Margaret atwood



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mente deliziata che Richard si fosse finalmente deciso a sistemarsi, e con

una ragazza giovane come me. C'erano state un paio di cose intime - alcuni

precedenti intoppi sentimentali. (Era così che Winifred parlava sempre del-

le donne in relazione a Richard - intoppi sentimentali, come reti, o ragna-

tele, o trappole, o semplicemente pezzi di gomma appiccicosa lasciati per

terra, su cui si poteva finire per sbaglio con la scarpa).

Per fortuna Richard era sfuggito a quegli intoppi, non che le donne non

gli dessero la caccia. Gli davano la caccia a frotte, diceva Winifred, abbas-

sando la sua voce da bevitrice di whisky, e io ebbi un'immagine di Ri-

chard, i vestiti strappati, i capelli di solito sistemati con cura arruffati, che

fuggiva in preda al panico inseguito da un mucchio di femmine ululanti.

Ma non potevo credere a quell'immagine. Non potevo immaginare Richard

che correva, o si affrettava, o aveva paura. Non potevo immaginarlo in pe-

ricolo.


Annuii e sorrisi, incerta di quale dovesse essere il mio posto. Ero anch'io

uno degli intoppi appiccicosi? Forse. A giudicare dalle apparenze, tuttavia,

venivo invitata a capire che Richard aveva un alto valore intrinseco, e che

avrei fatto meglio a rigare dritta se dovevo esserne all'altezza. «Ma sono

sicura che te la caverai» disse Winifred, con un lieve sorriso. «Sei così

giovane». Se mai, la giovinezza mi avrebbe reso più difficile cavarmela, ed

era su questo che Winifred contava. Quanto a lei, non aveva alcuna inten-

zione di rinunciare a cavarsela.

Arrivarono le nostre insalate Waldorf. Winifred mi guardò prendere col-

tello e forchetta - almeno non mangiavo con le mani, diceva la sua espres-

sione - e fece un piccolo sospiro. Ero una faticaccia per lei, ora me ne ren-

do conto. Senza dubbio pensava che fossi ombrosa, od ostile: non parlavo

del più e del meno, ero così ignorante, così rustica. O forse il suo sospiro

si riferiva a ciò che l'aspettava - al lavoro che l'aspettava, perché io ero un

ammasso di argilla informe, e ora lei avrebbe dovuto rimboccarsi le mani-

che e mettersi a modellarmi.

Chi ha tempo non aspetti tempo. Ci diede subito dentro. Il suo metodo

era l'insinuazione, l'accenno. (Ne aveva un altro - il bastone -, ma durante

quel pranzo non ebbi modo di provarlo). Disse che aveva conosciuto mia

nonna, o almeno ne aveva sentito parlare. Le donne Monfort di Montreal

erano state celebrate per il loro stile, aggiunse, ma naturalmente Adelia

Monfort era morta prima che io nascessi. Questo era il suo modo di dire

che nonostante il mio pedigree in realtà stavamo partendo da zero.

I miei vestiti erano il meno, insinuò. I vestiti si potevano sempre com-

prare, naturalmente, ma avrei dovuto imparare a indossarli in modo da farli

figurare. «Come se fossero la tua pelle, cara» disse. Dei miei capelli nep-

pure a parlarne - lunghi, senza permanente, pettinati all'indietro, tenuti da

un fermaglio. Erano un chiaro caso da forbici e permanente a freddo. Poi

c'era la questione delle unghie. Niente di eccessivamente vistoso, ben inte-

so; ero troppo giovane per le cose vistose. «Potresti essere affascinante»

disse Winifred. «Assolutamente. Con un piccolo sforzo».

Ascoltavo umilmente, piena di risentimento. Sapevo di non avere fasci-

no. Né Laura né io l'avevamo. Eravamo troppo taciturne per il fascino, op-

pure troppo schiette. Non lo avevamo mai imparato, perché Reenie ci ave-

va viziato. A suo parere chi eravamo doveva essere abbastanza per chiun-

que. Non dovevamo metterci in bella mostra davanti alla gente, corteggiar-

la con blandizie, lusinghe ed esibizioni di palpebre sbattute. Credo che mio

padre scorgesse l'utilità del fascino in certi ambienti, ma non ce lo aveva

affatto instillato. Avrebbe voluto che fossimo più simili a dei ragazzi, e ora

lo eravamo. Ai ragazzi non si insegna a essere affascinanti. Fa credere alla

gente che siano ambigui.

