Margaret atwood



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suno di loro lo capisce, quanto sono belli. Ma ciò nonostante sono irritanti,

i giovani. Di regola hanno un modo di fare spaventoso, e a giudicare dalle

loro canzoni non fanno che frignare e spassarsela, mentre il far buon viso a

cattivo gioco è passato di moda, come il fox-trot. Non capiscono la loro

fortuna.

Mi guardavano a malapena. Devo essere sembrata loro bizzarra, ma

suppongo che sia il destino di ognuno essere ridotto al rango di bizzarro da

chi è più giovane di lui. A meno che non ci sia del sangue per terra, natu-

ralmente. Guerra, pestilenza, assassinio, ogni genere di sofferenza o vio-

lenza, ecco cosa rispettano. Il sangue vuol dire che facevamo sul serio.

Quindi è stata la volta dei premi - informatica, fisica, bla bla bla, eco-

nomia, letteratura inglese, qualcosa che non ho afferrato. Poi il tizio della

Alumni Association si è schiarito la gola ed è partito con un ipocrita pisto-

lotto su Winifred Griffen Prior, santa in terra. È incredibile come tutti rac-

contino frottole, quando è in gioco del denaro! Suppongo che la vecchia

puttana avesse previsto ogni cosa al momento di fare il lascito, misero co-

m'è. Sapeva che sarebbe stata richiesta la mia presenza; voleva che fremes-

si sotto il severo sguardo della città, mentre si tessevano le lodi della sua

munificenza. Spendete questo in ricordo di me. Odiavo darle questa soddi-

sfazione, ma non potevo evitarlo senza sembrare spaventata o colpevole,

oppure indifferente. Peggio: smemorata.

Poi è venuto il turno di Laura. Il politico si è incaricato di fare gli onori

di casa: l'argomento imponeva del tatto. È stato detto qualcosa sulle origini

locali di Laura, sul suo coraggio, sulla sua «dedizione a una nobile causa»,

qualunque cosa volesse dire. Nulla sul modo in cui era morta, che - nono-

stante il verdetto dell'inchiesta - ognuno in questa città crede vicino al sui-

cidio quanto un'imprecazione lo è a una bestemmia. E assolutamente nulla

sul libro, che senza dubbio per quasi tutti loro era meglio se fosse stato

dimenticato. Tuttavia non è andata così, non qui: perfino a distanza di cin-

quant'anni quel libro conserva la sua aura di zolfo e tabù. Lo trovo difficile

da spiegare: per quanto riguarda la sensualità, erano tutte cose trite e ritrite,

il linguaggio osceno non aveva nulla che non si potesse sentire tutti i gior-

ni agli angoli delle strade, il sesso era pudico come una danza dei ventagli

- quasi stravagante, come i reggicalze.

E poi, naturalmente, la questione era un'altra. Ciò che la gente ricorda

non è il libro in sé, quanto le violente reazioni che suscitò: in chiesa i mini-

stri del culto lo denunciarono come osceno, e non solo da noi; la biblioteca

pubblica fu costretta a toglierlo dagli scaffali, l'unica libreria della città ri-

fiutò di rifornirsene. Si parlò di censurarlo. La gente scappava a Stratford,

a London o perfino a Toronto, e si procurava la sua copia di nascosto, co-

me a quel tempo si usava fare con i preservativi. Tornati a casa tiravano le

tende e leggevano, con disapprovazione, con gusto, avidità e gioia - per-

fino quelli a cui non era mai venuto in mente di aprire un romanzo prima

di allora. Non c'è niente come una palata di sporcizia per incoraggiare l'al-

fabetizzazione.

(Senza dubbio fu espressa anche qualche opinione garbata. Non ce l'ho

fatta ad arrivare fino in fondo - è una storia troppo debole per me. Ma la

poverina era talmente giovane. Forse avrebbe fatto meglio con qualche al-

tro libro, se non fosse morta. Questa probabilmente è la cosa migliore che

avrebbero potuto dire sul suo conto).

