Margaret atwood



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«Le ho detto tutto di te» disse Reenie in tono affettuoso. «Di voi due».

Myra non era troppo interessata a me, devo dire, ma era incuriosita dalle

volpi intorno al mio collo. Ai bambini di quell'età di solito piacciono gli

animali pelosi, anche se morti.

«Hai visto Laura» dissi, «o hai parlato con lei?»

«Un bel tacer non fu mai scritto» disse Reenie, guardandosi intorno,

come se là perfino i muri potessero avere le orecchie. Non vedevo il biso-

gno di tutte quelle precauzioni.

«Suppongo che sia stata tu a organizzare la storia dell'avvocato?» dissi.

Reenie sembrava al corrente. «Ho fatto quanto era necessario» disse.

«Comunque, quell'avvocato era il marito della cugina di secondo grado di

tua madre, in un certo senso una persona di famiglia. Così ha visto che era

il caso di agire, una volta che ho saputo cosa stava succedendo, cioè».

«Come hai saputo?» conservavo il cosa hai saputo per dopo.

«Mi ha scritto» disse Reenie. «Ha detto di avere scritto anche a te, ma di

non aver mai ricevuto risposta. Non le era permesso di spedire lettere in

quanto tali, ma la cuoca l'ha aiutata. Poi Laura le ha mandato il denaro oc-

corrente, più un piccolo extra».

«Non ho avuto nessuna lettera» dissi.

«È come aveva immaginato. Aveva immaginato che loro avrebbero fatto

in modo che non ti arrivassero».

Sapevo chi intendeva con loro. «Suppongo che sia venuta qui» dissi.

«Dove altro sarebbe potuta andare?» chiese Reenie. «Povera creatura.

Dopo tutto quello che aveva passato».

«Cosa ha passato?» avevo una gran voglia di saperlo, e nello stesso tem-

po ne avevo paura. Laura poteva inventare, mi dissi. Laura poteva soffrire

di allucinazioni. Non era da escludersi.

Ma Reenie lo aveva escluso: non importa quale storia Laura le avesse

raccontato, lei ci aveva creduto. Dubitavo che fosse la stessa storia che a-

vevo sentito. Soprattutto dubitavo che ci avesse infilato un bambino, di

qualsiasi tipo. «C'è la piccola, perciò non scenderò in particolari» disse.

Fece un cenno del capo verso Myra, che stava trangugiando una fetta di u-

n'orribile torta rosa e mi osservava come se volesse leccarmi. «Se ti dicessi

tutto non dormiresti la notte. L'unica consolazione è che tu non vi hai avu-

to alcuna parte. Questo è quanto ha detto».

«Ha detto così?» Ero sollevata nel sentirlo. Allora a Richard e a Wini-

fred erano state assegnate le parti dei mostri, e io ero stata giustificata -

sulla base della mia debolezza morale, non c'è dubbio. Anche se ero sicura

che Reenie non mi avesse completamente perdonato per essere stata così

negligente da lasciare che tutto ciò accadesse. (Una volta che Laura saltò

giù dal ponte, mi perdonò ancora meno. A suo parere dovevo averci avuto

qualcosa a che fare. In seguito fu fredda nei miei confronti. Morì disappro-

vandomi).

«Non avrebbe dovuto affatto essere messa in un posto come quello, una

ragazza giovane come lei» disse Reenie. «A nessun costo. Uomini che se

ne vanno in giro con i pantaloni slacciati, tutti i generi di sconcezze. Che

vergogna!»

«Mordono?» chiese Myra, allungando la mano verso le mie volpi.

«No» risposi. «Non sono vere. Vedi, hanno gli occhi di vetro. Si mordo-

no solo le code».

«Ha detto che se solo l'avessi saputo, non l'avresti mai lasciata là» disse

Reenie. «Supponendo che l'avessi saputo. Qualunque cosa, ha detto, ma

non sei senza cuore». Lanciò un'occhiataccia di traverso al bicchiere d'ac-

qua. Aveva i suoi dubbi al riguardo. «Là dentro per lo più mangiavano pa-

tate» aggiunse. «In purè e bollite, ha detto. Lesinavano sul cibo, toglievano

il pane di bocca ai poveri matti e agli svitati. Riempiendosi le loro tasche,

suppongo».

