Margaret atwood



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signora Murgatroyd, il cui naso da carlino fiutava subito l'imbroglio. Non

credeva più alla mia storia del garage.

Fui sollevata: tutto poteva ancora aggiustarsi. Laura era ancora in città.

Mi avrebbe parlato più tardi.

E lo ha fatto, sebbene tenda a ripetersi, com'è abitudine dei morti. Dico-

no tutte le cose che ti hanno detto da vivi; ma raramente qualcosa di nuo-

vo.

Mi stavo togliendo i vestiti che avevo indossato a pranzo, quando arrivò



il poliziotto con la notizia dell'incidente. Laura aveva sfondato una barriera

di segnalazione di pericolo, quindi era volata giù dal St. Clair Avenue Bri-

dge nel profondo baratro sottostante. Era stato un incidente terribile, disse

il poliziotto, scuotendo tristemente la testa. Era alla guida della mia mac-

china: erano risaliti a me dalla targa. Sulle prime - naturalmente - avevano

pensato che dovessi essere io la donna carbonizzata trovata sul luogo del

disastro.

Quella sì sarebbe stata una notizia.

Dopo che il poliziotto se ne fu andato provai a smettere di tremare. Ave-

vo bisogno di mantenermi calma, avevo bisogno di riprendere il controllo.

Sentirai che musica, diceva Reenie, ma che tipo di musica aveva in mente?

Non era musica da ballo. Una stridula banda di ottoni, una parata di qual-

che genere, con la gente ai lati, a puntare il dito e a schernire. In fondo alla

strada un boia, con energia da bruciare.

Naturalmente ci sarebbe stato un controinterrogatorio da parte di Ri-

chard. La mia storia sulla macchina e il garage avrebbe continuato a regge-

re se avessi aggiunto che quel giorno avevo incontrato Laura per il tè, ma

che non gliel'avevo detto, perché non volevo turbarlo inutilmente proprio

prima di un discorso importante. (Tutti i suoi discorsi erano importanti,

adesso; si stava avvicinando alla meta tanto desiderata).

Laura era nella macchina quando si era rotta, avrei detto; mi aveva ac-

compagnata al garage. Quando avevo dimenticato la borsa doveva averla

presa, e poi sarebbe stato un gioco da ragazzi per lei la mattina dopo anda-

re a riprendere la macchina, pagando con un assegno falsificato preso dal

mio libretto. Avrei strappato un assegno, per rendere la cosa verosimile; se

messa alle strette sul nome del garage, avrei detto di averlo dimenticato. Se

messa ancora alle strette, avrei pianto. Come potevano pensare che mi ri-

cordassi un dettaglio tanto insignificante, avrei detto, in un momento simi-

le?

Andai di sopra a cambiarmi. Per recarmi all'obitorio avrei avuto bisogno



di un paio di guanti e di un cappello con la veletta. Potevano già esserci i

giornalisti, i fotografi. Ci andrò in macchina, pensai, e poi mi ricordai che

la mia auto era a pezzi. Avrei dovuto chiamare un taxi.

Avrei dovuto anche avvertire Richard, in ufficio: appena fosse trapelata

la notizia, le mosche carnarie lo avrebbero assediato. Era troppo importan-

te perché potesse andare diversamente. Avrebbe desiderato avere una di-

chiarazione di cordoglio bella e pronta.

Feci la telefonata. Rispose l'ultima giovane segretaria di Richard. Le dis-

si che era una questione urgente, e che no, non poteva essere comunicata

attraverso di lei. Avrei dovuto parlare con Richard in persona.

Ci fu una pausa mentre Richard veniva rintracciato. «Cosa c'è?» chiese.

Non gradiva mai che gli si telefonasse in ufficio.

«C'è stato un terribile incidente» dissi. «Si tratta di Laura. La macchina

che stava guidando è volata giù da un ponte».

Non disse niente.

«Era la mia macchina».

Non disse niente.

«Temo che sia morta» aggiunsi.

«Mio Dio». Una pausa. «Dov'è stata tutto questo tempo? Quando è tor-

nata? Cosa faceva nella tua macchina?»

«Pensavo che avresti dovuto saperlo subito, prima che i giornali ci met-

tano le mani» dissi.

