Margaret atwood



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ricorda. Tutto ciò che lo rendeva unico è stato bruciato via. Non importa,

dice lui. La ricostruiranno. Lo fanno sempre.

Ora ha paura di lui. Sei così cambiato, dice.

La situazione era critica. Abbiamo dovuto combattere il nemico con le

sue stesse armi.

Ma avete vinto. So che avete vinto!

Nessuno ha vinto.

Si è sbagliata? C'è stata sicuramente la notizia della vittoria. C'è stata

una parata, dice lei. Ne ho sentito parlare. C'era la banda di ottoni.

Guardami, dice lui.

Ma non può. Non può metterlo a fuoco, non rimarrà fermo. È vago, va-

cilla come una fiamma di candela, ma priva di luce. Non può vedere i suoi

occhi.

È morto, naturalmente. Naturalmente è morto, non ha forse ricevuto il



telegramma? Ma è solo un'invenzione, tutto questo. È solo un'altra dimen-

sione dello spazio. Allora perché c'è una tale desolazione?

Ora se ne sta andando, e lei non può gridargli dietro, la sua gola non

produrrà alcun suono. Ormai è sparito.

Sente una pressione soffocante attorno al cuore. No, no, no, no, dice una

voce dentro la sua testa. Lacrime le scorrono lungo il viso.

È a quel punto che si sveglia davvero.

XIII


I guanti

Oggi piove, la pioggia di aprile, sottile, leggera. Le scille blu stanno co-

minciando a fiorire, i narcisi piegano i loro musi a terra, i nontiscordardi-

mé nati spontaneamente stanno venendo su adagio, preparandosi a impa-

dronirsi della luce. Eccolo che viene - un altro anno di spintoni e gomitate

vegetativi. Sembra che non se ne stanchino mai: le piante non hanno ricor-

di, ecco perché. Non possono rammentare quante volte hanno già fatto tut-

to questo prima d'ora.

Devo ammettere che è una sorpresa trovarmi ancora qui, ancora a parlar-

ti. Preferisco pensarci come a una chiacchierata, anche se naturalmente

non lo è: io non sto dicendo nulla, tu non stai ascoltando nulla. L'unica co-

sa tra noi è questa linea nera: un filo gettato sulla pagina vuota, nell'aria

vuota.

Il ghiaccio invernale nella gola formata dal Louveteau è quasi scompar-



so, anche nei crepacci in ombra delle scogliere. L'acqua, nera e poi bianca,

si precipita tra le voragini di calcare e sui massi, senza alcuno sforzo, come

sempre. Un rumore violento, ma calmante; seducente, quasi. Si può capire

come mai la gente sia attratta da certe cose. Dalle cascate, dai luoghi alti,

dai deserti e dai laghi profondi - luoghi di non ritorno.

Finora c'è stato un solo cadavere nel fiume, una giovane donna di Toron-

to imbottita di droga. Un'altra ragazza che andava di fretta. Un'altra perdita

di tempo: il suo. Aveva dei parenti qui, una zia, uno zio. Sono già oggetto

di grette occhiate di traverso, come se avessero qualche responsabilità;

hanno già assunto l'aria arrabbiata e intrappolata di chi è consapevole della

propria innocenza. Sono sicura che siano irreprensibili, ma sono vivi, e

chiunque rimanga vivo viene biasimato. È la regola in cose come questa. È

ingiusta, ma è così.

Ieri mattina è passato Walter, per occuparsi della messa a punto di pri-

mavera. E così che chiama la routine delle riparazioni casalinghe che ese-

gue, per mio conto, ogni anno. Si è portato dietro la sua cassetta degli at-

trezzi, la sua sega elettrica portatile, il suo cacciavite elettrico: nulla gli

piace di più che rombare come un motore.

Ha parcheggiato tutti questi attrezzi nella veranda sul retro, poi si è mes-

so a camminare pesantemente fuori della casa. Quando è tornato aveva u-

n'espressione compiaciuta. «Al cancello del giardino manca una stecca» ha

detto. «Posso inchiodarcene un'altra oggi, e dipingerla quando il tempo è

asciutto».

