ricorda. Tutto ciò che lo rendeva unico è stato bruciato via. Non importa,
dice lui. La ricostruiranno. Lo fanno sempre.
Ora ha paura di lui. Sei così cambiato, dice.
La situazione era critica. Abbiamo dovuto combattere il nemico con le
sue stesse armi.
Ma avete vinto. So che avete vinto!
Nessuno ha vinto.
Si è sbagliata? C'è stata sicuramente la notizia della vittoria. C'è stata
una parata, dice lei. Ne ho sentito parlare. C'era la banda di ottoni.
Guardami, dice lui.
Ma non può. Non può metterlo a fuoco, non rimarrà fermo. È vago, va-
cilla come una fiamma di candela, ma priva di luce. Non può vedere i suoi
occhi.
È morto, naturalmente. Naturalmente è morto, non ha forse ricevuto il
telegramma? Ma è solo un'invenzione, tutto questo. È solo un'altra dimen-
sione dello spazio. Allora perché c'è una tale desolazione?
Ora se ne sta andando, e lei non può gridargli dietro, la sua gola non
produrrà alcun suono. Ormai è sparito.
Sente una pressione soffocante attorno al cuore. No, no, no, no, dice una
voce dentro la sua testa. Lacrime le scorrono lungo il viso.
È a quel punto che si sveglia davvero.
XIII
I guanti
Oggi piove, la pioggia di aprile, sottile, leggera. Le scille blu stanno co-
minciando a fiorire, i narcisi piegano i loro musi a terra, i nontiscordardi-
mé nati spontaneamente stanno venendo su adagio, preparandosi a impa-
dronirsi della luce. Eccolo che viene - un altro anno di spintoni e gomitate
vegetativi. Sembra che non se ne stanchino mai: le piante non hanno ricor-
di, ecco perché. Non possono rammentare quante volte hanno già fatto tut-
to questo prima d'ora.
Devo ammettere che è una sorpresa trovarmi ancora qui, ancora a parlar-
ti. Preferisco pensarci come a una chiacchierata, anche se naturalmente
non lo è: io non sto dicendo nulla, tu non stai ascoltando nulla. L'unica co-
sa tra noi è questa linea nera: un filo gettato sulla pagina vuota, nell'aria
vuota.
Il ghiaccio invernale nella gola formata dal Louveteau è quasi scompar-
so, anche nei crepacci in ombra delle scogliere. L'acqua, nera e poi bianca,
si precipita tra le voragini di calcare e sui massi, senza alcuno sforzo, come
sempre. Un rumore violento, ma calmante; seducente, quasi. Si può capire
come mai la gente sia attratta da certe cose. Dalle cascate, dai luoghi alti,
dai deserti e dai laghi profondi - luoghi di non ritorno.
Finora c'è stato un solo cadavere nel fiume, una giovane donna di Toron-
to imbottita di droga. Un'altra ragazza che andava di fretta. Un'altra perdita
di tempo: il suo. Aveva dei parenti qui, una zia, uno zio. Sono già oggetto
di grette occhiate di traverso, come se avessero qualche responsabilità;
hanno già assunto l'aria arrabbiata e intrappolata di chi è consapevole della
propria innocenza. Sono sicura che siano irreprensibili, ma sono vivi, e
chiunque rimanga vivo viene biasimato. È la regola in cose come questa. È
ingiusta, ma è così.
Ieri mattina è passato Walter, per occuparsi della messa a punto di pri-
mavera. E così che chiama la routine delle riparazioni casalinghe che ese-
gue, per mio conto, ogni anno. Si è portato dietro la sua cassetta degli at-
trezzi, la sua sega elettrica portatile, il suo cacciavite elettrico: nulla gli
piace di più che rombare come un motore.
Ha parcheggiato tutti questi attrezzi nella veranda sul retro, poi si è mes-
so a camminare pesantemente fuori della casa. Quando è tornato aveva u-
n'espressione compiaciuta. «Al cancello del giardino manca una stecca» ha
detto. «Posso inchiodarcene un'altra oggi, e dipingerla quando il tempo è
asciutto».