«Sì» fece. «È stata una cosa saggia».

«Ora devo andare all'obitorio».

«L'obitorio?» disse. «L'obitorio cittadino? Per quale diavolo di motivo?»

«È dove l'hanno portata».

«Be', toglila di lì» disse. «Portala in qualche posto decente. In qualche

posto più...»

«Privato» dissi. «Sì, lo farò. Dovrei dirti che hanno ventilato l'ipotesi - la

polizia, uno di loro è appena stato qui - ha ipotizzato che...»

«Cosa? Cosa gli hai detto? Cosa ha ipotizzato?» Sembrava piuttosto al-

larmato.


«Soltanto che potrebbe averlo fatto di proposito».

«Assurdo» disse. «Deve essere stato un incidente. Spero che tu abbia

detto così».

«Naturalmente. Ma c'erano dei testimoni. Hanno visto...»

«C'era un biglietto? Se c'era, brucialo».

«Erano un due, un avvocato e qualcuno che lavora in una banca. Lei in-

dossava guanti bianchi. L'hanno vista girare il volante».

«Uno scherzo della luce» disse. «Oppure erano ubriachi. Chiamerò l'av-

vocato. Me ne occuperò io». Misi giù il telefono. Entrai nel mio spoglia-

toio: mi ci voleva qualcosa di nero, e un fazzoletto. Dovrò dirlo ad Aimee,

pensai. Dirò che è stata colpa del ponte. Dirò che il ponte si è rotto.

Aprii il cassetto dove tenevo le calze, e lì c'erano i quaderni - erano cin-

que, i quaderni di scuola da poco prezzo di quando studiavamo con il si-

gnor Erskine, legati insieme con spago da cucina. Il nome di Laura era

scritto sulla copertina in alto, a matita - con la sua scrittura infantile. Sotto:

Matematica. Laura odiava la matematica.

Vecchi compiti di scuola, pensai. No: vecchi compiti a casa. Perché me

li aveva lasciati?

A quel punto avrei potuto fermarmi. Avrei potuto scegliere l'ignoranza,

ma feci quello che avresti fatto tu - quello che hai già fatto, se hai letto fin

qui. Scelsi piuttosto di sapere.

La maggior parte di noi farà così. Sceglieremo di sapere non importa co-

sa, ci mutileremo nel farlo, infileremo le mani nelle fiamme, se necessario.

La curiosità non è l'unico motivo: l'amore o il dolore o la disperazione o

l'odio è ciò che ci spinge. Spieremo inesorabilmente i morti: apriremo le

loro lettere, leggeremo i loro diari, esamineremo la loro spazzatura speran-

do in un indizio, una parola finale, una spiegazione da coloro che ci hanno

abbandonato - che ci hanno passato la patata bollente, che spesso è molto

meno bollente di quanto avevamo creduto.

Ma che dire di quelli che seminano indizi perché noi ci inciampiamo?

Perché si prendono questa briga? Egoismo? Pietà? Rivincita? Una sempli-

ce affermazione di esistenza, come scarabocchiare le proprie iniziali sul

muro di un bagno? La combinazione di presenza e anonimato - confessio-

ne senza penitenza, verità senza conseguenze - ha il suo fascino. Ti toglie

il sangue dalle mani, in un modo o nell'altro.

Quelli che lasciano simili prove non possono lamentarsi se poi arrivano

degli estranei e ficcano il naso in ogni singola cosa che un tempo non li a-

vrebbe riguardati. E non solo estranei: amanti, amici, parenti. Siamo guar-

doni, tutti noi. Perché dovremmo presumere che qualcosa del passato sia a

nostra disposizione, solo perché l'abbiamo trovata? Siamo tutti predatori di

tombe, una volta che apriamo le serrature chiuse da altri.

Ma solo chiuse. Le stanze e il loro contenuto sono rimasti intatti. Se chi

li ha lasciati avesse voluto l'oblio, poteva sempre fare ricorso al fuoco.

XIV


La ciocca dorata

Ora devo sbrigarmi. Posso vedere la fine baluginare lassù davanti a me,

come se si trattasse di un motel sulla strada in una buia notte di pioggia.