Cosa volevano? Lascivia, oscenità, la conferma dei loro peggiori sospet-

ti. Ma forse alcuni, loro malgrado, volevano essere sedotti. Forse erano al-

la ricerca della passione; forse frugavano nel libro come in un pacco miste-

rioso - un pacco dono in fondo al quale, nascosto fra strati di frusciante

carta velina, giaceva qualcosa che avevano sempre desiderato ma non ave-

vano mai potuto agguantare.

Ma volevano anche toccare con mano la gente reale al suo interno - a

parte Laura, voglio dire: la sua, di realtà, era data per scontata. Volevano

veri corpi, da adattare ai corpi evocati per loro dalle parole. Volevano vera

lussuria. Soprattutto, volevano sapere: chi era l'uomo? A letto con la gio-

vane donna, la graziosa giovane donna morta; a letto con Laura. Alcuni di

loro pensavano di saperlo, naturalmente. C'erano stati pettegolezzi. Per chi

era capace di fare due più due, tutto tornava. Si comportava come se fosse

pura come un giglio. Faceva la santarellina. È la dimostrazione che non si

può giudicare un libro dalla copertina.

Ma ormai Laura era al di fuori della loro portata. Rimanevo io. Comin-

ciarono le lettere anonime. Perché avevo fatto in modo che quell'immondi-

zia venisse pubblicata? E per di più a New York, la Grande Sodoma. Una

simile porcheria! Non avevo nessuna vergogna? Avevo lasciato che la mia

famiglia - tanto rispettata! - fosse disonorata, e con lei l'intera città. Laura

non aveva mai avuto le rotelle a posto, tutti l'avevano sempre sospettato, e

il libro ne era la prova. Io avrei dovuto proteggere la sua memoria. Avrei

dovuto dare fuoco al manoscritto. Guardando la macchia indistinta di teste,

laggiù tra il pubblico - le teste dei più vecchi - potevo immaginare un'at-

mosfera di vecchio rancore, vecchia invidia e vecchia condanna sprigio-

narsi da esse come da una palude che si raffredda.

Quanto al libro in sé, restava innominabile - cacciato lontano dagli oc-

chi, come un parente deforme di cui vergognarsi. Un libro così esile, così

indifeso. Ospite non invitato a questa strana festa, fluttuava ai margini del

palcoscenico come una falena impotente.

Mentre sognavo a occhi aperti mi sono sentita afferrare per un braccio,

quindi sono stata sollevata di peso e mi è stato ficcato in mano l'assegno

nella sua busta profilata d'oro. Hanno annunciato la vincitrice. Non ne ho

afferrato il nome.

È avanzata verso di me, facendo risuonare i tacchi attraverso il palco-

scenico. Era alta; di questi tempi sono tutte alte, le ragazze, dev'essere per

via di qualcosa nel cibo. Indossava un abito nero, severo tra i colori estivi,

con fili argentati o perline - qualcosa di scintillante. I capelli erano lunghi e

scuri. Un viso ovale, una bocca truccata con rossetto color ciliegia; leg-

germente arcigna, concentrata, intenta. La pelle con un sottofondo di colo-

re giallo pallido o marrone - forse era indiana, o araba, o cinese? Perfino a

Port Ticonderoga era possibile una cosa del genere: tutti sono dappertutto

al giorno d'oggi.

Il mio cuore ha vacillato: un ardente desiderio mi ha attraversato come

un crampo. Forse mia nipote - forse Sabrina ora ha questo aspetto, ho pen-

sato. Forse, o forse no, come potrei saperlo? Non la riconoscerei neppure.

Mi è stata tenuta lontana talmente a lungo; si è tenuta lontana. Che farci?

«Signora Griffen» ha sibilato il politico.

Ho barcollato, ho ripreso l'equilibrio. E adesso cosa avevo intenzione di

dire?


«Mia sorella Laura sarebbe così contenta» ho ansato nel microfono. A-

vevo la voce stridula; ho pensato di poter svenire. «Le piaceva aiutare la

gente». Era vero, mi ero fatta la solenne promessa di non dire nulla di fal-

so. «Amava talmente la lettura e i libri». Anche questo era vero, fino a un

certo punto. «Ti avrebbe augurato tutto il bene possibile per il tuo futuro».