«Oh, non darti pena» ho detto, come faccio ogni anno. «Sta cadendo tut-
to a pezzi, ma resisterà finché campo».
Walter lo ignora, come sempre. «Anche i gradini sul davanti» dice.
«Hanno bisogno di una verniciata. Ce n'è uno che potrebbe venire via da
un momento all'altro - ne va messo uno nuovo. Tu li trascuri troppo a lun-
go, l'acqua entra dentro e poi marciscono. Ma forse per la veranda ci vuole
un mordente, è meglio per il legno. Potremmo mettere una striscia di un al-
tro colore lungo i bordi dei gradini, così la gente ci vedrebbe meglio. A-
desso come adesso potrebbe mettere un piede in fallo e farsi male». Usa il
noi per cortesia, e con gente intende me. «Posso sistemare il nuovo gradino
più tardi nel corso della giornata».
«Ti bagnerai tutto» ho detto. «Il canale delle previsioni meteorologiche
dice che continuerà a piovere».
«No, si rasserenerà». Non ha nemmeno alzato lo sguardo al cielo.
Walter è andato a comprare l'occorrente - alcune tavole, suppongo - e io
ho trascorso quella pausa distesa sul divano del soggiorno, come l'eterea
eroina di un romanzo che sia stata dimenticata tra le pagine del suo stesso
libro e lasciata a ingiallire, ad ammuffire e a sgretolarsi come il libro stes-
so.
Un'immagine morbosa, direbbe Myra.
Cos'altro suggeriresti? replicherei.
Il fatto è che il mio cuore ha fatto di nuovo i capricci. Fatto i capricci,
una frase singolare. È quel che dice la gente per minimizzare la gravità
delle proprie condizioni. Essa implica che la parte incriminata (cuore, sto-
maco, fegato, quale che sia) sia un bambino stizzoso, birichino, che può
essere riportato all'ordine con una sberla o una parola severa. Nello stesso
tempo implica che questi sintomi - questi tremiti e questi dolori, queste
palpitazioni - siano solo rappresentazioni teatrali, e che l'organo in que-
stione smetterà ben presto di saltellare qua e là e di dare spettacolo, e ri-
prenderà la sua placida esistenza fuori della scena.
Il dottore non è soddisfatto. Ha borbottato di test ed esami, e di andare a
Toronto, dove si nascondono gli specialisti, quei pochi che non sono scap-
pati verso pascoli più verdi. Mi ha cambiato le pillole, ne ha aggiunta u-
n'altra all'arsenale. Ha perfino suggerito la possibilità di un'operazione.
Che conseguenze avrebbe, ho domandato, e quali risultati? Troppe delle
une, è venuto fuori, e non abbastanza degli altri. Sospetta che ci vorrebbe
niente meno che un'intera unità nuova - questo il suo termine, quasi stes-
simo parlando di una lavapiatti. Inoltre dovrei essere messa in una lista
d'attesa, aspettando l'unità di un altro, una di cui non ci sia più bisogno. Per
dirla in soldoni, il cuore di un altro, strappato a qualche ragazzo: non vor-
resti certo che te ne impiantino uno vecchio, traballante e avvizzito come
quello che intendi gettare via. Quello che vuoi è qualcosa di fresco e suc-
coso.
Ma chissà dove le prendono, certe cose? Io credo dai bambini di strada
in America Latina; o almeno così dice la voce più paranoide. Cuori rubati,
cuori al mercato nero, strappati via dal bel mezzo di costole rotte, caldi e
sanguinanti, offerti al falso dio. Cos'è il falso dio? Siamo noi. Noi e il no-
stro denaro. Questo è quello che direbbe Laura. Non toccare quei soldi, di-
ceva Reenie. Non sai da dove vengono.
Potrei vivere con me stessa, sapendo che porto il cuore di un bambino
morto?
Ma se non lo farò, cosa succederà?
Per favore, questa angoscia sconnessa non va scambiata per stoicismo.
Prendo le mie pillole, faccio le mie camminate a tappe, ma non c'è niente
che possa fare per la paura.
