Margaret atwood



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spetto esteriore; aveva cominciato a vestirsi in maniera piuttosto elegante,

sia con i suoi vestiti che con i miei.

«Vuoi dire che non ci pensi granché?» chiesi.

«No. Non ci penso affatto».

«Forse dovresti» dissi. «Forse dovresti dedicare almeno un minuto di ri-

flessione al tuo futuro. Non puoi continuare per sempre a non far altro che

gingillarti, a non fare...» Volevo dire a non fare niente, ma sarebbe stato

un errore.

«Il futuro non esiste» disse Laura. Aveva preso l'abitudine di parlarmi

come se io fossi la sorella minore e lei la maggiore; come se dovesse spie-

garmi chiaramente le cose. Poi disse una delle sue strane frasi. «Se fossi un

funambolo con gli occhi bendati che attraversasse le Cascate del Niagara

su un alto filo, a cosa faresti più attenzione - alla folla sull'altra riva o ai

tuoi piedi?»

«Ai miei piedi, credo. Vorrei che non usassi la mia spazzola. Non è igie-

nico».

«Ma se facessi troppa attenzione ai tuoi piedi, cadresti. E se facessi trop-



pa attenzione alla folla, cadresti lo stesso».

«Allora qual'è la risposta giusta?»

«Se tu fossi morta, questa spazzola sarebbe ancora tua?» chiese, guar-

dandosi il profilo con la coda dell'occhio. Questo le conferì, nel riflesso,

un'espressione maliziosa insolita per lei. «I morti possono possedere le co-

se? E se non possono, cosa la rende "tua" adesso? Le tue iniziali sopra di

essa? O i tuoi germi?»

«Laura, smetti di stuzzicarmi!»

«Non ti sto stuzzicando» disse, mettendo giù la spazzola. «Sto pensando.

Tu non capisci mai la differenza. Non so perché ascolti qualunque cosa

Winifred abbia da dire. È come ascoltare una trappola per topi. Senza il to-

po dentro» aggiunse.

Era diventata diversa ultimamente: era diventata fragile, noncurante, im-

prudente in una maniera nuova. Non era più aperta nelle sue sfide. Sospet-

tavo che avesse iniziato a fumare alle mie spalle: le avevo sentito addosso

odore di tabacco una o due volte. Tabacco, e qualcos'altro: qualcosa di

troppo vecchio, di troppo smaliziato. Avrei dovuto essere più attenta ai

cambiamenti che stavano avvenendo in lei, ma avevo parecchie altre cose

per la mente.

Aspettai fino alla fine di ottobre per informare Richard che ero incinta.

Dissi che avevo voluto esserne sicura. Espresse una gioia convenzionale, e

mi baciò sulla fronte. «Brava» disse. Stavo solo facendo ciò che ci si a-

spettava da me.

Un vantaggio era che adesso la notte mi lasciava scrupolosamente da so-

la. Non voleva rovinare niente, diceva. Gli dissi che era molto premuroso

da parte sua. «E tu avrai il gin razionato d'ora in poi. Non permetterò nes-

suna disobbedienza» fece, agitando il dito verso di me in un modo che tro-

vai sinistro. Mi sembrava più allarmante in questi momenti di frivolezza di

quanto non fosse il resto del tempo; era come guardare una lucertola fare le

capriole. «Prenderemo il dottore più bravo» aggiunse. «Non baderemo a

spese». Mettere le cose sul terreno commerciale era rassicurante per tutti e

due. Con del denaro in gioco, sapevo qual era il mio ruolo: ero la portatrice

di un pacco molto costoso, né più né meno.

Dopo il primo gridolino di genuino spavento, Winifred si diffuse in

smancerie fasulle. In realtà era allarmata. Presumeva (giustamente) che es-

sere la madre di un figlio ed erede, o anche solo di un erede, mi avrebbe

dato nei confronti di Richard un prestigio maggiore di quanto ne avessi

avuto fino ad allora, e molto di più di quanto avessi il diritto di avere. Di

più per me, di meno per lei. Sarebbe stata bene attenta a trovare dei modi

per ridimensionarmi: ogni istante mi aspettavo di vederla apparire con pia-

ni dettagliati per l'arredamento della stanza del nascituro.