Vero anche questo.

Sono riuscita a porgere la busta; la ragazza si è dovuta chinare. Le ho

sussurrato all'orecchio, o ho pensato di sussurrare - Dio ti benedica. Stai

attenta. Chiunque intenda avere a che fare con le parole ha bisogno di una

simile benedizione, di un simile avvertimento. Avevo parlato davvero, o

avevo semplicemente aperto e chiuso la bocca come un pesce?

Ha sorriso, e minuscoli lustrini scintillanti sono balenati, illuminandole

il viso e i capelli. Uno scherzo dei miei occhi e delle luci del palcoscenico,

troppo intense. Avrei dovuto mettermi gli occhiali con le lenti colorate. Me

ne stavo là sbattendo le palpebre. Poi lei ha fatto qualcosa di inaspettato: si

è chinata verso di me e mi ha baciato sulla guancia. Attraverso le sue lab-

bra potevo sentire la trama della mia pelle: morbida come il cuoio di un

guanto da bambino, increspata, polverosa, antica.

Mi ha sussurrato a sua volta qualcosa, ma non sono proprio riuscita ad

afferrarla. Era un semplice grazie, o un altro messaggio - possibile? - in

una lingua straniera?

Si è girata. La luce che emanava era talmente abbagliante che ho dovuto

chiudere gli occhi. Non avevo sentito, non vedevo niente. L'oscurità si è

fatta più vicina. Gli applausi mi colpivano le orecchie come ali sbattute.

Ho vacillato e sono stata sul punto di cadere.

Qualche funzionario all'erta mi ha afferrato per il braccio e mi ha inca-

strato nuovamente nella mia sedia. Di nuovo nell'oscurità. Di nuovo nella

lunga ombra gettata da Laura. Al sicuro.

Ma la vecchia ferita si è riaperta, lascia sgorgare sangue invisibile. Pre-

sto ne sarò svuotata.

La scatola d'argento

I tulipani arancione stanno spuntando, raggrinziti e cenciosi come soldati

sbandati di un esercito sulla via del ritorno. Li saluto con sollievo, quasi

facendo gesti di richiamo da un edificio bombardato; eppure, devono farsi

strada come meglio possono, senza troppo aiuto da parte mia. A volte giro

curiosando fra i detriti del giardino sul retro, ripulendolo di steli secchi e

foglie cadute, ma questo è il massimo a cui mi spingo. Non riesco più a in-

ginocchiarmi molto bene, non posso ficcare le mani nella terra.

Ieri sono andata dal dottore per parlare di questi giramenti di testa. Mi ha

detto che ho sviluppato quello che un tempo si chiamava un cuore, come

se la gente sana non ne avesse uno. Sembra che dopotutto non continuerò a

vivere per sempre, limitandomi a rimpicciolire, a diventare più grigia e

polverosa, come la Sibilla nella sua ampolla. Avendo mormorato tanto

tempo fa Voglio morire, ora mi rendo conto che questo desiderio sarà e-

saudito davvero, e piuttosto prima che poi. Non importa che abbia cambia-

to idea al riguardo.

Mi sono avvolta in uno scialle per sedermi fuori, protetta dalla sporgen-

za della veranda sul retro, a un tavolo di legno coperto di graffi che ho

chiesto a Walter di portare dal garage. C'erano sopra le solite cose, eredità

dei precedenti proprietari: una collezione di lattine di vernice secca, una

pila di fogli di bitume, un vasetto di vetro riempito a metà di chiodi arrug-

giniti, un rotolo di filo per appendere i quadri. Passeri mummificati, nidi di

topi fatti di imbottitura di materasso. Walter lo ha lavato con lo Javex, ma

puzza ancora di topo.