«Dov'è andata? È qui ora?»

«Rimanga tra noi» rispose Reenie, «ha detto che sarebbe stato meglio

per te non saperlo».

«Sembrava - era...» Era visibilmente pazza, volevo chiedere.

«Era esattamente come sempre. Né più né meno. Non sembrava svitata,

se è questo che intendi» disse Reenie. «È più magra - ha bisogno di rimet-

tere un po' di carne sulle ossa - e non parla tanto di Dio. Spero solo che Lui

le stia accanto, tanto per cambiare».

«Grazie, Reenie, per tutto quello che hai fatto» dissi.

«Non devi ringraziarmi» fece Reenie in tono freddo. «Ho fatto soltanto

quello che era giusto».

Intendendo che io non l'avevo fatto. «Posso scriverle?» Stavo armeg-

giando alla ricerca del fazzoletto. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una

criminale.

«Ha detto che è meglio di no. Ma voleva che ti dicessi che ti ha lasciato

un messaggio».

«Un messaggio?»

«Lo ha lasciato prima che la portassero in quel posto. Tu avresti saputo

dove trovarlo, ha detto».

«Quello è il tuo fazzoletto? Hai il raffreddore?» chiese Myra, notando

con interesse che tiravo su con il naso.

«Se fai troppe domande ti cadrà la lingua» disse Reenie.

«Non è vero» disse Myra in tono compiaciuto. Cominciò a canterellare

in maniera stonata e a darmi calci sulle ginocchia con le sue gambe gras-

socce, sotto il tavolo. Aveva un modo allegro di essere sicura di sé, a quan-

to pareva, e non si spaventava facilmente - qualità che in lei ho spesso tro-

vato irritanti, ma per le quali alla fine le sono stata grata. (La cosa potrà

suonarti nuova, Myra. Accettala come un complimento, finché ne hai l'oc-

casione. Se ne fanno talmente pochi).

«Ho pensato che magari ti avrebbe fatto piacere vedere una foto di Ai-

mee» dissi a Reenie. Avevo almeno quest'unica impresa di cui farmi bella,

per riscattarmi ai suoi occhi.

Reenie prese la foto. «Perbacco, è una cosina scura, vero?» disse. «Non

si sa mai a chi assomiglierà un bambino».

«Voglio vedere anch'io» disse Myra, afferrandola con le sue manacce

sporche di zucchero.

«Svelta allora, e poi andiamo. Siamo in ritardo per papà».

«No» fece Myra.

«Casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia» cantilenò Re-

enie, strofinando via la glassa rosa dal musetto di Myra con un tovagliolo

di carta.

«Voglio rimanere qui» protestò Myra, ma le venne infilato il cappotto, le

fu calcato sulle orecchie il cappello fatto a maglia e fu trascinata di traver-

so fuori dal séparé.

«Abbi cura di te» disse Reenie. Non mi baciò.

Volevo gettarle le braccia al collo, e piangere, piangere. Volevo essere

consolata. Volevo essere io ad andarmene con lei.

«Casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia» disse un gior-

no Laura, quando aveva undici o dodici anni. «Non c'è nessun posto come

la propria casa. Lo dice sempre Reenie. Io lo trovo stupido».

«Che vuoi dire?» chiesi.

«Guarda». Lo scrisse sotto forma di equazione. Nessun posto = casa.

Perciò, casa = nessun posto. Perciò la casa non esiste.

La casa è dov'è il tuo cuore, pensai allora, mentre cercavo di ricompormi

al Betty's Luncheonette. Non avevo più cuore, era stato spezzato; o meglio,

non spezzato, semplicemente non era più lì. Mi era stato scavato via per

bene, come il tuorlo da un uovo sodo, lasciando il resto di me esangue,

congelato e vuoto.

Non ho cuore, pensai. Perciò non ho casa.