Un motel del dopoguerra, da ultima spiaggia, dove non si fanno domande,

nessuno dei nomi nel registro sul bancone d'ingresso è vero e si paga in an-

ticipo. L'ufficio è ornato da vecchie luci di albero di Natale; dietro c'è un

gruppo di casupole scure, i cuscini odorosi di muffa. Sul davanti, una

pompa di benzina con la faccia di luna piena. Ma non c'è benzina, è finita

molti decenni fa. Questa è la fine della corsa.

Fine, un rifugio caldo e sicuro. Un posto per riposare. Ma non l'ho anco-

ra raggiunto, e sono vecchia e stanca, e a piedi, e zoppico. Persa nei bo-

schi, e senza sassolini bianchi a segnare la strada, e un terreno infido da

percorrere.

Lupi, vi invoco! Donne morte dai capelli azzurri e occhi come fosse pie-

ne di serpenti, vi chiamo a raccolta! Statemi accanto ora, mentre ci avvici-

niamo alla fine! Guidate le mie tremolanti dita artritiche, la mia penna a

sfera nera da pochi soldi; tenete a galla il mio cuore che perde colpi solo

per pochi giorni ancora, finché non metto le cose in ordine. Siate i miei

compagni, i miei aiutanti e amici; ancora una volta, aggiungo, perché non

siamo state buone conoscenze in passato?

Ogni cosa ha il suo posto, diceva Reenie; o, quando era in vena di turpi-

loquio, alla signora Hillcoate: Non c'è fiore senza merda. Il signor Erskine

mi ha insegnato qualche trucco utile. Un'invocazione ben formulata alle

Furie può far comodo, in caso di bisogno. Quando si tratta essenzialmente

di una questione di vendetta.

All'inizio credevo di volere solo giustizia. Pensavo che il mio cuore fos-

se puro. Ci piace avere opinioni così buone dei motivi che ci spingono a

fare qualcosa di doloroso a qualcun altro. Ma come osservava altresì il si-

gnor Erskine, Eros con il suo arco e le sue frecce non è l'unica divinità cie-

ca. L'altra è la Giustizia. Goffe divinità cieche dalle armi affilate: la Giu-

stizia tiene a fatica una spada che, in combinazione con la benda che le co-

pre gli occhi, è un'ottima ricetta per tagliarsi.

Vorrai naturalmente sapere cosa c'era nei quaderni di Laura. Sono come

li ha lasciati, legati con il loro sporco spago marrone, li ho lasciati per te

nel mio baule da nave, insieme a tutto il resto. Non ho cambiato nulla.

Puoi vedere tu stessa. Le pagine che vi sono state strappate non sono state

strappate da me.

Cosa mi aspettavo, quel giorno del maggio 1945 pieno di terrore? Con-

fessioni, rimproveri? Oppure un diario, che raccontasse in dettaglio gli in-

contri amorosi tra Laura e Alex Thomas? Senza dubbio, senza dubbio. Ero

preparata alla lacerazione. E la ricevetti, anche se non nel modo che avevo

immaginato.

Tagliai lo spago, aprii a ventaglio i quaderni. Erano cinque: Matematica,

Geografia, Francese, Storia e Latino. I libri della conoscenza.

Scrive come un angelo, si dice di Laura dietro una delle edizioni dell'As-

sassino cieco. Un'edizione americana, se ben ricordo, con volute dorate in

copertina: tengono in gran conto gli angeli, da quelle parti. In realtà, gli

angeli non scrivono molto. Essi registrano i peccati e i nomi dei dannati e

dei salvati, oppure appaiono come mani liberate dal corpo e scarabocchia-

no ammonimenti sui muri. Oppure consegnano messaggi, pochi dei quali

sono buone notizie: Dio sia con te non è una benedizione incondizionata.

Tenendo presente tutto ciò, sì: Laura scriveva come un angelo. In altre

parole, non molto. Ma l'essenziale.