Disposti davanti a me ci sono una tazza di tè, una mela divisa in quarti e

un bloc-notes a righe blu, come i pigiami da uomo di una volta. Ho compe-

rato anche una nuova penna, una da poco prezzo, una penna a sfera di pla-

stica nera. Ricordo la mia prima penna stilografica, com'era liscia, come

l'inchiostro mi faceva blu le dita. Era fatta di bachelite, con le rifiniture in

argento. Era il 1929. Avevo tredici anni. Laura prese in prestito la penna -

senza chiederlo, come faceva con tutto - e poi la ruppe, come se niente fos-

se. La perdonai, naturalmente. Lo facevo sempre; dovevo, perché c'era-

vamo solo noi due. Noi due sulla nostra isola circondata di spine, in attesa

di essere salvate; e, sul continente, tutti gli altri.

Per chi sto scrivendo tutto questo? Per me stessa? Non credo. Non riesco

a immaginarmi a rileggerlo poi, dal momento che il poi è diventato pro-

blematico. Per qualche estraneo, nel futuro, dopo la mia morte? Non ho

una simile ambizione, e neanche una simile speranza.

Forse non scrivo per nessuno. O forse per la stessa persona per cui scri-

vono i bambini, quando scarabocchiano i loro nomi nella neve.

Non sono più veloce come una volta. Le mie dita sono rigide e malde-

stre, la penna oscilla e vaga, mi occorre molto tempo per mettere insieme

le parole. Eppure insisto, ingobbita sulla carta come se cucissi al chiaro di

luna.


Quando guardo nello specchio vedo una donna vecchia; anzi, non vec-

chia, perché a nessuno è più concesso di essere vecchio. Anziana, allora. A

volte vedo una donna anziana che potrebbe sembrare la nonna che non ho

mai conosciuto, o mia madre, se le fosse riuscito di arrivare a questa età.

Altre volte vedo invece il viso di ragazza che passavo tanto tempo ad ag-

giustare e a deplorare, lo vedo galleggiare come un annegato proprio sotto

il mio viso attuale, che - soprattutto di pomeriggio, con la luce obliqua -

sembra così floscio e trasparente che potrei quasi sfilarlo come una calza.

Il dottore dice che ho bisogno di camminare - ogni giorno, dice, per il

mio cuore. Io preferirei di no. Non è l'idea del camminare che mi infastidi-

sce, è l'uscire: mi sento troppo in mostra. Me li immagino soltanto, gli

sguardi, i sussurri? Forse sì, forse no. Dopotutto sono un'istituzione locale,

come un lotto vuoto disseminato di mattoni nel punto in cui un tempo sor-

geva un importante edificio.

La tentazione è di rimanere in casa; di impersonare la parte della specie

di reclusa che i bambini del vicinato guardano con scherno e con un po' di

soggezione; di far crescere siepi ed erbacce, di lasciare che le porte si ar-

rugginiscano stando sempre chiuse, di giacere sul letto in un abito lungo,

di permettere ai miei capelli di allungarsi e di spargersi sul cuscino e alle

mie unghie di crescere in artigli, mentre la cera della candela gocciola sul

tappeto. Ma tanto tempo fa ho compiuto una scelta tra classicismo e ro-

manticismo. Preferisco stare in piedi e controllarmi: un sepolcro alla luce

del sole.

Forse non sarei dovuta tornare a vivere qui. Ma a quel tempo non riusci-

vo a pensare a nessun altro posto dove andare. Come diceva sempre Ree-

nie: Chi lascia la strada vecchia per la nuova...

Oggi ho fatto uno sforzo. Sono uscita, ho camminato. Ho camminato fi-

no al cimitero: si ha bisogno di una meta per simili escursioni altrimenti

senza senso. Ho indossato il mio cappello a tesa larga per ridurre il river-

bero del sole e i miei occhiali con le lenti colorate, poi ho preso il mio ba-

stone per procedere a tentoni sui marciapiedi. E un sacchetto di plastica.

Ho percorso Erie Street, ho superato una lavanderia a secco, un fotogra-

fo specializzato in ritratti, i pochi altri negozi della strada principale che

sono riusciti a sopravvivere al drenaggio provocato dai centri commerciali

ai margini della città. Quindi il Betty's Luncheonette, che ha di nuovo cam-

biato gestione: prima o poi i suoi proprietari si annoiano, o muoiono, o si

trasferiscono in Florida. Ora Betty's ha un giardino a patio, dove i turisti

possono sedersi al sole e arrostire ben bene; è sul retro, nel piccolo spiazzo

di cemento crepato dove una volta tenevano i contenitori dell'immondizia.