«Per quando possiamo attendere il lieto evento?» chiese, e capii che a-

vrei dovuto aspettarmi una dose prolungata di linguaggio esageratamente

dolce da parte sua. Ora si sarebbe parlato del nuovo arrivo e di un regalo

della cicogna e del piccolo sconosciuto, a non finire. Winifred poteva di-

ventare molto vivace e affettata sugli argomenti che la rendevano nervosa.

«Per aprile, credo» risposi. «O per marzo. Non sono ancora andata da un

dottore».

«Ma devi saperlo» disse, inarcando le sopracciglia.

«Be', non mi è mai successo prima» ribattei seccata. «Non è che stessi

aspettando che accadesse. Non ci facevo attenzione».

Una sera andai nella stanza di Laura per darle la notizia. Bussai alla por-

ta; visto che non rispondeva, aprii piano, pensando che forse dormiva. Ma

non era così. Era in ginocchio accanto al letto, con la camicia da notte blu,

la testa abbassata e i capelli sparsi quasi fossero smossi da un vento invisi-

bile, le braccia allargate come se fosse stata scaraventata là. Sulle prime

pensai che stesse pregando, ma non era così, o almeno non in maniera che

potessi sentire. Quando mi notò, si alzò, con un'aria pratica come se fosse

stata a spolverare, e si sedette sullo sgabello ornato di stoffa increspata del-

la sua toletta.

Come sempre, fui colpita dal rapporto tra ciò che la circondava, che Wi-

nifred aveva scelto per lei - gli squisiti tessuti stampati, i boccioli di rosa di

nastro, le organze, le balze - e Laura stessa. Una foto avrebbe rivelato solo

armonia. Eppure per me l'incongruenza era profonda, quasi surreale. Laura

era una selce in un nido di lanugine del cardo.

Ho detto selce, non una pietra qualunque: una selce ha il cuore di fuoco.

«Laura, volevo dirtelo» dissi. «Sto per avere un bambino».

Si girò verso di me, il viso liscio e bianco come un piatto di porcellana,

l'espressione sigillata al suo interno. Ma non mi sembrò sorpresa. Né si fe-

licitò con me. Invece disse: «Ti ricordi il gattino?»

«Quale gattino?» chiesi.

«Il gattino che ebbe la mamma. Quello che la uccise».

«Laura, non era un gattino».

«Lo so» disse.

La bella vista

È tornata Reenie. Non è troppo contenta di me. Ebbene, signorina. Co-

s'hai da dire a tua discolpa? Cos'hai fatto a Laura? Non impari mai nien-

te?


Non ci sono risposte a certe domande. Le risposte sono talmente aggro-

vigliate con le domande, così intricate e complesse, che in realtà non sono

affatto risposte.

Su questo punto sono sotto processo. Lo so. So cosa penserai tra breve.

Sarà più o meno lo stessa cosa che sto pensando anch'io: Mi sarei dovuta

comportare diversamente? Tu lo crederai senz'altro, ma avevo altre scelte?

Le avrei adesso, ma adesso non è allora.

Avrei dovuto essere in grado di leggere nella mente di Laura? Avrei do-

vuto sapere cosa stava accadendo? Avrei dovuto capire cosa sarebbe suc-

cesso poi? Ero la guardiana di mia sorella?

Avrei dovuto è un'espressione inutile. Riguarda ciò che non è avvenuto.

Appartiene a un universo parallelo. Appartiene a un'altra dimensione dello

spazio.

Un mercoledì di febbraio mi avviai al piano di sotto, dopo il mio sonnel-



lino pomeridiano. A quel tempo facevo un'infinità di sonnellini: ero incinta

di sette mesi, e avevo problemi a dormire tutta la notte. Inoltre c'era qual-

che preoccupazione per la mia pressione sanguigna; avevo le caviglie gon-

fie, e mi era stato detto di stare il più possibile stesa con le gambe in alto.

Mi sentivo come un enorme acino, gonfio fino a scoppiare di zucchero e

succo violaceo; mi sentivo brutta e ingombrante.