Latino, fu il quaderno che aprii per primo. La maggior parte delle pagine

che ne rimanevano erano bianche; c'erano bordi frastagliati dove Laura

doveva avere strappato i suoi vecchi compiti. Aveva lasciato soltanto un

passo, una traduzione che aveva fatto - con il mio aiuto, nonché con l'aiuto

della biblioteca di Avilion - dei versi finali del Libro IV dell'Eneide di

Virgilio. Didone si era trafitta sulla pira, o meglio sull'altare ardente che

aveva innalzato con tutti gli oggetti collegati al suo amore svanito, Enea,

che se n'era andato per mare a compiere il proprio destino attraverso la

guerra. Sebbene sanguinante come un maiale scannato, Didone era dura a

morire. Non la finiva di contorcersi. Al signor Erskine, se ben ricordo, quel

brano piaceva.

Rammentai il giorno in cui l'aveva scritta. Gli ultimi raggi del sole en-

travano dalla finestra della mia stanza. Laura era stesa sul pavimento, agi-

tava in aria i calzettoni sfilati a metà, e trascriveva laboriosamente nel qua-

derno gli scarabocchi frutto della nostra collaborazione. Odorava di sapone

Ivory e di limatura di matita.

Infine la potente Giunone si dolse delle sue lunghe sofferenze e

del difficile distacco, e inviò Tride dall'Olimpo per liberare l'ani-

ma agonizzante dal corpo che ancora vi si teneva attaccato. Que-

sto andava fatto perché Didone non stava morendo di morte natu-

rale o procurata da altri ma, disperata, condotta a essa da un folle

impulso. In ogni modo Proserpina non aveva ancora reciso la

ciocca dorata dal suo capo, né l'aveva inviata nell'Oltretomba.

Dunque ora, tutta coperta di rugiada, le ali gialle come crochi,

trascinandosi dietro mille colori dell'arcobaleno che scintillavano

alla luce del sole, Iride volava giù, e librandosi sopra Didone dis-

se:


Come mi è stato detto di fare, prendo questa cosa sacra che ap-

partiene al Dio della Morte; e ti libero del tuo corpo.

Allora tutto il calore si estinse all'improvviso, e la sua vita svanì

nell'aria.

«Perché ha dovuto tagliare la ciocca di capelli?» chiese Laura. «Quella

Iride?»


Non ne avevo idea. «Era solo una cosa che andava fatta» dissi. «Una

specie di offerta». Ero stata contenta di scoprire che avevo lo stesso nome

di un personaggio di una storia, e che dunque non. mi era stato semplice-

mente dato il nome di un fiore, come avevo sempre pensato. Il motivo bo-

tanico, per le femmine, era stato dominante nella famiglia di mia madre.

«Ha aiutato Didone a uscire dal suo corpo» disse Laura. «Non voleva

più vivere. L'ha liberata della sua infelicità, dunque era la cosa giusta da

fare. Non è vero?»

«Credo di sì» dissi. Non ero troppo interessata ad argomenti etici così

elevati. Accadevano strane cose, nelle poesie. Non aveva senso cercare di

capirne qualcosa. Però mi chiesi se Didone fosse stata bionda; nel resto

della storia me l'ero sempre figurata bruna.

«Chi è il Dio della Morte? Perché vuole i suoi capelli?»

«Basta con questi capelli» dissi. «Abbiamo fatto il latino. Ora finiamo il

francese. Il signor Erskine ci ha dato troppi compiti, come sempre. Ora: Il

ne faut pas toucher aux idoles: la dorure en reste aux mains».

«Che ne diresti di: Non toccate i falsi dei, vi rimarrà la pittura dorata sul-

le mani?»

«Non parla di pittura».

«Ma è ciò che significa realmente».

«Conosci il signor Erskine. Non gli importa cosa significa».

«Odio il signor Erskine. Vorrei avere di nuovo Miss Violence».

«Anch'io. Vorrei avere di nuovo la mamma».

«Anch'io».

Il signor Erskine non aveva dato un buon giudizio di quella traduzione di

Laura. Era piena dei suoi fregacci a matita rossa.

Come posso descrivere la pozza di dolore in cui stavo per cadere? Non

posso descriverla, perciò non ci proverò.