«Oh, non darti pena» ho detto, come faccio ogni anno. «Sta cadendo tut-

to a pezzi, ma resisterà finché campo».

Walter lo ignora, come sempre. «Anche i gradini sul davanti» dice.

«Hanno bisogno di una verniciata. Ce n'è uno che potrebbe venire via da

un momento all'altro - ne va messo uno nuovo. Tu li trascuri troppo a lun-

go, l'acqua entra dentro e poi marciscono. Ma forse per la veranda ci vuole

un mordente, è meglio per il legno. Potremmo mettere una striscia di un al-

tro colore lungo i bordi dei gradini, così la gente ci vedrebbe meglio. A-

desso come adesso potrebbe mettere un piede in fallo e farsi male». Usa il

noi per cortesia, e con gente intende me. «Posso sistemare il nuovo gradino

più tardi nel corso della giornata».

«Ti bagnerai tutto» ho detto. «Il canale delle previsioni meteorologiche

dice che continuerà a piovere».

«No, si rasserenerà». Non ha nemmeno alzato lo sguardo al cielo.

Walter è andato a comprare l'occorrente - alcune tavole, suppongo - e io

ho trascorso quella pausa distesa sul divano del soggiorno, come l'eterea

eroina di un romanzo che sia stata dimenticata tra le pagine del suo stesso

libro e lasciata a ingiallire, ad ammuffire e a sgretolarsi come il libro stes-

so.


Un'immagine morbosa, direbbe Myra.

Cos'altro suggeriresti? replicherei.

Il fatto è che il mio cuore ha fatto di nuovo i capricci. Fatto i capricci,

una frase singolare. È quel che dice la gente per minimizzare la gravità

delle proprie condizioni. Essa implica che la parte incriminata (cuore, sto-

maco, fegato, quale che sia) sia un bambino stizzoso, birichino, che può

essere riportato all'ordine con una sberla o una parola severa. Nello stesso

tempo implica che questi sintomi - questi tremiti e questi dolori, queste

palpitazioni - siano solo rappresentazioni teatrali, e che l'organo in que-

stione smetterà ben presto di saltellare qua e là e di dare spettacolo, e ri-

prenderà la sua placida esistenza fuori della scena.

Il dottore non è soddisfatto. Ha borbottato di test ed esami, e di andare a

Toronto, dove si nascondono gli specialisti, quei pochi che non sono scap-

pati verso pascoli più verdi. Mi ha cambiato le pillole, ne ha aggiunta u-

n'altra all'arsenale. Ha perfino suggerito la possibilità di un'operazione.

Che conseguenze avrebbe, ho domandato, e quali risultati? Troppe delle

une, è venuto fuori, e non abbastanza degli altri. Sospetta che ci vorrebbe

niente meno che un'intera unità nuova - questo il suo termine, quasi stes-

simo parlando di una lavapiatti. Inoltre dovrei essere messa in una lista

d'attesa, aspettando l'unità di un altro, una di cui non ci sia più bisogno. Per

dirla in soldoni, il cuore di un altro, strappato a qualche ragazzo: non vor-

resti certo che te ne impiantino uno vecchio, traballante e avvizzito come

quello che intendi gettare via. Quello che vuoi è qualcosa di fresco e suc-

coso.


Ma chissà dove le prendono, certe cose? Io credo dai bambini di strada

in America Latina; o almeno così dice la voce più paranoide. Cuori rubati,

cuori al mercato nero, strappati via dal bel mezzo di costole rotte, caldi e

sanguinanti, offerti al falso dio. Cos'è il falso dio? Siamo noi. Noi e il no-

stro denaro. Questo è quello che direbbe Laura. Non toccare quei soldi, di-

ceva Reenie. Non sai da dove vengono.

Potrei vivere con me stessa, sapendo che porto il cuore di un bambino

morto?


Ma se non lo farò, cosa succederà?

Per favore, questa angoscia sconnessa non va scambiata per stoicismo.

Prendo le mie pillole, faccio le mie camminate a tappe, ma non c'è niente

che possa fare per la paura.