Dopo pranzo - un pezzo di formaggio duro, un bicchiere di latte dubbio,
una carota vizza, dal momento che questa settimana Myra non ha assolto il
compito che si era autoassegnata di rifornirmi il frigorifero - è tornato
Walter. Ha misurato, segato, martellato, poi ha bussato alla porta sul retro
per dire che gli dispiaceva per il rumore, ma adesso era tutto in perfetto or-
dine.
«Ti ho fatto del caffè» ho detto. È un rituale di queste occasioni di apri-
le. L'avevo bruciato questa volta? Non importa. Era abituato a quello di
Myra.
«Volentieri». Si è tolto con cura gli stivali di gomma e li ha lasciati nella
veranda sul retro - Myra lo ha ben ammaestrato, non gli è permesso di se-
minare quello che lei chiama il suo sporco su quelli che chiama i propri
tappeti - poi ha camminato in punta di piedi nelle sue calze enormi sul pa-
vimento della cucina; che, grazie alle energiche strofinate e pulite della
donna di Myra, ora è liscio e infido come un ghiacciaio. Prima aveva sopra
una patina adesiva, un accumulo di polvere e sporcizia, come un sottile ri-
vestimento di colla, ma ora non più. In realtà dovrei cospargerlo di sabbia,
o finirò con lo scivolarci e farmi male.
Guardare Walter che camminava in punta di piedi era in sé un gran di-
vertimento - un elefante che cammina sulle uova. Ha raggiunto il tavolo
della cucina, posandoci sopra i suoi guanti da lavoro gialli, che sono rima-
sti là come gigantesche zampe extra.
«Guanti nuovi» ho detto. Erano talmente nuovi che brillavano quasi. So-
pra non c'era neanche un graffio.
«Me li ha regalati Myra. Un tizio tre strade più in là si è tagliato la punta
delle dita con una sega da traforo e lei è andata su tutte le furie, preoccupa-
ta che farò lo stesso, o peggio. Ma quel tizio è un buono a nulla che si è
trasferito qui da Toronto, con licenza parlando non gli si dovrebbe permet-
tere di trastullarsi con le seghe, potrebbe anche tagliarsi la testa, non che
sarebbe una gran perdita per il mondo. Le ho detto, bisogna avere qualche
rotella in meno per fare una scemata come quella, e comunque io non ho
una sega da traforo. Ma mi fa comunque portare dietro questi dannati cosi,
fa Iu-uuhh, qui ci sono i tuoi guanti».
«Potresti perderli» ho detto.
«Ne comprerebbe degli altri» ha replicato con aria tetra.
«Lasciali qui. Di' che li hai dimenticati e che passerai a prenderli più tar-
di. Poi non prenderli e basta». Vedevo me stessa durante le notti solitarie,
che tenevo una delle coriacee mani di Walter messe a mia disposizione: sa-
rebbe una specie di compagnia. Patetico. Forse dovrei comprare un gatto, o
un cagnolino. Qualcosa di caldo, di poche pretese e peloso - una creatura
amica, che mi aiuti a montare la guardia di notte. Abbiamo bisogno di una
promiscuità mammifera: troppa solitudine fa male alla vista. Ma se pren-
dessi qualcosa del genere è più che probabile che ci inciamperei sopra e mi
romperei il collo.
La bocca di Walter si è contratta, mostrando le punte dei denti superiori:
era un sorriso. «I cervelloni la pensano allo stesso modo, eh?» ha fatto.
«Allora, forse potresti gettare questi affari nell'immondizia, casualmente o
di proposito».
«Walter, sei un furfante» ho detto. Ha sorriso ancora, ha aggiunto cinque
cucchiaini di zucchero al caffè, lo ha tracannato, poi ha poggiato tutte e
due le mani sul tavolo e si è issato in aria, come un obelisco sollevato da
corde. In quel movimento ho previsto di colpo quale sarebbe stata la sua
ultima azione legata a me: alzerà un'estremità della mia bara.
Lo sa anche lui. Si tiene pronto. Non per niente è un tuttofare. Non si a-
giterà, non mi lascerà cadere, si assicurerà che proceda in piano, in posi-
zione orizzontale, senza correre pericoli in quel mio ultimo, breve viaggio.