Offrono tortellini e cappuccino, annunciati spavaldamente in vetrina come

se per tutti in città fosse naturale sapere di cosa si tratta. Be', ormai lo san-

no; li hanno provati, magari solo per acquistare il diritto di disprezzarli.

Non mi serve quella bambagia sul caffè. Sembra crema da barba. Un sor-

so, e ti esce la schiuma di bocca.

Una volta la specialità erano i pasticci di pollo, ma sono scomparsi da un

pezzo. Ci sono gli hamburger, però Myra dice che è meglio evitarli. A sen-

tir lei usano polpette precongelate fatte con polvere di carne. La polvere di

carne, dice, è quella che raschiano via dal pavimento dopo aver tagliato a

pezzi con la sega elettrica le mucche congelate. Legge un sacco di riviste,

dal parrucchiere.

Il cimitero ha un cancello di ferro battuto sormontato da un'arcata ornata

di intricate volute, e un'iscrizione: Pur attraversando la valle dell'ombra

della morte non temerò alcun male, poiché Tu sei con me. Sì, essere in due

offre un'ingannevole sicurezza; ma il Tu è un personaggio ambiguo. Tutti i

Tu che ho conosciuto sono riusciti a sparire in un modo o nell'altro. La-

sciano di nascosto la città, o diventano perfidi, o cadono come mosche, e

poi dove ti ritrovi?

Proprio qui.

È difficile non notare il monumento della famiglia Chase; è più alto di

qualsiasi altra cosa. Ha due angeli ed è in marmo bianco, in stile vittoriano,

lacrimoso ma piuttosto ben fatto per il suo genere, su un grande cubo di

pietra con gli angoli ornati di volute. Il primo angelo è in piedi, con la testa

reclinata di lato in una posa addolorata, una mano teneramente appoggiata

sulla spalla del secondo. Questo è in ginocchio, piegato sulla coscia dell'al-

tro, con lo sguardo fisso davanti a sé, e tiene con delicatezza un fascio di

gigli. Nonostante i loro corpi siano dignitosi, i contorni nascosti da pieghe

di pietra mollemente drappeggiata, impenetrabile, si capisce che sono di

sesso femminile. La pioggia acida sta facendo sentire i suoi effetti su di lo-

ro: gli occhi un tempo acuti ora sono offuscati, indeboliti e porosi, come se

avessero le cateratte. Ma forse è la mia vista che se ne sta andando.

Io e Laura venivamo spesso qui. Vi eravamo condotte da Reenie, che

pensava che rendere visita alle tombe di famiglia facesse in qualche modo

bene ai bambini, e in seguito ci venivamo da sole: era una scusa ipocrita, e

perciò accettabile, per fuggire. Quando era piccola, Laura diceva che gli

angeli dovevamo essere noi, io e lei. Ribattevo che non poteva essere vero,

perché erano stati messi lì dalla nonna prima della nostra nascita. Ma Lau-

ra non prestava mai grande attenzione a questo tipo di ragionamento. Era

più interessata alle forme - a quello che le cose erano in se stesse, piuttosto

che a ciò che non erano. Ne ricercava l'essenza.

Col passare del tempo ho preso l'abitudine di venire qui almeno due vol-

te l'anno, se non altro per mettere in ordine. Una volta guidavo, ma ora non

più: i miei occhi sono troppo malridotti. Mi sono piegata faticosamente, ho

raccolto i fiori appassiti che si erano accumulati, lasciati dagli ammiratori

anonimi di Laura, e li ho ficcati nel sacchetto di plastica. Ora questi omag-

gi sono meno numerosi di un tempo, ma sempre fin troppo abbondanti.

Oggi alcuni erano piuttosto freschi. Di tanto in tanto ho trovato bastoncini

di incenso e anche candele, come se Laura venisse evocata.