Dopo pranzo - un pezzo di formaggio duro, un bicchiere di latte dubbio,

una carota vizza, dal momento che questa settimana Myra non ha assolto il

compito che si era autoassegnata di rifornirmi il frigorifero - è tornato

Walter. Ha misurato, segato, martellato, poi ha bussato alla porta sul retro

per dire che gli dispiaceva per il rumore, ma adesso era tutto in perfetto or-

dine.


«Ti ho fatto del caffè» ho detto. È un rituale di queste occasioni di apri-

le. L'avevo bruciato questa volta? Non importa. Era abituato a quello di

Myra.

«Volentieri». Si è tolto con cura gli stivali di gomma e li ha lasciati nella



veranda sul retro - Myra lo ha ben ammaestrato, non gli è permesso di se-

minare quello che lei chiama il suo sporco su quelli che chiama i propri

tappeti - poi ha camminato in punta di piedi nelle sue calze enormi sul pa-

vimento della cucina; che, grazie alle energiche strofinate e pulite della

donna di Myra, ora è liscio e infido come un ghiacciaio. Prima aveva sopra

una patina adesiva, un accumulo di polvere e sporcizia, come un sottile ri-

vestimento di colla, ma ora non più. In realtà dovrei cospargerlo di sabbia,

o finirò con lo scivolarci e farmi male.

Guardare Walter che camminava in punta di piedi era in sé un gran di-

vertimento - un elefante che cammina sulle uova. Ha raggiunto il tavolo

della cucina, posandoci sopra i suoi guanti da lavoro gialli, che sono rima-

sti là come gigantesche zampe extra.

«Guanti nuovi» ho detto. Erano talmente nuovi che brillavano quasi. So-

pra non c'era neanche un graffio.

«Me li ha regalati Myra. Un tizio tre strade più in là si è tagliato la punta

delle dita con una sega da traforo e lei è andata su tutte le furie, preoccupa-

ta che farò lo stesso, o peggio. Ma quel tizio è un buono a nulla che si è

trasferito qui da Toronto, con licenza parlando non gli si dovrebbe permet-

tere di trastullarsi con le seghe, potrebbe anche tagliarsi la testa, non che

sarebbe una gran perdita per il mondo. Le ho detto, bisogna avere qualche

rotella in meno per fare una scemata come quella, e comunque io non ho

una sega da traforo. Ma mi fa comunque portare dietro questi dannati cosi,

fa Iu-uuhh, qui ci sono i tuoi guanti».

«Potresti perderli» ho detto.

«Ne comprerebbe degli altri» ha replicato con aria tetra.

«Lasciali qui. Di' che li hai dimenticati e che passerai a prenderli più tar-

di. Poi non prenderli e basta». Vedevo me stessa durante le notti solitarie,

che tenevo una delle coriacee mani di Walter messe a mia disposizione: sa-

rebbe una specie di compagnia. Patetico. Forse dovrei comprare un gatto, o

un cagnolino. Qualcosa di caldo, di poche pretese e peloso - una creatura

amica, che mi aiuti a montare la guardia di notte. Abbiamo bisogno di una

promiscuità mammifera: troppa solitudine fa male alla vista. Ma se pren-

dessi qualcosa del genere è più che probabile che ci inciamperei sopra e mi

romperei il collo.

La bocca di Walter si è contratta, mostrando le punte dei denti superiori:

era un sorriso. «I cervelloni la pensano allo stesso modo, eh?» ha fatto.

«Allora, forse potresti gettare questi affari nell'immondizia, casualmente o

di proposito».

«Walter, sei un furfante» ho detto. Ha sorriso ancora, ha aggiunto cinque

cucchiaini di zucchero al caffè, lo ha tracannato, poi ha poggiato tutte e

due le mani sul tavolo e si è issato in aria, come un obelisco sollevato da

corde. In quel movimento ho previsto di colpo quale sarebbe stata la sua

ultima azione legata a me: alzerà un'estremità della mia bara.

Lo sa anche lui. Si tiene pronto. Non per niente è un tuttofare. Non si a-

giterà, non mi lascerà cadere, si assicurerà che proceda in piano, in posi-

zione orizzontale, senza correre pericoli in quel mio ultimo, breve viaggio.