«Oh, issa!» dirà. E io andrò.
Lugubre. Lo so; e anche sdolcinato. Ma per favore, abbi pazienza con
me. A chi sta per morire è concessa qualche libertà, come ai bambini al lo-
ro compleanno.
I fuochi di casa
Ieri sera ho guardato il notiziario alla televisione. Non dovrei farlo, fa
male alla digestione. Da qualche parte è scoppiata un'altra guerra, una di
quelle che chiamano minori, sebbene naturalmente non sia minore per
chiunque abbia la ventura di trovarcisi coinvolto. Ne danno un'immagine
generica, di queste guerre - uomini in tenuta mimetica con sciarpe sopra la
bocca e il naso, nuvole di fumo, edifici sventrati, civili avviliti, piangenti.
Infinite madri che portano infiniti bambini debilitati, con i visi macchiati di
sangue; infiniti vecchi stravolti. Trascinano via dei giovani e li assassina-
no, per prevenire la vendetta, come fecero i greci a Troia. La scusa di Hit-
ler per uccidere i bambini ebrei, se ben ricordo.
Le guerre scoppiano e si esauriscono, ma poi c'è una fiammata da qual-
che altra parte. Le case spaccate in due come uova, i loro contenuti incen-
diati o derubati o calpestati per vendetta; i profughi mitragliati dagli aerei a
bassa quota. In un milione di sotterranei la famiglia reale sconcertata af-
fronta il plotone di esecuzione; le gemme cucite nei loro corsetti non li
salveranno. Le bande di Erode pattugliano un migliaio di strade; subito ac-
canto, Napoleone scappa con l'argenteria. Nella scia dell'occupazione, di
qualsiasi occupazione, i fossati si riempiono di donne violentate. Per non
far torto a nessuno, vengono violentati anche gli uomini. Violentati i bam-
bini, violentati i cani e i gatti. È facile perdere il controllo.
Ma non qui; non in questa gentile, noiosa acqua stagnante; non a Port
Ticonderoga, nonostante un drogato o due nei parchi, nonostante l'occa-
sionale scasso, nonostante l'occasionale corpo trovato a galleggiare nei
gorghi. Noi ce ne stiamo acquattati quaggiù, a bere i nostri drink e a sgra-
nocchiare i nostri spuntini prima di andare a letto, a scrutare il mondo co-
me attraverso una finestra segreta, e quando ne abbiamo avuto abbastanza
la chiudiamo. Basta con il Ventesimo secolo, diciamo, mentre ci avviamo
di sopra. Ma c'è un rombo lontano, come una mareggiata che si abbatte
sulla riva. Ecco che viene il Ventunesimo secolo, incedendo maestosa-
mente sopra le nostre teste come un'astronave piena di spietati alieni dagli
occhi di lucertola o uno pterodattilo di metallo. Prima o poi ci fiuterà,
strapperà via i tetti dalle nostre piccole fragili tane con i suoi artigli di fer-
ro, e allora saremo nudi, tremanti, affamati, malati e disperati come tutti gli
altri.
Mi scuso per la digressione. Alla mia età si indulge in queste visioni a-
pocalittiche. Viene da dire: La fine del mondo è alle porte. Si mente a se
stessi - Sono contento che non sarò lì a vederla -, quando in realtà non c'è
nulla che piacerebbe di più, a condizione di guardarla attraverso la finestra
segreta, a condizione di non essere coinvolti.
Ma perché darsi pena per la fine del mondo? Ogni giorno è la fine del
mondo, per qualcuno. Il tempo continua a salire, e quando raggiunge il li-
vello dei nostri occhi, si affoga.
Cosa successe poi? Per un momento ho perso il filo, mi è difficile ricor-
dare, ma poi lo faccio. Ci fu la guerra, naturalmente. Non eravamo prepa-
rati, ma al tempo stesso sapevamo di averla già vissuta. Era lo stesso fred-
do, il freddo che affluiva come una nebbia, il freddo nel quale ero venuta
al mondo. Come allora, tutto si impregnava di un'ansia che dava i brividi -
le sedie, i tavoli, le strade e le luci della strada, il cielo, l'aria. Durante la
notte intere porzioni di ciò che era stato riconosciuto come realtà sempli-
cemente svanivano. Questo è ciò che accade quando c'è una guerra.