Sfogliai gli altri quaderni. Quello di Storia era vuoto, tranne per la foto

che Laura ci aveva incollato dentro - lei e Alex Thomas al picnic alla fab-

brica di bottoni, ora entrambi colorati di giallo, con la mia mano mozzata

tinta di blu che striscia verso di loro attraverso il prato. Geografia conte-

neva soltanto una breve descrizione di Port Ticonderoga che ci era stata

assegnata dal signor Erskine. «Questa città di media grandezza è situata al-

la confluenza dei fiumi Louveteau e Jogues, ed è nota per le pietre e altre

cose» era la prima frase di Laura. Da quello di francese era stato tolto tutto

il francese. Invece, conteneva la lista di strane parole che Alex aveva di-

menticato nella nostra soffitta, e che - ora scoprivo - Laura non aveva bru-

ciato, dopo tutto. Anchoryne, berel, carchineal, diamite, ebonort... Una

lingua straniera, è vero, ma una che avevo imparato a capire, meglio di

quanto avessi mai capito il francese.

Matematica riportava una lunga colonna di numeri, alcuni dei quali af-

fiancati da parole. Mi ci volle qualche minuto per capire che genere di nu-

meri fossero. Erano date. La prima data coincideva con il mio ritorno dal-

l'Europa, l'ultima si riferiva a circa tre mesi prima della partenza di Laura

per la Clinica Bella Vista. Le parole erano queste:

Avilion, no. No. No. Sunnyside. No. Xanadu, no. No. Queen Mary, no

no. New York, no. Avilion. Non subito.

L'ondina, X. «Stordito».

Di nuovo Toronto. X.

X. X. X. X.

O.

C'era tutta la storia. Era tutto chiaro. Era sempre stato lì, proprio sotto i



miei stessi occhi. Come avevo potuto essere così cieca?

Non Alex Thomas, dunque. Assolutamente non Alex. Per Laura Alex

apparteneva a un'altra dimensione dello spazio.

La vittoria viene e va

Dopo avere sfogliato i quaderni di Laura, li rimisi nel mio cassetto delle

calze. Era tutto chiaro, ma nulla poteva essere provato. Questo era altret-

tanto chiaro.

Ma c'è sempre più di un modo di fare le cose, come diceva Reenie. Se

non puoi andarci attraverso, giraci intorno.

Aspettai fin dopo il funerale, poi aspettai un'altra settimana. Non volevo

agire troppo precipitosamente. Meglio essere prudenti che doversi pentire

poi, diceva sempre Reenie. Un assioma discutibile: molto spesso una cosa

non esclude l'altra.

Richard partì per Ottawa per un viaggio importante. Uomini in posizioni

elevate avrebbero potuto fargli la fatidica proposta, accennò; o, se non a-

desso, presto. Dissi sia a lui che a Winifred che avrei colto quell'opportuni-

tà per andare a Port Ticonderoga con le ceneri di Laura nella loro scatola

color argento. Dovevo deporre quelle ceneri, dissi, e occuparmi dell'iscri-

zione sul monumentale cubo di famiglia dei Chase. Tutto come si conface-

va.


«Non sentirti in colpa» disse Winifred, sperando che lo facessi - se mi

fossi sentita in colpa, non sarei andata in giro a incolpare qualcun altro.

«Meglio non pensare a certe cose». Ma ci pensiamo comunque. Non pos-

siamo farne a meno.

Dopo essermi congedata da Richard, diedi una serata libera alla servitù.

Avrei tenuto la postazione, dissi. Lo avevo fatto spesso ultimamente - mi

piaceva stare da sola in casa, soltanto con Aimee, quando dormiva - così

perfino la signora Murgatroyd non avrebbe avuto sospetti. Quando la via

fu libera agii in fretta. Avevo già fatto qualche preparativo, avevo impac-

chettato qualcosa di nascosto - la mia scatola dei gioielli, le mie fotografie,

Piante perenni per il giardino roccioso - e ora pensai al resto. I miei abiti,

anche se certo non tutti; alcune cose per Aimee, anche se certo non tutte

neanche quelle. Misi quanto potevo nel baule da nave, lo stesso che una

volta conteneva il mio corredo, e nella valigia assortita. Gli uomini della

compagnia ferroviaria vennero a ritirare il bagaglio, come avevo combina-

to. Poi, il giorno dopo, mi fu facile andare alla Union Station in taxi con

Aimee, entrambe con una sola borsa con l'occorrente per una notte, e chi

s'è visto s'è visto.