Winifred mi guardava mangiare con un sorriso canzonatorio sulle lab-

bra. Nella sua testa mi stavo già trasformando in una sfilza di aggettivi -

una sfilza di buffi aneddoti da raccontare nei minimi dettagli alle sue ami-

che, le Billie e le Bobbie e le Charlie. Sembrava che avesse preso i vestiti

da un ente benefico. Mangiava come se non avesse mai toccato cibo. E le

scarpe!

«Bene» disse, dopo aver frugato nella sua insalata - Winifred non finiva



mai un pasto, «ora dovremo metterci al lavoro».

Non sapevo cosa intendesse. Fece un altro piccolo sospiro. «Organizzare

il matrimonio» disse. «Non abbiamo molto tempo. Pensavo: St. Simon the

Apostle, e poi la sala da ballo del Royal York, quella centrale, per il rice-

vimento».

Dovevo aver creduto che sarei stata semplicemente passata a Richard,

come un pacco; ma no, avrebbero dovuto esserci delle cerimonie - più d'u-

na. Cocktail party, tè, feste per la consegna dei regali alla sposa, servizi fo-

tografici per i giornali. Sarebbe stato come il matrimonio di mia madre

nelle storie che raccontava Reenie, ma in qualche modo in peggio e con

dei pezzi mancanti. Dov'era il preludio romantico con il giovanotto ingi-

nocchiato ai miei piedi? Sentivo un'ondata di sgomento montarmi su dalle

ginocchia al viso. Winifred lo vide, ma non fece nulla per rassicurarmi.

Non voleva che fossi rassicurata.

«Non preoccuparti, mia cara» disse, in un tono che denotava ben poca

speranza. Mi diede dei colpetti sul braccio. «Ti guiderò io». Sentii la vo-

lontà defluire da me - qualsiasi potere mi fosse rimasto sulle mie azioni.

(Ma sì! Ora che ci penso, era davvero una sorta di tenutaria di bordello,

una mezzana).

«Santo cielo, guarda che ore sono» disse. Aveva un orologio d'argento,

flessibile, come un nastro di metallo colato; c'erano sopra dei puntini al

posto dei numeri. «Devo scappare. Ti porteranno del tè, e uno sformato o

qualcos'altro, se vuoi. Le ragazze giovani hanno una tale debolezza per i

dolci». Rise e si alzò, poi mi diede un bacio color gambero, non sulla

guancia ma sulla fronte. Serviva a tenermi al mio posto, che era - sembrava

chiaro - quello di una bambina.

La guardai muoversi attraverso lo spazio pastello pieno di sussurri del-

l'Arcadian Court come se scivolasse, con lievi cenni del capo e piccoli, mi-

surati gesti della mano. L'aria si divideva davanti a lei come erba alta; le

sue gambe non sembravano attaccate ai fianchi, ma direttamente alla vita;

nulla si muoveva a scatti. Sentivo parti del mio corpo straripare, oltre i lati

delle spalline e i bordi delle calze. Desiderai essere capace di riprodurre

quella camminata, così armoniosa e incorporea e invulnerabile.

Per il matrimonio non fu scelta Avilion, ma la reggia finto Tudor in le-

gno e muratura di Winifred a Rosedale. Sembrava più comodo, visto che la

maggior parte degli invitati sarebbe venuta da Toronto. Sarebbe stato an-

che meno imbarazzante per mio padre, che non poteva più permettersi il

tipo di matrimonio che Winifred pensava le fosse dovuto.