Il messaggio

Ieri ero troppo stanca per fare molto di più che starmene sdraiata sul di-

vano. Secondo quella che sta diventando una mia abitudine, indubbio se-

gno di trascuratezza, ho guardato un talk show diurno, del genere in cui si

rivelano segreti. È di moda, adesso, rivelare segreti: le persone rivelano i

propri segreti e anche quelli degli altri, rivelano tutti i segreti che hanno e

perfino quelli che non hanno. Lo fanno per senso di colpa e angoscia, e per

loro piacere, ma soprattutto perché vogliono mettersi in mostra e gli altri

vogliono guardarli mentre lo fanno. Non mi tiro indietro: mi gusto questi

piccoli peccatucci sporchi, questi squallidi intrighi famigliari, questi traumi

coltivati. Mi godo l'aspettativa con cui si scoprono gli altarini, come se si

trattasse di stupefacenti regali di compleanno, e poi la sensazione della

tensione che si allenta sulle facce degli spettatori: le lacrime indotte e la

compassione striminzita e maligna, l'applauso imbeccato e doveroso. È tut-

to qui? devono pensare. Non dovrebbe essere meno normale, più sordida,

più epica, più sinceramente lacerante, questa ferita nella tua carne? Dicci

di più! Per favore, non potremmo girare la manovella e avviare il mecca-

nismo del dolore?

Mi chiedo cosa sia preferibile: attraversare tutta la vita gonfio dei tuoi

segreti finché non scoppi sotto la loro pressione, o farteli succhiare fuori,

ogni loro paragrafo, ogni frase, ogni parola, cosicché alla fine sei svuotato

di tutto ciò che un tempo per te era prezioso come oro accumulato, che ti

era vicino come la tua pelle - ogni cosa che per te era della massima im-

portanza, ogni cosa che ti ha fatto diventare piccolo piccolo e desiderare di

nasconderti, ogni cosa che apparteneva a te solo - e devi trascorrere il resto

dei tuoi giorni come un sacco vuoto che sventola al vento, un sacco vuoto

con sopra impressa una vivace etichetta fluorescente, in modo che tutti

sappiano che genere di segreti racchiudevi un tempo?

Io non propendo per una cosa né per l'altra, vada come vada.

Le lingue sciolte affondano le navi, diceva un manifesto in tempo di

guerra. Naturalmente le navi affonderanno comunque, prima o poi.

Dopo essermi tolta quello sfizio, sono andata in cucina, dove ho mangia-

to metà di una banana che stava diventando nera e due cracker lievitati con

bicarbonato di sodio. Mi sono chiesta se qualcosa - qualcosa da mangiare -

fosse caduto dietro il secchio dell'immondizia - c'era un odore forte -, ma

un rapido controllo non ha rivelato nulla. Forse era il mio stesso odore.

Non posso vincere l'idea che il mio corpo odori come cibo per gatti, qua-

lunque avanzo di profumo mi sia spruzzata questa mattina - era Tosca, o

Ma griffe, o forse Je reviens? Ho ancora qualche rimasuglio di questa roba

in circolazione. Propongo le buste dell'immondizia verdi, Myra, quando

avrai il tempo di comprarle.

Richard mi regalava profumo quando gli sembrava che avessi bisogno di

essere ammorbidita. Profumo, sciarpe di seta, piccole spille con gioielli a

forma di animali domestici, di uccelli in gabbia, di pesci rossi. I gusti di

Winifred, non per lei ma per me.

Sul treno che tornava da Port Ticonderoga e poi per alcune settimane

successive meditai sul messaggio di Laura, quello che Reenie diceva che

mi aveva lasciato. Allora doveva aver saputo che qualunque cosa avesse in

mente di dire al dottore sconosciuto in ospedale avrebbe potuto avere delle

conseguenze. Doveva aver saputo che era un rischio, e così aveva preso

delle precauzioni. In qualche modo, in qualche posto, aveva lasciato qual-

che parola, qualche indizio per me, come un fazzoletto fatto cadere o una

traccia di sassolini bianchi nel bosco.