Ma tu sei troppo giovane per ricordare di quale guerra parlo. Ogni guerra
è la guerra per chiunque l'abbia vissuta. Quella a cui mi riferisco cominciò
nel settembre del 1939, e andò avanti fino al... Be', è nei libri di storia.
Puoi andare a controllare.
Tenete accesi i fuochi delle case, diceva uno slogan della Grande guerra.
Ogni volta che lo sentivo immaginavo un'orda di donne dai capelli fluenti
e gli occhi scintillanti che avanzavano furtivamente in fila per una o per
due alla luce della luna e davano fuoco alle proprie case.
Nei mesi precedenti alla guerra il mio matrimonio con Richard stava già
naufragando, sebbene a dire il vero avesse cominciato a naufragare fin dal-
l'inizio. Avevo avuto un aborto e poi un altro. Da parte sua Richard aveva
avuto un'amante e poi un'altra, o così sospettavo - cosa inevitabile (avrebbe
detto in seguito Winifred) considerato il mio delicato stato di salute e le
necessità di Richard. Gli uomini avevano necessità, a quei tempi; erano
numerose, queste necessità; vivevano sotterrate nei cantucci e nelle nicchie
oscure dell'essere umano, e ogni tanto riprendevano forza e uscivano fuori,
come un'invasione di topi. Erano talmente furbe e forti, come aspettarsi
che un qualunque uomo normale avesse la meglio contro di loro? Questa
era la dottrina secondo Winifred, e - a voler essere giusti - anche secondo
un'infinità di altra gente.
Queste amanti di Richard erano (presumevo) le sue segretarie - ragazze
sempre molto giovani, sempre graziose, sempre perbene. Le assumeva fre-
sche fresche da qualsiasi accademia le producesse. Per un po' mi trattavano
con condiscendenza nervosa, al telefono, quando lo chiamavo in ufficio.
Venivano anche spedite a comprare regali per me, a ordinare fiori. A lui
piaceva che avessero ben chiare le precedenze: io ero la moglie ufficiale, e
lui non aveva alcuna intenzione di divorziare da me. Gli uomini divorziati
non diventavano le guide dei loro paesi, non a quei tempi. Questa situa-
zione mi dava una certa dose di potere, ma era tale soltanto se non lo eser-
citavo. In effetti, era potere soltanto se fingevo di non sapere nulla. La mi-
naccia che pendeva su di lui era che io potessi scoprire tutto; che potessi
svelare un segreto che era già stato svelato, e liberare ogni genere di male.
Me ne importava? Sì, in un certo senso. Ma meglio poco che niente, mi
dicevo, e Richard era pur sempre qualcosa. Era il pane sulla tavola, per
Aimee e anche per me. Sii superiore, diceva Reenie, e io ci provavo. Cer-
cavo di essere talmente superiore da innalzarmi nel cielo, come un pallone
sfuggito di mano, e qualche volta ci riuscivo.
Occupavo il mio tempo, avevo imparato a farlo. Mi ero data seriamente
al giardinaggio ormai, e stavo ottenendo qualche risultato. Non tutto mori-
va. Avevo progetti per un giardino perenne d'ombra.
Richard salvava le apparenze. Io facevo lo stesso. Partecipavamo a co-
cktail party e a cene, arrivavamo e ce ne andavamo insieme, la sua mano
sul mio gomito. Ci facevamo un dovere di bere un drink o due prima di
cena, o anche tre; stavo diventando un po' troppo amante del gin, in questa
o quella combinazione, ma non ero troppo vicina al limite finché potevo
sentire le dita dei piedi e controllare la lingua. Stavamo ancora pattinando
sulla superficie delle cose - sul ghiaccio sottile delle buone maniere, che
nasconde lo scuro laghetto sottostante: una volta che fonde, sei annegato.