Non poteva neanche permettersi l'onere del mio guardaroba: se ne occu-

pò Winifred. Stipati nel mio bagaglio - in uno dei miei svariati bauli nuovi

di zecca - c'erano una gonna da tennis, sebbene non giocassi, un costume

da bagno, sebbene non sapessi nuotare, e parecchi vestiti da ballo, sebbene

non sapessi ballare. Dove avrei potuto imparare? Non ad Avilion; neanche

il nuoto, perché Reenie non ce lo avrebbe permesso. Ma Winifred aveva

insistito su quelle tenute. Diceva che avrei dovuto avere abiti per ogni oc-

casione, non importa quali fossero le mie lacune, che non avrei mai dovuto

ammettere. «Di' che hai l'emicrania» mi diceva. «È sempre una scusa ac-

cettabile».

Mi disse anche molte altre cose. «Va bene mostrarsi annoiata» disse.

«Ma non fare mai vedere che hai paura. La fiuteranno su di te come squali

e verranno a darti il colpo di grazia. Puoi guardare il bordo del tavolo - ab-

bassando le palpebre -, ma non guardare mai il pavimento, sembrerà che

hai il collo debole. Non stare in piedi impalata, non sei un soldato. Non

imbarazzarti mai. Se qualcuno fa un'osservazione che ti offende, di' Pre-

go?, come se non avessi sentito; nove volte su dieci non avranno il corag-

gio di ripeterla. Non parlare mai a voce alta con un cameriere, è volgare.

Falli inchinare, è quello che devono fare. Non giocherellare con i guanti o

con i capelli. Fai credere di avere sempre qualcosa di meglio da fare, ma

non mostrarti mai impaziente. Se hai qualche dubbio, vai alla toilette delle

signore, ma vacci lentamente. La grazia viene dall'indifferenza». Queste

erano le sue prediche. Devo ammettere che, nonostante la mia avversione

nei suoi confronti, esse si sono dimostrate di notevole importanza nella

mia vita.

La notte prima delle nozze la trascorsi in una delle migliori camere da

letto di Winifred. «Fatti bella» disse allegramente, sottintendendo che non

lo ero. Mi aveva dato della crema detergente e dei guanti di cotone - dove-

vo mettermi la crema e poi infilarmi i guanti. Questo trattamento avrebbe

reso le mani bianche e soffici - la consistenza del grasso di bacon crudo.

Stavo nel bagno attiguo alla camera, ascoltando il rumore dell'acqua che

scrosciava sulla porcellana della vasca da bagno e studiando il mio viso

nello specchio. Mi sembravo cancellata, con i lineamenti indistinti, come

un ovale di sapone usato, o una luna calante.

Laura venne dalla sua stanza attraverso la porta comunicante e si sedette

sulla tazza chiusa. Non prese mai l'abitudine di bussare, quando si trattava

di me. Indossava una semplice camicia da notte di cotone bianca, che era

stata mia, e aveva i capelli legati dietro; la coda del colore del grano le ri-

cadeva su una spalla. Era a piedi nudi.

«Dove sono le tue pantofole?» chiesi. Aveva un'aria afflitta. Con quell'e-

spressione, e con la camicia da notte bianca e i piedi nudi, sembrava una

penitente - l'eretica di un vecchio dipinto mentre si recava al patibolo. Te-

neva le mani giunte davanti a sé, con le dita che delimitavano una O di

spazio lasciato aperto, come se stesse reggendo una candela accesa.

«Le ho dimenticate». Quando era vestita sembrava più adulta, perché era

alta, ma adesso sembrava più giovane; dimostrava circa dodici anni, e odo-

rava come una bambina. Era lo shampoo che usava - quello per bambini,

perché era più economico. Aveva il pallino delle piccole, inutili economie.

Si guardò intorno nel bagno, poi abbassò lo sguardo sul pavimento di pia-

strelle. «Non voglio che ti sposi» disse.

«Lo hai fatto capire abbastanza chiaramente». Era stata tetra durante tutti

i preparativi - i ricevimenti, le prove dei vestiti, quelle della cerimonia -, a

malapena educata con Richard, assolutamente obbediente con Winifred,

come una giovane domestica in prova. Nei miei confronti inquieta, come

se il matrimonio fosse un capriccio malizioso nel migliore dei casi, nel

peggiore un rifiuto nei suoi confronti. All'inizio avevo pensato che potesse

essere invidiosa di me, ma non era esattamente così. «Perché non dovrei

sposarmi?»

«Sei troppo giovane» rispose.

