aveva scarpe di coccodrillo

verdi in tinta. Erano appariscenti, simili a gomma, leggermente lucide,

come ninfee, e pensai che non avevo mai visto scarpe così ricercate e inso-

lite. Il suo cappello era della stessa tonalità - un ghirigoro rotondo di stoffa

verde in bilico sulla sua testa come una torta velenosa.

Proprio in quel momento stava facendo una cosa che mi era stato inse-

gnato di non fare mai perché era volgare: si stava guardando nello spec-

chio del portacipria, in pubblico. Peggio, si stava incipriando il naso. Men-

tre esitavo, non volendo farle sapere che l'avevo colta in quell'atto volgare,

chiuse di scatto il portacipria e lo infilò nella sua luccicante borsetta di

coccodrillo come se niente fosse. Poi allungò il collo, girò lentamente il vi-

so incipriato e si guardò intorno con uno sguardo vitreo, come un faro. Poi

mi vide e sorrise, allungando una languida mano in segno di benvenuto.

Aveva un braccialetto d'argento che desiderai all'istante.

«Chiamami Freddie» disse dopo che mi fui seduta. «Tutte le mie amiche

lo fanno, e voglio che noi diventiamo grandi amiche». Allora era di moda

per le donne come Winifred prediligere i diminutivi che le facevano sem-

brare dei maschi: Billie, Bobbie, Willie, Charlie. Io non avevo un sopran-

nome del genere, perciò non potevo offrirgliene a mia volta uno.

«Oh, è questo l'anello?» chiese. «È una bellezza, non è vero? Ho aiutato

Richard a sceglierlo - gli piace che faccia spese per lui. Agli uomini ven-

gono certe emicranie quando vanno a fare spese, non è vero? Lui pensava

che potesse andare meglio uno smeraldo, ma in realtà non c'è niente di

meglio di un diamante, non è vero?»

Nel dir ciò mi studiava con interesse e con un certo gelido divertimento,

per vedere come l'avrei presa - quella degradazione del mio anello di fi-

danzamento a una commissione di poca importanza. I suoi occhi erano in-

telligenti e stranamente larghi, con ombretto verde sulle palpebre. Le sue

sopracciglia ritoccate con la matita erano depilate a tracciare una morbida

linea arcuata, conferendole l'espressione di noia e al tempo stesso di stupo-

re attonito coltivata dalle stelle del cinema di quel periodo, sebbene dubito

che Winifred fosse mai molto stupita. Il suo rossetto era di un colore aran-

cio rosato scuro, una sfumatura che era appena diventata di moda - gambe-

ro era il nome esatto, come avevo imparato dalle mie letture pomeridiane.

La bocca aveva lo stesso aspetto cinematografico delle sopracciglia, con le

due metà del labbro superiore disegnate a formare le punte dell'arco di Cu-

pido. La voce era quel che si diceva una voce da bevitrice di whisky - bas-

sa, quasi profonda, con una patina ruvida, graffiata, come la lingua di un

gatto -, come un velluto fatto di cuoio.

(Giocava a carte, scoprii in seguito. Bridge, non poker - sarebbe stata

brava a poker, brava a bluffare, ma era troppo rischioso, troppo d'azzardo;

le piaceva andare sul sicuro. Giocava anche a golf, ma soprattutto per i

contatti mondani; non era così brava come sosteneva. Il tennis era troppo

movimentato per lei; non avrebbe voluto farsi sorprendere sudata. «Anda-

va in barca», il che significava, per lei, sedere in barca su un cuscino, con

il cappello e un drink).

Winifred mi chiese cosa volessi mangiare. Qualunque cosa, dissi. Mi

chiamò «cara» e disse che l'insalata Waldorf era meravigliosa. Dissi che

sarebbe andata bene.

Non riuscivo a immaginare come sarei mai potuta arrivare a chiamarla

Freddie: sembrava troppo famigliare, perfino irriverente. Dopotutto era u-

n'adulta - se non di trenta, almeno di ventinove anni. Era di sei o sette anni

più giovane di Richard, ma erano amici: «Richard e io siamo grandi ami-

ci» mi disse in tono confidenziale, per la prima ma non certo ultima volta.

Era una minaccia, naturalmente, come lo era molto di quello che mi disse

in quel tono disinvolto e confidenziale. Significava non solo che lei aveva

diritti precedenti ai miei, e una dedizione che non potevo sperare di capire,

ma anche che se mai avessi ostacolato Richard avrei dovuto fare i conti

con tutti e due.

Era lei che organizzava le cose per Richard, mi annunciò - avvenimenti

mondani, cocktail party, cene e così via, perché lui era uno scapolo e come

disse (e avrebbe continuato a dire, un anno dopo l'altro): «Siamo noi fem-

minucce a organizzare questo tipo di cose». Poi disse che era semplice-


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