Quel giorno nevicava, ricordo, grandi fiocchi soffici e bagnati: avevo

guardato fuori della finestra dopo essermi alzata faticosamente in piedi, e

avevo visto il castagno tutto bianco, come un corallo gigante.

Winifred era là, nel salotto color nuvola. Non era strano - andava e veni-

va come se fosse la padrona -, ma c'era anche Richard. Di solito a quell'ora

del giorno era nel suo ufficio. Avevano entrambi un drink in mano. Ave-

vano tutti e due l'aria cupa.

«Cosa c'è?» chiesi. «Cosa c'è che non va?»

«Siediti» fece Richard. «Qui, accanto a me». Diede dei colpetti sul diva-

no.


«Sarà un trauma» disse Winifred. «Mi dispiace che sia dovuto succedere

in un momento così delicato».

Fu lei a parlare. Richard mi teneva la mano e guardava il pavimento.

Ogni tanto scuoteva la testa, come se trovasse la sua storia incredibile o fin

troppo vera.

Ecco la sostanza del suo discorso:

Alla fine Laura era scoppiata. Scoppiata, disse, come se Laura fosse un

fagiolo. «Avremmo dovuto procurare prima un aiuto a quella povera ra-

gazza, ma pensavamo che si stesse calmando» disse. Comunque quel gior-

no, all'ospedale in cui faceva assistenza volontaria, aveva perso il control-

lo. Fortunatamente era presente un dottore, e un altro - uno specialista - era

stato mandato a chiamare. In conclusione Laura era stata dichiarata perico-

losa per se stessa e per gli altri, e sfortunatamente Richard era stato costret-

to ad affidarla alle cure di un istituto.

«Cosa mi state dicendo? Cosa ha fatto?»

Winifred aveva la sua espressione compassionevole. «Ha minacciato di

farsi del male. Ha detto anche alcune cose che erano... be', soffre chiara-

mente di allucinazioni».

«Cosa ha detto?»

«Non credo che dovrei dirtelo».

«Laura è mia sorella» replicai. «Ho il diritto di sapere».

«Ha accusato Richard di cercare di ucciderti».

«In questi termini?»

«Era chiaro cosa intendeva» disse Winifred.

«No, per favore, sii precisa».

«Lo ha definito un mercante di schiave bugiardo e sleale, e un degenera-

to mostro adoratore del Dio Denaro».

«So che a volte ha dei punti di vista estremi, e tende a esprimersi in ma-

niera diretta. Ma non si può mettere qualcuno in manicomio solo per aver

detto qualcosa del genere».

«C'è stato dell'altro» disse Winifred in tono tetro.

Richard, per calmarmi, spiegò che non si trattava di un istituto normale -

di tipo vittoriano. Era una clinica privata, molto buona, una delle migliori.

La Clinica Bella Vista. Là si sarebbero presi cura di lei in maniera eccel-

lente.

«Com'è la vista?» chiesi.



«Prego?»

«Si chiama Bella Vista. Dunque, com'è la vista? Cosa vedrà Laura quan-

do guarderà fuori della finestra?»

«Spero che tu non voglia scherzare» disse Winifred.

«No. È molto importante. È un prato, un giardino, una fontana, o cosa?

O qualche squallido vicolo?»

Nessuno dei due seppe dirmelo. Richard disse che era sicuro che si trat-

tasse di un paesaggio naturale di un tipo o dell'altro. La clinica, aggiunse,

era fuori città. C'erano terreni sistemati a parco.

«Ci sei stato?»

«So che sei turbata, cara» disse. «Forse dovresti fare un sonnellino».

«Ne ho appena fatto uno. Per favore, parla».

«No, non ci sono stato. Naturalmente non ci sono stato».

«E allora come lo sai?»

«Ma insomma, Iris» disse Winifred. «Che importanza ha?»

«Voglio vederla». Mi era difficile credere che Laura fosse andata a pezzi

all'improvviso, ma in fondo ero talmente abituata alle sue bizzarrie da non

trovarle più strane. Sarebbe stato facile per me essermi lasciata sfuggire il

suo squilibrio - i segni rivelatori della fragilità mentale, qualunque fossero

stati.