«Oh, issa!» dirà. E io andrò.

Lugubre. Lo so; e anche sdolcinato. Ma per favore, abbi pazienza con

me. A chi sta per morire è concessa qualche libertà, come ai bambini al lo-

ro compleanno.

I fuochi di casa

Ieri sera ho guardato il notiziario alla televisione. Non dovrei farlo, fa

male alla digestione. Da qualche parte è scoppiata un'altra guerra, una di

quelle che chiamano minori, sebbene naturalmente non sia minore per

chiunque abbia la ventura di trovarcisi coinvolto. Ne danno un'immagine

generica, di queste guerre - uomini in tenuta mimetica con sciarpe sopra la

bocca e il naso, nuvole di fumo, edifici sventrati, civili avviliti, piangenti.

Infinite madri che portano infiniti bambini debilitati, con i visi macchiati di

sangue; infiniti vecchi stravolti. Trascinano via dei giovani e li assassina-

no, per prevenire la vendetta, come fecero i greci a Troia. La scusa di Hit-

ler per uccidere i bambini ebrei, se ben ricordo.

Le guerre scoppiano e si esauriscono, ma poi c'è una fiammata da qual-

che altra parte. Le case spaccate in due come uova, i loro contenuti incen-

diati o derubati o calpestati per vendetta; i profughi mitragliati dagli aerei a

bassa quota. In un milione di sotterranei la famiglia reale sconcertata af-

fronta il plotone di esecuzione; le gemme cucite nei loro corsetti non li

salveranno. Le bande di Erode pattugliano un migliaio di strade; subito ac-

canto, Napoleone scappa con l'argenteria. Nella scia dell'occupazione, di

qualsiasi occupazione, i fossati si riempiono di donne violentate. Per non

far torto a nessuno, vengono violentati anche gli uomini. Violentati i bam-

bini, violentati i cani e i gatti. È facile perdere il controllo.

Ma non qui; non in questa gentile, noiosa acqua stagnante; non a Port

Ticonderoga, nonostante un drogato o due nei parchi, nonostante l'occa-

sionale scasso, nonostante l'occasionale corpo trovato a galleggiare nei

gorghi. Noi ce ne stiamo acquattati quaggiù, a bere i nostri drink e a sgra-

nocchiare i nostri spuntini prima di andare a letto, a scrutare il mondo co-

me attraverso una finestra segreta, e quando ne abbiamo avuto abbastanza

la chiudiamo. Basta con il Ventesimo secolo, diciamo, mentre ci avviamo

di sopra. Ma c'è un rombo lontano, come una mareggiata che si abbatte

sulla riva. Ecco che viene il Ventunesimo secolo, incedendo maestosa-

mente sopra le nostre teste come un'astronave piena di spietati alieni dagli

occhi di lucertola o uno pterodattilo di metallo. Prima o poi ci fiuterà,

strapperà via i tetti dalle nostre piccole fragili tane con i suoi artigli di fer-

ro, e allora saremo nudi, tremanti, affamati, malati e disperati come tutti gli

altri.

Mi scuso per la digressione. Alla mia età si indulge in queste visioni a-



pocalittiche. Viene da dire: La fine del mondo è alle porte. Si mente a se

stessi - Sono contento che non sarò lì a vederla -, quando in realtà non c'è

nulla che piacerebbe di più, a condizione di guardarla attraverso la finestra

segreta, a condizione di non essere coinvolti.

Ma perché darsi pena per la fine del mondo? Ogni giorno è la fine del

mondo, per qualcuno. Il tempo continua a salire, e quando raggiunge il li-

vello dei nostri occhi, si affoga.

Cosa successe poi? Per un momento ho perso il filo, mi è difficile ricor-

dare, ma poi lo faccio. Ci fu la guerra, naturalmente. Non eravamo prepa-

rati, ma al tempo stesso sapevamo di averla già vissuta. Era lo stesso fred-

do, il freddo che affluiva come una nebbia, il freddo nel quale ero venuta

al mondo. Come allora, tutto si impregnava di un'ansia che dava i brividi -

le sedie, i tavoli, le strade e le luci della strada, il cielo, l'aria. Durante la

notte intere porzioni di ciò che era stato riconosciuto come realtà sempli-

cemente svanivano. Questo è ciò che accade quando c'è una guerra.