La immaginai che scriveva quel messaggio, nel modo in cui si metteva

sempre a scrivere. Senza dubbio avrebbe usato una matita, una matita dal-

l'estremità mangiucchiata. Mangiucchiava spesso le matite; da bambina la

sua bocca profumava di cedro, e se si trattava di una matita colorata le sue

labbra erano blu o verdi o viola. Scriveva lentamente; aveva una scrittura

infantile, con le vocali rotonde e le o chiuse, e lunghi e tremolanti gambi

nelle g e nelle y. I puntini sulle i e sulle j erano circolari, collocati troppo a

destra, come se fossero palloncini neri fissati ai loro gambi da fili invisibi-

li; i trattini trasversali delle t spuntavano soltanto da un lato. Sedevo accan-

to a lei col pensiero, per vedere la sua prossima mossa.

Sarebbe arrivata alla fine del messaggio, poi l'avrebbe messo dentro una

busta e l'avrebbe sigillata, e poi l'avrebbe nascosta, nel modo in cui aveva

nascosto il suo mucchio di cianfrusaglie ad Avilion. Ma dove avrebbe po-

tuto metterla? Non ad Avilion: non ci si era più avvicinata, non prima di

essere portata via.

No, doveva essere nella casa di Toronto. Da qualche parte dove nessun

altro avrebbe guardato - né Richard, né Winifred, né nessuno dei Murga-

troyd. Cercai in vari posti - in fondo ai cassetti, dietro agli armadi, nelle ta-

sche dei miei cappotti invernali, nella mia riserva di borse, perfino nelle

mie manopole invernali - ma senza trovare nulla.

Poi mi ricordai di averla sorpresa nello studio del nonno una volta,

quando aveva dieci o undici anni. Aveva la Bibbia di famiglia spalancata

davanti a sé, un gran bestione rilegato in pelle, e ne stava tagliando delle

parti con le vecchie forbici da cucito di nostra madre.

«Laura, cosa stai facendo?» chiesi. «È la Bibbia!»

«Sto tagliando le parti che non mi piacciono».

Spiegai le pagine che aveva gettato nel cestino della carta straccia: stri-

sce delle Cronache, pagine e pagine del Levitico, il piccolo frammento di

san Matteo in cui Gesù maledice l'albero di fico sterile. Allora ricordai che

Laura si era indignata sull'albero di fico, quando frequentava la scuola do-

menicale. L'aveva mandata su tutte le furie il fatto che Gesù fosse stato co-

sì spietato verso un albero. Abbiamo tutti le nostre brutte giornate, aveva

commentato Reenie, mentre montava velocemente gli albumi in una cioto-

la gialla.

«Non dovresti farlo» dissi.

«È solo carta» replicò Laura, continuando a tagliare. «La carta non è im-

portante. Sono le parole che ci sono scritte che lo sono».

«Avrai grossi guai».

«Non è vero» disse. «Nessuno l'apre mai. Guardano solo la prima pagina

per le nascite, i matrimoni e le morti».

E aveva ragione. Non fu mai scoperta.

Quel ricordo fu ciò che mi spinse a tirare fuori il mio album di nozze,

dove erano conservate le foto di quell'evento. Certo il volume era di scarso

interesse per Winifred, e neanche Richard era mai stato colto a sfogliarlo

amorevolmente. Laura doveva saperlo, doveva sapere che sarebbe stato un

posto sicuro. Ma cosa - deve aver pensato - mi avrebbe mai spinto a guar-

darci?

Se avessi cercato Laura, lo avrei fatto. Lo sapeva. C'erano un sacco di



sue foto là dentro, attaccate alle pagine marroni con triangolini neri ai lati;

foto di lei con la fronte aggrottata e lo sguardo fisso sui piedi, con indosso

la sua tenuta da damigella.

Trovai il messaggio, anche se non era a parole. Laura era venuta in città

in occasione del mio matrimonio portandosi il materiale per i ritocchi, i tu-

betti di colore che aveva sgraffignato nei locali del giornale di Elwood

Murray a Port Ticonderoga. Doveva averli conservati per tutto quel tempo.

Per una persona che sosteneva un tale disprezzo per il mondo materiale,

non era affatto brava a gettare via le cose.