«La mamma aveva diciotto anni. E comunque ne ho quasi diciannove».

«Ma lei lo amava. Voleva farlo».

«Come sai che io non lo voglio?» chiesi, esasperata.

Questo la bloccò per un momento. «Non puoi volerlo» disse, alzando lo

sguardo su di me. Aveva gli occhi umidi e rossi: aveva pianto. Questo mi

irritò: che diritto aveva di piangere? Se mai, avrei dovuto farlo io.

«Quello che voglio io non conta» dissi in tono aspro. «È l'unica cosa

sensata da fare. Non abbiamo un soldo, o non te ne sei accorta? Ti piace-

rebbe se venissimo gettate in mezzo a una strada?»

«Potremmo trovare un lavoro» disse. La mia acqua di colonia era sul

davanzale accanto a lei; se ne spruzzò un po', distrattamente. Era Liù di

Guerlain, un regalo di Richard. (Scelto da Winifred, come questa mi aveva

fatto sapere. Gli uomini si confondono talmente ai banchi dei profumi, non

è vero? Il profumo dà loro direttamente alla testa).

«Non fare la stupida» replicai. «Cosa potremmo fare? Mandiamo a mon-

te tutto e finiremo in disgrazia».

«Oh, potremmo fare un'infinità di cose» disse in tono vago, rimettendo

giù l'acqua di colonia. «Potremmo fare le cameriere».

«Non potremmo mantenerci a quel modo. Le cameriere non guadagnano

quasi niente. Devono umiliarsi a racimolare mance. Hanno tutte i piedi

piatti. E poi, tu non hai la minima idea dei prezzi» dissi. Era come cercare

di spiegare l'aritmetica a un uccello. «Le fabbriche sono chiuse, Avilion sta

cadendo a pezzi, stanno per venderla; le banche sono infuriate. Non hai

guardato papà? Non l'hai visto? Sembra un vecchio».

«Allora è per lui» disse. «Quello che stai per fare. Credo che questo

spieghi qualcosa. Credo che sia coraggioso».

«Sto facendo quanto credo giusto». Mi sentivo così virtuosa, e al tempo

stesso talmente sacrificata, che mi misi quasi a piangere. Ma se avessi ce-

duto sarebbe stata finita.

«Non è giusto» disse. «Non è per niente giusto. Potresti mandare tutto

all'aria, sei ancora in tempo. Potresti scappare stanotte e lasciare un bigliet-

to. Io verrei con te».

«Smettila di tormentarmi, Laura. Sono abbastanza grande per sapere co-

sa sto facendo».

«Ma dovrai permettergli di toccarti, sai. Non è come baciarsi. Dovrai

permettergli...»

«Non preoccuparti per me» dissi. «Lasciami in pace. Ho gli occhi bene

aperti».

«Come una sonnambula» ribatté. Prese uno dei miei recipienti di cipria,

l'aprì, l'annusò e riuscì a versarne una manciata sul pavimento. «Be', alme-

no avrai dei bei vestiti».

Avrei voluto darle uno schiaffo. Quella, naturalmente, era la mia conso-

lazione segreta.

Dopo che se ne fu andata, lasciando una traccia di polverose impronte

bianche, mi sedetti sul bordo del letto, a osservare il mio baule da nave.

Era molto alla moda, giallo chiaro fuori e blu scuro all'interno, con le rifi-

niture in acciaio, le teste dei chiodi che scintillavano come dure stelle me-

talliche. Era riempito in maniera ordinata, con tutto quello che mi serviva

per la luna di miele, ma mi sembrava pieno di oscurità - di vuoto, di spazio

vuoto.

Quello è il mio corredo, pensai. All'improvviso sembrava una parola mi-



nacciosa - così estranea, così definitiva.

Uno spazzolino, pensai. Ne avrò bisogno. Il mio corpo rimaneva là sedu-

to, inerte.