Ma tu sei troppo giovane per ricordare di quale guerra parlo. Ogni guerra

è la guerra per chiunque l'abbia vissuta. Quella a cui mi riferisco cominciò

nel settembre del 1939, e andò avanti fino al... Be', è nei libri di storia.

Puoi andare a controllare.

Tenete accesi i fuochi delle case, diceva uno slogan della Grande guerra.

Ogni volta che lo sentivo immaginavo un'orda di donne dai capelli fluenti

e gli occhi scintillanti che avanzavano furtivamente in fila per una o per

due alla luce della luna e davano fuoco alle proprie case.

Nei mesi precedenti alla guerra il mio matrimonio con Richard stava già

naufragando, sebbene a dire il vero avesse cominciato a naufragare fin dal-

l'inizio. Avevo avuto un aborto e poi un altro. Da parte sua Richard aveva

avuto un'amante e poi un'altra, o così sospettavo - cosa inevitabile (avrebbe

detto in seguito Winifred) considerato il mio delicato stato di salute e le

necessità di Richard. Gli uomini avevano necessità, a quei tempi; erano

numerose, queste necessità; vivevano sotterrate nei cantucci e nelle nicchie

oscure dell'essere umano, e ogni tanto riprendevano forza e uscivano fuori,

come un'invasione di topi. Erano talmente furbe e forti, come aspettarsi

che un qualunque uomo normale avesse la meglio contro di loro? Questa

era la dottrina secondo Winifred, e - a voler essere giusti - anche secondo

un'infinità di altra gente.

Queste amanti di Richard erano (presumevo) le sue segretarie - ragazze

sempre molto giovani, sempre graziose, sempre perbene. Le assumeva fre-

sche fresche da qualsiasi accademia le producesse. Per un po' mi trattavano

con condiscendenza nervosa, al telefono, quando lo chiamavo in ufficio.

Venivano anche spedite a comprare regali per me, a ordinare fiori. A lui

piaceva che avessero ben chiare le precedenze: io ero la moglie ufficiale, e

lui non aveva alcuna intenzione di divorziare da me. Gli uomini divorziati

non diventavano le guide dei loro paesi, non a quei tempi. Questa situa-

zione mi dava una certa dose di potere, ma era tale soltanto se non lo eser-

citavo. In effetti, era potere soltanto se fingevo di non sapere nulla. La mi-

naccia che pendeva su di lui era che io potessi scoprire tutto; che potessi

svelare un segreto che era già stato svelato, e liberare ogni genere di male.

Me ne importava? Sì, in un certo senso. Ma meglio poco che niente, mi

dicevo, e Richard era pur sempre qualcosa. Era il pane sulla tavola, per

Aimee e anche per me. Sii superiore, diceva Reenie, e io ci provavo. Cer-

cavo di essere talmente superiore da innalzarmi nel cielo, come un pallone

sfuggito di mano, e qualche volta ci riuscivo.

Occupavo il mio tempo, avevo imparato a farlo. Mi ero data seriamente

al giardinaggio ormai, e stavo ottenendo qualche risultato. Non tutto mori-

va. Avevo progetti per un giardino perenne d'ombra.

Richard salvava le apparenze. Io facevo lo stesso. Partecipavamo a co-

cktail party e a cene, arrivavamo e ce ne andavamo insieme, la sua mano

sul mio gomito. Ci facevamo un dovere di bere un drink o due prima di

cena, o anche tre; stavo diventando un po' troppo amante del gin, in questa

o quella combinazione, ma non ero troppo vicina al limite finché potevo

sentire le dita dei piedi e controllare la lingua. Stavamo ancora pattinando

sulla superficie delle cose - sul ghiaccio sottile delle buone maniere, che

nasconde lo scuro laghetto sottostante: una volta che fonde, sei annegato.