Aveva modificato solo due delle fotografie. La prima era una foto di

gruppo del ricevimento di nozze. In essa le damigelle e i testimoni dello

sposo erano stati ricoperti di uno spesso strato di indaco - completamente

eliminati. Io ero stata lasciata, e anche Richard, e anche Laura, e Winifred,

che era stata una delle damigelle al seguito della sposa. Winifred era stata

colorata di un verde intenso, come Richard. A me era stata data una mano

di blu acqua. Quanto a Laura, era di un giallo brillante, non solo il vestito,

ma anche il viso e le mani. Cosa voleva dire, quella radiosità? Perché di

radiosità si trattava, come se Laura risplendesse da dentro, come una lam-

pada di vetro o una ragazza fatta di fosforo. Non guardava diritto, ma di

traverso, come se la sua attenzione non fosse affatto concentrata sulla foto.

La seconda era la foto ufficiale degli sposi, scattata davanti alla chiesa. Il

viso di Richard era stato dipinto di grigio, un grigio talmente scuro che i

tratti erano stati quasi cancellati. Le mani erano rosse, come le fiamme che

scaturivano dai suoi contorni e in qualche modo dall'interno della testa,

quasi fosse il cranio stesso a bruciare. Il mio abito da sposa, i guanti, il ve-

lo, i fiori - di questi fronzoli Laura non si era data pena. Però si era occupa-

ta del mio viso - lo aveva decolorato al punto che gli occhi, il naso e la

bocca sembravano coperti di nebbia, come una finestra in una fredda gior-

nata di pioggia. Lo sfondo e perfino i gradini della chiesa sotto i nostri

piedi erano stati interamente colorati di nero, lasciando le nostre due figure

a galleggiare a mezz'aria nella più scura e tenebrosa delle notti.

XII


The Globe and Mail, 7 ottobre 1939
GRIFFEN PLAUDE IL PATTO DI MONACO
SPECIALE PER THE GLOBE AND MAIL
In un discorso vigoroso e incisivo intitolato «Preoccupiamoci dei

nostri affari», pronunciato mercoledì alla riunione dell'Empire

Club a Toronto, il signor Richard E. Griffen, Presidente e Capo

del Consiglio di Amministrazione delle Griffen-Chase-Royal

Consolidated Industries Ltd., ha lodato i notevoli sforzi del Primo

Ministro britannico signor Neville Chamberlain, che la scorsa set-

timana hanno condotto al Patto di Monaco. È significativo, ha

detto il signor Griffen, che tutti i partiti della Camera dei Comuni

britannica abbiano accolto con gioia la notizia, e lui si augurava

che tutti i partiti del Canada facessero altrettanto, dal momento

che il patto avrebbe messo fine alla Depressione e introdotto una

nuova «età dell'oro» di pace e prosperità. Dimostrava inoltre il va-

lore dell'arte di governo e della diplomazia, come anche del pen-

siero costruttivo e del buon vecchio senso degli affari pragmatico.

«Se tutti daranno un poco» ha detto, «allora tutti avranno molto

da guadagnare».

Rispondendo alle domande sulla situazione della Cecoslovacchia

sotto il Patto, ha affermato che a suo parere ai cittadini di quel pa-

ese sono state concesse sufficienti garanzie. Una Germania forte e

sana, ha dichiarato, è nell'interesse dell'Occidente e in particolare

dell'attività economica, e servirebbe a «tenere il bolscevismo sotto

controllo e lontano da Bay Street». Rimane ora da auspicarsi un

trattato commerciale bilaterale, a cui - gli era stato assicurato - si

stava lavorando. Invece che alle minacce belliche bisognerebbe

ora pensare a fornire merci al consumatore, creando lavoro e pro-

sperità dove più ce n'è bisogno - «nel cortile dietro casa». Ai sette

anni di carestia, ha affermato, dovrebbero ora seguire i sette anni

di abbondanza, e ci aspettano prospettive dorate per tutti gli anni

Quaranta.

Si dice che il signor Griffen stia incontrando i principali membri

del Partito Conservatore e considerando con interesse il ruolo di

timoniere. Il suo discorso è stato accolto da calorosi applausi.