A sentire Winifred, i dottori avevano avvertito che per il momento vede-

re Laura era fuori questione. Erano stati molto chiari al riguardo. Era trop-

po sconvolta, non solo, era violenta. E inoltre c'erano da considerare le mie

condizioni.

Mi misi a piangere. Richard mi porse il suo fazzoletto. Era leggermente

inamidato e profumava di colonia.

«C'è qualcos'altro che dovresti sapere» disse Winifred. «Qualcosa di

molto doloroso».

«Forse dovremmo rinviare questo punto a più tardi» suggerì Richard a

bassa voce.

«È molto penoso» disse Winifred, con falsa riluttanza. Così naturalmen-

te insistetti per saperlo subito.

«La povera ragazza sostiene di essere incinta» disse Winifred. «Proprio

come te».

Smisi di piangere. «Ebbene? Lo è?»

«Certo che no» rispose Winifred. «Come potrebbe?»

«Chi è il padre?» non potevo proprio figurarmi Laura che inventava una

cosa del genere di sana pianta. «Voglio dire, chi immagina che sia?»

«Rifiuta di dirlo» rispose Richard.

«Naturalmente era isterica» disse Winifred, «perciò era tutto confuso. A

quanto pare crede che il bambino che avrai in realtà sia suo, in qualche

modo che non ha saputo spiegare. Stava delirando, ovvio».

Richard scosse la testa. «Molto triste» mormorò, nel tono sommesso e

solenne di un impresario di pompe funebri: attutito, come uno spesso tap-

peto rosso scuro.

«Lo specialista - lo specialista in malattie mentali - ha detto che Laura

deve essere morbosamente gelosa di te» disse Winifred. «Gelosa di tutto

ciò che ti riguarda - vuole vivere la tua vita, vuole essere te, e la cosa ha

assunto questa forma. Ha detto che dovresti essere tenuta al sicuro». Diede

un piccolo sorso al suo drink. «Tu non hai avuto dei sospetti?»

Vedi che donna furba era.

Aimee nacque all'inizio di aprile. A quei tempi usavano l'etere, e così

non fui cosciente durante il parto. Inspirai e persi i sensi, e quando mi sve-

gliai mi ritrovai più debole e più piatta. Il bambino non c'era. Era nella

nursery, con tutti gli altri. Era una femmina.

«Non c'è nulla che non va in lei, vero?» chiesi. Ero molto ansiosa al ri-

guardo.

«Dieci dita alle mani e dieci ai piedi» rispose l'infermiera in tono brusco,



«e tutto il resto esattamente al suo posto».

La bambina mi fu portata più tardi nel pomeriggio, avvolta in una coper-

ta rosa. Le avevo già dato il nome, nella mia testa. Aimee significava ama-

ta, e io certamente speravo che sarebbe stata amata, da qualcuno. Avevo

dubbi sulla mia capacità di amarla, o di amarla tanto quanto le sarebbe sta-

to necessario. In quelle circostanze ero presa da fin troppe cose: non pen-

savo che sarebbe rimasto abbastanza di me.

Aimee era come tutti i neonati - aveva il viso schiacciato, come se fosse

andata a sbattere contro un muro ad alta velocità. I capelli sulla sua testa

erano lunghi e scuri. Mi guardò di traverso con gli occhi quasi chiusi, uno

sguardo diffidente. Che colpo riceviamo quando veniamo messi al mondo,

pensai; che brutta sorpresa dev'essere, quel primo, duro incontro con l'aria

esterna. Fui addolorata per la piccola creatura; promisi solennemente di fa-

re del mio meglio per lei.

Mentre ci stavamo studiando l'un l'altra, arrivarono Winifred e Richard.

All'inizio l'infermiera li scambiò per i miei genitori. «No, questo è l'orgo-

glioso papà» disse Winifred, e si misero tutti a ridere. Avevano portato fio-

ri e un elaborato corredino da neonato, tutto un raffinato lavoro all'uncinet-

to e fiocchi di raso bianco.

«Adorabile!» esclamò Winifred. «Ma santo cielo, ci aspettavamo una

biondina. È terribilmente scura. Guarda che capelli!»