Dopo essermi occupata dei mazzi di fiori ho girato intorno al monumen-

to, leggendo l'appello dei Chase defunti scolpito sui lati del cubo. Benja-

min Chase e la sua adorata moglie Adelia; Norval Chase e la sua adorata

moglie Liliana. Edgar e Percival, che non diventeranno vecchi come è sta-

to concesso a noi di diventarlo.

E Laura, qui come in ogni altro luogo. La sua essenza.

Polvere di carne.

C'era una sua foto nel giornale locale la scorsa settimana, insieme a un

resoconto del premio - la foto classica, quella della sopraccoperta del libro,

l'unica che sia mai stata stampata, perché è l'unica che ho dato. È un ritrat-

to eseguito in uno studio fotografico, con la parte superiore del corpo vol-

tata rispetto al fotografo e la testa girata per conferire al collo una curva

aggraziata. Un po' di più, ora guarda su, verso di me, brava, ora vediamo

il sorriso. I suoi lunghi capelli sono biondi, com'erano allora i miei - chiari,

quasi bianchi, come se le sfumature rosse fossero state lavate via - il ferro,

il rame, i metalli duri. Un naso dritto; un viso a cuore; occhi grandi, lu-

minosi, ingenui; le sopracciglia arcuate, con una piega perplessa verso l'al-

to all'interno. Un tocco di testardaggine nella mascella, ma non lo si scorge

a meno di conoscerlo. Di trucco neanche a parlarne, il che conferisce al vi-

so un aspetto stranamente nudo: quando si guarda la bocca, ci si rende con-

to di guardare della carne.

Graziosa; perfino bella; intatta in maniera toccante. La pubblicità di un

sapone, tutti ingredienti naturali. Il viso sembra indifferente: ha quella im-

penetrabilità vacua, imbarazzata di tutte le ragazze bene educate del tem-

po. Una tabula rasa, che non aspetta di scrivere ma di essere scritta.

È solo il libro a renderla degna di essere ricordata, ora.

Laura tornò in una piccola scatola color argento, come quelle per le siga-

rette. Sapevo quali sarebbero stati i commenti in città, quasi fossi stata a

origliare. Naturalmente non è davvero lei, ma solo le ceneri. Chi avrebbe

mai detto che i Chase fossero favorevoli alla cremazione, non lo erano

mai stati prima, ai bei tempi non si sarebbero mai abbassati a tanto, ma

questa volta è come se avessero deciso di portare a termine il lavoro, visto

che lei era già più o meno completamente bruciata. Eppure, pensavo che

secondo loro sarebbe dovuta rimanere con la famiglia. Che l'avrebbero

voluta nel loro grande monumento con i due angeli. Nessun altro ne ha

due, ma quello fu quando i soldi gli bruciavano in tasca, tanto da farci dei

buchi. Allora amavano mettersi in mostra, fare sensazione; stare al co-

mando, si direbbe. Essere pezzi grossi. Di sicuro una volta da queste parti

pezzi più grossi di loro non ce n'erano.

Queste cose le sento sempre dire con la voce di Reenie. Lei era la nostra

interprete della città, mia e di Laura. A chi altri avremmo potuto rivolger-

ci?

Dietro il monumento c'è uno spazio vuoto. Ci penso come a un posto ri-



servato - riservato in permanenza, come quelli che Richard si procurava al

Royal Alexandra Theatre. È il mio posticino; è là che andrò sottoterra.

La povera Aimee è a Toronto, al Mount Pleasant Cemetery, insieme ai

Griffen - con Richard, Winifred e il loro sfarzoso megalite di granito luci-

do. Se n'è occupata Winifred - ha rivendicato i suoi diritti nei confronti di

Richard e Aimee piombando subito come una furia e ordinando le loro ba-

re. Chi paga le pompe funebri detta legge. Se avesse potuto, mi avrebbe

escluso dai loro funerali.

Ma Laura fu la prima di loro, perciò Winifred non aveva ancora perfe-

zionato il suo numero di scippatrice di corpi. Dissi: «Viene a casa», tutto

lì. Dispersi le ceneri al suolo, ma mi tenni la scatola d'argento. Per fortuna

non la seppellii: a quest'ora qualche ammiratore avrebbe potuto sgraffi-


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