Mayfair, giugno 1939
STILE REALE

ALLA FESTA DEL ROYAL GARDEN


DI CYNTHIA FERVIS
In occasione del compleanno di Sua Maestà i cinquemila ragguar-

devoli ospiti delle Loro Eccellenze Lord e Lady Tweedsmuir si

sono disposti ammaliati lungo i viali del giardino della Residenza

del Governatore a Ottawa, in attesa del grazioso passaggio delle

Loro Maestà.

Alle quattro e mezzo sono fuoriusciti dalla Residenza del Gover-

natore presso la Galleria Cinese. Il Re era in tight; la Regina ave-

va scelto il beige, con una soffice pelliccia, perle e un largo cap-

pello leggermente inclinato all'insù, il viso delicatamente accalda-

to, i cordiali occhi blu sorridenti. Sono rimasti tutti affascinati dal-

le sue incantevoli maniere.

Dietro le Loro Maestà camminavano il Governatore Generale e

Lady Tweedsmuir, il primo un ospite gentile e affabile, la seconda

posata e bella. Il suo completo tutto bianco, arricchito da pellicce

di volpe dell'Artico Canadese, era messo in risalto da una chiazza

turchese sul cappello. Sono stati presentati alle Loro Maestà il Co-

lonnello e signora F. Phelan, di Montreal; lei indossava un abito

di seta stampata su cui sbocciavano piccoli fiori vivaci e un ele-

gante cappello con una larga tesa chiara di cellophane. Lo stesso

onore è stato riservato al Brigadier Generale e signora W.H.L. El-

kins e alla signorina Joan Elkins, nonché al signor e signora Gla-

dstone Murray.

Il signor e la signora Richard Griffen erano tra i prescelti; lei por-

tava un mantello di volpe argentata, le pelli montate su chiffon

nero a raggiera, sopra un vestito color lilla. La signora Douglas

Watts indossava un abito di chiffon verde pallido con un giacchi-

no di velluto marrone, la signora F. Reid era elegante e deliziosa

in un vestito di organza e pizzo valenciennes.

Non una sola allusione al tè è stata fatta finché il Re e la Regina

non hanno salutato con un cenno, le macchine fotografiche hanno

scattato e azionato i flash e tutte le voci hanno intonato God save

the King. Poi l'attenzione è stata monopolizzata dalle torte di

compleanno... enormi torte bianche con glassa candida. La torta

servita al Re all'interno della residenza era ornata non solo da ro-

se, trifoglio d'Irlanda e cardi selvatici, ma anche da stormi di co-

lombe di zucchero in miniatura con bandierine bianche nel becco,

giusti simboli di pace e speranza.

L'assassino cieco: La Stanza delle Bevande

È metà pomeriggio, il tempo è nuvoloso e umido, tutto è appiccicoso: i

suoi guanti di cotone bianchi sono macchiati già solo per avere toccato la

ringhiera. La pesantezza del mondo, un peso solido; il suo cuore spinge

contro di esso come se spingesse contro una pietra. L'aria afosa le fa resi-

stenza. Nulla si muove.

Ma il treno arriva, e lei aspetta al cancello come le si richiede, e come

una promessa mantenuta lui lo varca. La vede, le va incontro, si toccano

rapidamente, poi si stringono le mani come se fossero lontani parenti. Lo

bacia brevemente sulla guancia, perché sono in un luogo pubblico e non si

sa mai, e poi si avviano su per la rampa in pendenza che conduce alla sta-

zione di marmo. Si sente a disagio con lui, nervosa; ha avuto a malapena il

tempo di guardarlo. Sicuramente è più magro. Che altro?

È stato complicatissimo tornare. Non avevo molti soldi. Ho dovuto chie-

dere passaggi per tutto il viaggio.

Avrei potuto mandarti del denaro, dice lei.

Lo so. Ma non avevo indirizzo.

Lascia la sua sacca al deposito bagagli, si porta dietro solo la valigetta.

Prenderà la borsa più tardi, dice, ma adesso non vuole essere impedito nei

movimenti. La gente va e viene attorno a loro, passi e voci; stanno là irre-


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