Il tango


Ecco la foto del matrimonio:

Una giovane donna con un vestito di raso bianco tagliato sbieco, la stof-

fa morbida, con uno strascico aperto a ventaglio attorno ai piedi, come me-

lassa versata. Ha qualcosa della spilungona nell'atteggiamento, nella posi-

zione dei fianchi, nei piedi, come se la sua spina dorsale non fosse fatta per

quel vestito - troppo dritta. Ci sarebbe bisogno di un'alzata di spalle per un

vestito così, di un'andatura stanca, di una curva sinuosa, di una sorta di

gobba da tubercolosa.

C'è un velo che cade giù dritto ai due lati della testa e si abbassa sulla

fronte, gettando un'ombra troppo scura sugli occhi. Il sorriso non mette in

mostra denti. Una corona di piccole rose bianche; una cascata di rose più

grandi, rosa e bianche, mescolate a gelsomini, tra le sue braccia coperte da

guanti bianchi - braccia con i gomiti un po' troppo in fuori. Corona, casca-

ta - erano questi i termini usati dai giornali. Un'evocazione di suore e di

acque fresche e pericolose. «Una bella sposa» recitava la didascalia. A

quei tempi si dicevano certe cose. Nel suo caso la bellezza era d'obbligo,

con tutto quel denaro in gioco.

(Ho detto «nel suo caso», perché non ricordo di essere stata presente, in

nessuna accezione significativa del termine. Io e la ragazza della foto ab-

biamo smesso di essere la stessa persona. Io sono una sua conseguenza, il

risultato della vita in cui un tempo lei si tuffava a capofitto; mentre lei, se

mai si può dire che esiste, è formata soltanto da ciò che ricordo. Sono io

che ho la visuale migliore - posso scorgerla chiaramente, quasi sempre.

Anche se fasse abbastanza in gamba da guardare, invece, lei non potrebbe

vedermi affatto).

Richard è accanto a me, ammirevole secondo i parametri del tempo e del

luogo, intendendo con ciò piuttosto giovane, non brutto e ricco. Ha un a-

spetto imponente, ma al tempo stesso curioso: un sopracciglio alzato, il

labbro inferiore sporto un po' in fuori, la bocca sul punto di sorridere, co-

me per un divertimento segreto, equivoco. Un garofano all'occhiello, i ca-

pelli pettinati all'indietro come una lucida cuffia di gomma, incollati alla

testa con la sostanza appiccicosa che si usava metterci a quei tempi. Ma

ciò nonostante un uomo attraente. Devo ammetterlo. Affascinante. Un uo-

mo di mondo.

Ci sono anche alcuni ritratti di gruppo in posa - in secondo piano una

folla disordinata di amici dello sposo nei loro abiti da cerimonia, più o me-

no gli stessi per matrimoni e funerali, identici a quelli dei capo camerieri;

in primo piano le damigelle d'onore della sposa, pure e splendenti, con i

bouquet spumeggianti di fiori. Laura è riuscita a rovinare ognuna di queste

foto. In una è decisamente truce, in un'altra deve aver mosso la testa, per-

ciò il suo viso è una macchia indistinta, come un piccione che va a sbattere

contro un vetro. In una terza si sta mordicchiando un dito, lanciando oc-

chiate di traverso con aria colpevole, come se fosse stata sorpresa con le

mani nel sacco. In una quarta deve esserci stato un difetto nella pellicola,

perché c'è un effetto di luce chiazzata che non cade su di lei ma più in alto,

come se stesse sul bordo di una piscina illuminata, di notte.

Dopo la cerimonia comparve Reenie, vestita decorosamente in blu e tut-

ta in ghingheri. Mi abbracciò stretta e disse: «Se solo tua madre fosse qui».

Cosa voleva dire? Fosse lì ad approvare o a interrompere la cerimonia?

Dal tono della sua voce avrebbe potuto essere sia una cosa che l'altra. In

quell'occasione pianse, io no. Ai matrimoni la gente piange per la stessa

ragione per cui piange davanti ai lieto fine: perché vuole disperatamente

credere in qualcosa che sa che non è verosimile. Ma io avevo superato un

simile atteggiamento infantile; respiravo l'aria alta e fredda della disillusio-

ne, o almeno così pensavo.

Ci fu lo champagne, naturalmente. Doveva esserci: Winifred non lo a-

vrebbe mai dimenticato. Gli altri mangiavano. Vennero fatti discorsi di cui

non ricordo nulla. Ballammo? Credo di sì. Non ne ero capace, ma mi ritro-

vai sulla pista da ballo, perciò devo pure aver caracollato qua e là.