Lasciai una lettera per Richard. Dicevo che in considerazione di ciò che

aveva fatto - che ora sapevo aveva fatto - non volevo più vederlo. Date le

sue ambizioni politiche non avrei chiesto il divorzio, sebbene avessi ampie

prove del suo comportamento abietto nei quaderni di Laura, che - mentivo

- erano chiusi in una cassetta di sicurezza. Se gli fosse venuta qualche idea

di mettere le sue sporche mani su Aimee, aggiungevo, avrebbe fatto bene

ad abbandonarla, perché in quel caso avrei sollevato un grosso, un grossis-

simo scandalo, cosa che avrei fatto anche nel caso non avesse accontentato

le mie richieste finanziarie. Queste non erano esose: tutto quello che vole-

vo era il denaro sufficiente a comprare una casetta a Port Ticonderoga e ad

assicurare il mantenimento di Aimee. Alle mie necessità avrei provveduto

in altro modo.

Firmai la lettera Cordialmente tua e, mentre leccavo l'aletta della busta,

mi chiesi se avessi scritto correttamente abietto.

Parecchi giorni prima di lasciare Toronto ero andata a salutare Callie Fi-

tzsimmons. Aveva abbandonato la scultura, ora si dedicava alla pittura mu-

rale. La trovai in una compagnia di assicurazioni - nella sede centrale - do-

ve era riuscita a procurarsi una commissione. Il contributo delle donne allo

sforzo bellico, era il tema - superato, ora che la guerra era finita (e, sebbe-

ne nessuna di noi due lo sapesse ancora, ben presto ci avrebbero passato

sopra una mano di una delicata e rassicurante sfumatura di taupe).

Le avevano concesso tutta una parete. Tre operaie, in tute e sorrisi impa-

vidi, che fabbricavano bombe; una ragazza alla guida di un'ambulanza; due

contadine con la zappa e una cesta di pomodori; una donna in uniforme al-

le prese con una macchina da scrivere; nell'angolo in fondo, spinta da una

parte, una madre in grembiule che sfornava una pagnotta, mentre due

bambini alzavano su di lei uno sguardo di approvazione.

Callie fu sorpresa nel vedermi. Non l'avevo avvisata della mia visita:

non avevo alcun desiderio di essere evitata. Stava sorvegliando i pittori,

con i capelli tenuti su da un foulard a colori vivaci, e indossava pantaloni

cachi e scarpe da tennis e camminava a grandi passi con le mani in tasca e

una sigaretta incollata al labbro inferiore.

Aveva saputo della morte di Laura, ne aveva letto sui giornali - che ra-

gazza incantevole, tanto strana da bambina, che peccato. Dopo questi pre-

liminari, le spiegai cosa mi aveva detto Laura, e le chiesi se fosse vero.

Callie era indignata. Usò la parola stronzate parecchie volte. È vero, Ri-

chard l'aveva aiutata quando era stata beccata dalla Squadra Rossa come

sovversiva, ma aveva pensato che l'avesse fatto soltanto in nome dei vec-

chi tempi, in fondo lei aveva fatto parte della famiglia. Negò di avergli mai

detto nulla, su Alex o su qualsiasi altro rosso o compagno di viaggio. Che

stronzate! Questi erano i suoi amici! Quanto ad Alex, sì, all'inizio lo aveva

aiutato, quando era nei pasticci, ma poi era sparito, dovendole a dire il vero

anche del denaro, e poi aveva sentito dire che era in Spagna. Come avreb-

be potuto spifferare dove si trovava, se non lo sapeva neanche lei?

Niente di fatto. Forse su quell'argomento Richard aveva mentito a Laura,

come aveva mentito a me su molto altro. D'altra parte, cos'altro mi aspetta-

vo che dicesse?

Ad Aimee non piacque Port Ticonderoga. Voleva suo padre. Voleva ciò

che le era familiare, come fanno i bambini. Rivoleva il suo spazio. Oh, non

è per tutti così?

Spiegai che dovevamo rimanere là per un po'. Non dovrei dire spiegai,


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