Meglio un po' di vita che niente.

Non sono riuscita a rendere Richard in modo da dargli un qualsiasi spes-

sore. Rimane un ritaglio di cartone. Lo so. Non so veramente descriverlo,

non so metterlo precisamente a fuoco: è vago, come un viso in un giornale

bagnato, gettato via. Perfino allora mi appariva più piccolo del normale,

ma anche più grande del normale. Derivava dal fatto che aveva troppo de-

naro, troppo carisma nel mondo - si era tentati di aspettarsi da lui più di

quanto non ci fosse, e così quello che in lui era normale sembrava insuffi-

ciente. Era spietato, ma non come un leone; più come una sorta di grosso

roditore. Scavava tunnel sottoterra; uccideva le cose rosicchiandone le ra-

dici.


Aveva il denaro necessario per fare grandi gesti, per atti di notevole ge-

nerosità, ma non ne fece nessuno. Era diventato come la statua di se stesso:

enorme, pubblica, imponente, vuota.

Faceva tanto il grande ma in realtà era molto piccino. Per dirla in due pa-

role.

Allo scoppio della guerra Richard si trovò in grande imbarazzo. Aveva



intrattenuto rapporti d'affari troppo intimi con i tedeschi, aveva dimostrato

troppa ammirazione per loro nei suoi discorsi. Come molti dei suoi pari,

aveva chiuso troppo gli occhi davanti alle loro brutali violazioni della de-

mocrazia; una democrazia che molti dei nostri leader avevano denigrato

come irrealizzabile, ma che ora erano accaniti nel difendere.

Inoltre Richard si trovò a perdere molto denaro, dal momento che non

poteva più commerciare con chi in una notte era diventato il nemico. Do-

vette arrampicarsi sugli specchi, fare qualche salamelecco; non gli riusciva

molto bene, ma lo fece. Riuscì a salvare la sua posizione e a recuperare di

nuovo faticosamente la popolarità - be', non era il solo ad avere le mani

sporche, perciò meglio che gli altri non gli puntassero contro le loro dita

contaminate -, e in breve le sue fabbriche lavoravano senza posa, a pieno

regime per lo sforzo bellico, e nessuno era più patriottico di lui. Dunque

non tornò a suo svantaggio quando la Russia passò dalla parte degli alleati

e Iosif Stalin divenne all'improvviso l'amabile zio di tutti noi. È vero, Ri-

chard aveva detto molto contro i comunisti, ma quello era stato tanto tem-

po prima. Ora fu tutto infilato sotto il tappeto, perché i nemici dei propri

nemici non sono forse amici?

Intanto io arrancavo attraverso i giorni, non come al solito - il solito non

c'era più - ma come meglio potevo. Braccata, è la parola che userei adesso

per descrivere me stessa allora. O istupidita, andrebbe altrettanto bene.

Non c'erano più feste in giardino di cui doversi occupare, niente più calze

di seta se non al mercato nero. La carne era razionata, e.anche il burro, e lo

zucchero: se volevi averne di più, più di quanto ne aveva l'altra gente, di-

ventava importante stabilire certi contatti. Niente più viaggi transoceanici

su transatlantici di lusso - la Queen Mary fu adibita al trasporto delle trup-

pe. La radio smise di essere un'orchestra portatile e divenne un oracolo

convulso; ogni sera l'accendevo per sentire le notizie, che inizialmente e-

rano sempre cattive.

La guerra continuava, un motore inarrestabile. Logorava la gente - quel-

la tensione costante, tetra. Era come ascoltare qualcuno che digrignasse i

denti nelle tenebre prima dell'alba, mentre si giace insonni notte dopo notte

dopo notte.

Tuttavia, c'erano anche dei vantaggi. Il signor Murgatroyd ci lasciò per

unirsi all'esercito. Fu allora che imparai a guidare. Mi venne passata una

macchina, mi pare che fosse la Bentley, e Richard la fece registrare a mio

nome - in modo da ottenere più benzina. (La benzina era razionata, natu-

ralmente, anche se non tanto per la gente come Richard). Questo mi dava


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