Poi indossai la mia tenuta da viaggio. Era un abito a due pezzi in una

leggera lana primaverile di un verde pallido, con un sobrio cappello assor-

tito. Costava un occhio, disse Winifred. Al momento della partenza mi mi-

si in bilico sui gradini (quali gradini? I gradini devono essere svaniti dalla

mia memoria), e gettai il mio bouquet verso Laura. Non lo prese. Se ne

stava là nel suo abito rosa conchiglia, guardandomi freddamente, le mani

strette davanti a sé come per trattenersi, e una delle damigelle d'onore - una

o l'altra delle cugine Griffen - lo afferrò e se lo portò via avidamente, quasi

fosse cibo.

A quel punto mio padre era scomparso. Meno male, perché l'ultima volta

che era stato visto era rigido per quanto aveva bevuto. Suppongo che fosse

andato a terminare l'opera.

Ppi Richard mi prese per il gomito e mi guidò verso la macchina pronta

per la fuga. Nessuno doveva conoscere la nostra destinazione, che si pre-

sumeva in qualche luogo fuori città - in una romantica locanda appartata.

In realtà la macchina fece il giro dell'edificio fino all'entrata laterale del

Royal York Hotel, dove avevamo appena dato il ricevimento nuziale, e

fummo portati su di nascosto in ascensore. Richard disse che dal momento

che avremmo preso il treno per New York la mattina dopo, e che l'Union

Station era esattamente dall'altra parte della strada, che senso aveva andare

troppo lontano?

Sulla mia notte di nozze, o piuttosto sul mio pomeriggio di nozze - il so-

le non era ancora tramontato e la stanza era inondata, come suol dirsi, di

uno splendore rosato, perché Richard non tirò le tende - dirò molto poco.

Non sapevo cosa aspettarmi; la mia unica fonte di informazioni era stata

Reenie, che mi aveva lasciato credere che qualunque cosa fosse successa

sarebbe stata spiacevole e molto probabilmente dolorosa, e in questo non

fui ingannata. Aveva anche insinuato che questo fatto o sensazione spiace-

vole non sarebbe stato assolutamente nulla di speciale - ci passavano tutte

le donne, o almeno tutte quelle che si sposavano - perciò non avrei dovuto

protestare. Fai buon viso a cattivo gioco, erano state le sue parole. Aveva

detto che ci sarebbe stato del sangue, e ci fu. (Ma non aveva detto perché.

Quella parte fu una totale sorpresa).

Non sapevo ancora che la mia mancanza di piacere - il mio disgusto,

perfino la mia sofferenza - sarebbe stata considerata normale e perfino au-

spicabile da mio marito. Era uno di quegli uomini per i quali se una donna

non provava piacere sessuale tanto meglio, perché non sarebbe stata incli-

ne ad andare a cercarlo altrove. Forse questi atteggiamenti erano comuni, a

quei tempi. O forse no. Non avevo modo di saperlo.

Richard aveva combinato di farsi mandare su una bottiglia di champa-

gne, in quello che aveva previsto sarebbe stato il momento giusto. Anche

la cena. Io zoppicai fino al bagno e mi chiusi a chiave, mentre il cameriere

disponeva tutto su un tavolo portatile con una tovaglia di lino bianca. Io

indossavo la tenuta che Winifred aveva ritenuto adeguata per l'occasione,

una camicia da notte di raso di una sfumatura rosa salmone, con un delica-

to bordo di pizzo color grigio ragnatela. Cercai di pulirmi con un asciuga-

mano, poi mi chiesi cosa avrei dovuto farne: il rosso era così visibile, sem-

brava che mi fosse uscito il sangue dal naso. Alla fine lo misi nel cestino

della carta straccia e sperai che la cameriera dell'albergo pensasse che fos-

se caduto lì per sbaglio.

Poi mi spruzzai di Liù, un profumo che trovavo delicato e tenue. Era sta-

to chiamato così - avevo scoperto nel frattempo - dal nome della fanciulla


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