«Mi dispiace» dissi a Richard. «So che volevi un maschio».

«Sarà per la prossima volta, cara» fece lui. Non sembrava affatto turba-

to.


«Sono solo i capelli della nascita» disse l'infermiera a Winifred. «Ce li

hanno molti bambini, a volte arrivano perfino alla schiena. Cadono e al lo-

ro posto crescono i capelli veri. Potete ringraziare la vostra buona stella se

non ha denti o una coda, come succede a certi».

«Il nonno Benjamin era scuro» dissi, «prima che gli venissero i capelli

bianchi, e anche la nonna Adelia, e mio padre, naturalmente, anche se non

so come fossero i suoi due fratelli. La parte bionda della famiglia era quel-

la di mia madre». Lo dissi nel mio solito tono colloquiale, e fui sollevata

nel vedere che Richard non mi stava prestando la minima attenzione.

Ero felice che Laura non ci fosse? Che fosse rinchiusa da qualche parte,

lontano, dove non potevo raggiungerla? E dove lei non poteva raggiungere

me; dove non poteva stare accanto al mio letto come la fata non invitata al

battesimo, e dire: Ma di cosa state parlando?

L'avrebbe capito, naturalmente. L'avrebbe capito subito.

La luna splendeva luminosa

Ieri sera ho visto una giovane donna che si dava fuoco: una giovane

donna snella vestita con leggerissimi abiti infiammabili. Lo faceva in se-

gno di protesta contro questa o quella ingiustizia; ma perché pensava che il

falò che stava facendo di sé avrebbe risolto qualcosa? Oh, non farlo, vole-

vo dirle. Non bruciare la tua vita. Qualunque sia il motivo, non ne vale la

pena. Ma per lei valeva, ovviamente.

Cosa le ossessiona, queste giovani ragazze con un talento per l'autoim-

molazione? Quello che fanno serve a dimostrare che anche le ragazze han-

no coraggio, che sanno fare ben più che piangere e lamentarsi, che anche

loro sanno affrontare la morte con stile? E da dove proviene quell'impulso?

Comincia con una sfida, e in questo caso, a cosa? Al grande ordine delle

cose, opprimente, soffocante, al grande carro dalle ruote chiodate, ai tiran-

ni ciechi, agli dei ciechi? Queste ragazze sono abbastanza sconsiderate o

abbastanza arroganti da pensare di poter porre fine a tutto ciò su due piedi

immolando se stesse su qualche altare teorico, o è una sorta di dimostra-

zione? Piuttosto ammirevole, se si ammira l'ossessione. Piuttosto coraggio-

sa, anche. Ma completamente inutile.

Mi preoccupo per Sabrina, da questo punto di vista. Cosa sta combinan-

do, laggiù dall'altra parte del globo? È stata morsa dai cristiani o dai bud-

dhisti, o c'è qualche altra varietà di pipistrello che abita la sua cella campa-

naria? Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fra-

telli più piccoli, l'avete fatto a me. Sono queste le parole sul suo passaporto

per la vacuità? Vuole fare ammenda per i peccati della sua famiglia deplo-

revole, distrutta e dominata dal denaro? Spero proprio di no.

Anche Aimee aveva un po' questa tendenza, ma in lei assunse una forma

più lenta, più ambigua. Laura precipitò dal ponte quando Aimee aveva otto

anni, Richard morì quando ne aveva dieci. Questi avvenimenti non posso-

no non averla colpita. Poi, tra Winifred e me, è stata fatta a pezzi. Ora Wi-

nifred non avrebbe vinto la battaglia, ma allora lo fece. Mi rubò Aimee, e

per quanto ci abbia provato, non riuscii più a riaverla indietro.

Non c'è da stupirsi che quando Aimee divenne maggiorenne e mise le

mani sul denaro che Richard le aveva lasciato se la squagliò, e fece ricorso

a varie forme di conforto chimico, e si sbatté un uomo dietro l'altro. (Chi

era, per esempio, il padre di Sabrina? Difficile a dirsi, e Aimee non lo fece

mai. Gira la ruota, aveva detto, e scegli a caso).