Meglio un po' di vita che niente.
Non sono riuscita a rendere Richard in modo da dargli un qualsiasi spes-
sore. Rimane un ritaglio di cartone. Lo so. Non so veramente descriverlo,
non so metterlo precisamente a fuoco: è vago, come un viso in un giornale
bagnato, gettato via. Perfino allora mi appariva più piccolo del normale,
ma anche più grande del normale. Derivava dal fatto che aveva troppo de-
naro, troppo carisma nel mondo - si era tentati di aspettarsi da lui più di
quanto non ci fosse, e così quello che in lui era normale sembrava insuffi-
ciente. Era spietato, ma non come un leone; più come una sorta di grosso
roditore. Scavava tunnel sottoterra; uccideva le cose rosicchiandone le ra-
dici.
Aveva il denaro necessario per fare grandi gesti, per atti di notevole ge-
nerosità, ma non ne fece nessuno. Era diventato come la statua di se stesso:
enorme, pubblica, imponente, vuota.
Faceva tanto il grande ma in realtà era molto piccino. Per dirla in due pa-
role.
Allo scoppio della guerra Richard si trovò in grande imbarazzo. Aveva
intrattenuto rapporti d'affari troppo intimi con i tedeschi, aveva dimostrato
troppa ammirazione per loro nei suoi discorsi. Come molti dei suoi pari,
aveva chiuso troppo gli occhi davanti alle loro brutali violazioni della de-
mocrazia; una democrazia che molti dei nostri leader avevano denigrato
come irrealizzabile, ma che ora erano accaniti nel difendere.
Inoltre Richard si trovò a perdere molto denaro, dal momento che non
poteva più commerciare con chi in una notte era diventato il nemico. Do-
vette arrampicarsi sugli specchi, fare qualche salamelecco; non gli riusciva
molto bene, ma lo fece. Riuscì a salvare la sua posizione e a recuperare di
nuovo faticosamente la popolarità - be', non era il solo ad avere le mani
sporche, perciò meglio che gli altri non gli puntassero contro le loro dita
contaminate -, e in breve le sue fabbriche lavoravano senza posa, a pieno
regime per lo sforzo bellico, e nessuno era più patriottico di lui. Dunque
non tornò a suo svantaggio quando la Russia passò dalla parte degli alleati
e Iosif Stalin divenne all'improvviso l'amabile zio di tutti noi. È vero, Ri-
chard aveva detto molto contro i comunisti, ma quello era stato tanto tem-
po prima. Ora fu tutto infilato sotto il tappeto, perché i nemici dei propri
nemici non sono forse amici?
Intanto io arrancavo attraverso i giorni, non come al solito - il solito non
c'era più - ma come meglio potevo. Braccata, è la parola che userei adesso
per descrivere me stessa allora. O istupidita, andrebbe altrettanto bene.
Non c'erano più feste in giardino di cui doversi occupare, niente più calze
di seta se non al mercato nero. La carne era razionata, e.anche il burro, e lo
zucchero: se volevi averne di più, più di quanto ne aveva l'altra gente, di-
ventava importante stabilire certi contatti. Niente più viaggi transoceanici
su transatlantici di lusso - la Queen Mary fu adibita al trasporto delle trup-
pe. La radio smise di essere un'orchestra portatile e divenne un oracolo
convulso; ogni sera l'accendevo per sentire le notizie, che inizialmente e-
rano sempre cattive.
La guerra continuava, un motore inarrestabile. Logorava la gente - quel-
la tensione costante, tetra. Era come ascoltare qualcuno che digrignasse i
denti nelle tenebre prima dell'alba, mentre si giace insonni notte dopo notte
dopo notte.
Tuttavia, c'erano anche dei vantaggi. Il signor Murgatroyd ci lasciò per
unirsi all'esercito. Fu allora che imparai a guidare. Mi venne passata una
macchina, mi pare che fosse la Bentley, e Richard la fece registrare a mio
nome - in modo da ottenere più benzina. (La benzina era razionata, natu-
ralmente, anche se non tanto per la gente come Richard). Questo mi dava
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