Cercai di tenermi in contatto con lei. Continuai a sperare in una riconci-

liazione - dopo tutto era mia figlia, mi sentivo colpevole nei suoi confronti

e volevo rimediare - rimediare al groviglio che era diventata la sua infan-

zia. Ma allora si rivolse contro di me - e anche contro Winifred, il che al-

meno mi fu di una certa consolazione. Non volle che nessuna delle due le

stesse vicino, o vicino a Sabrina - soprattutto non a Sabrina. Non voleva

che la contaminassimo.

Cambiava casa spesso, senza sosta. Un paio di volte fu buttata in mezzo

alla strada per non avere pagato l'affitto; fu arrestata per avere provocato

disordini. Fu ricoverata in ospedale in parecchie occasioni. Suppongo si

dovrebbe dire che divenne un'alcolista cronica, anche se odio questo ter-

mine. Aveva abbastanza denaro da non doversi mai procurare un lavoro, e

meno male, perché non avrebbe potuto tenerselo a lungo. O forse non do-

vrei dire meno male. Le cose sarebbero potute andare diversamente se non

fosse stata in grado di vivere alla meno peggio; se avesse dovuto concen-

trarsi sul prossimo pasto, invece di fissarsi su tutto il male che le sembrava

che le avessimo fatto. Vivere di rendita incoraggia l'autocommiserazione

in coloro che vi sono già inclini.

L'ultima volta che andai a trovare Aimee, viveva in una fatiscente caset-

ta schiera dalle parti di Parliament Street, a Toronto. Una bambina che

supposi fosse Sabrina era accovacciata nel riquadro di terra accanto al via-

letto sul davanti - una monella sporca e scarmigliata con addosso dei pan-

taloncini, ma senza maglietta. Aveva una vecchia tazza di latta e la riempi-

va di sabbia con un cucchiaio piegato. Era una creaturina piena di risorse:

mi chiese un quarto di dollaro. Glielo diedi? Più che probabile. «Sono tua

nonna» le dissi, e lei alzò lo sguardo su di me come se fossi pazza. Senza

dubbio non le era mai stato detto dell'esistenza di una simile persona.

Dovetti sentire le chiacchiere di uno dei vicini, quella volta. Sembravano

persone decenti, o almeno abbastanza decenti da sfamare Sabrina quando

Aimee dimenticava di tornare a casa. Facevano Kelly di cognome, se ben

ricordo. Furono loro a chiamare la polizia quando Aimee fu trovata in fon-

do alle scale con il collo rotto. Caduta o spinta o saltata giù, non lo sapre-

mo mai.

Avrei dovuto agguantare Sabrina, quel giorno, e andarmene con lei. Di-



retta in Messico. Lo avrei fatto se avessi saputo cosa sarebbe successo -

che Winifred l'avrebbe rubata e rinchiusa lontana da me, proprio come a-

veva fatto con Aimee.

Sabrina sarebbe stata meglio se fosse venuta a stare con me invece che

con Winifred? Come dev'essere stato per lei, crescere con una ricca vec-

chia vendicativa e amareggiata? Invece che con una povera vecchia vendi-

cativa e amareggiata, cioè io. Però l'avrei amata. Dubito che Winifred lo

abbia mai fatto. Si aggrappò a Sabrina soltanto per farmi dispetto; per pu-

nirmi; per dimostrare che aveva vinto.

Ma quel giorno non commisi nessun furto di bambini. Bussai alla porta,

e dal momento che non ci fu risposta l'aprii ed entrai, poi salii le scale ripi-

de e scure che portavano all'appartamento di Aimee, al secondo piano.

Aimee era in cucina, seduta al piccolo tavolo rotondo, a guardarsi le mani,

che tenevano una tazza di caffè con sopra una di quelle facce gialle sorri-

denti. La teneva vicinissima agli occhi e la rigirava da una parte all'altra.

Aveva il volto pallido, i capelli arruffati. Non posso dire di averla trovata

molto attraente. Stava fumando una sigaretta. Molto probabilmente era sot-

to l'effetto di questa o quella droga, mescolata con alcol; ne sentivo l'odore

nella stanza, insieme a quello del fumo vecchio, del lavandino sporco, del

secchio dell'immondizia pieno.


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