Margaret atwood



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no infilati in buste trasparenti ordinate secondo la data in cui erano stati

eseguiti, in modo che fu facile per Laura individuare quello della foto del

picnic. Ne fece due copie in bianco e nero, un giorno che Elwood era usci-

to e lei poteva fare i suoi comodi. Non ne parlò a nessuno, neanche a me -

se non in seguito. Dopo aver fatto le stampe, fece scivolare il negativo nel-

la borsetta e lo portò a casa. Non lo considerava un furto: era stato Elwood

a rubare per primo la foto non chiedendoci il permesso di scattarla, e lei

stava soltanto portandogli via qualcosa che comunque non gli era mai ve-

ramente appartenuto.

Dopo avere raggiunto il suo scopo, Laura smise di andare nell'ufficio di

Elwood Murray. Non gli diede alcuna spiegazione, e nessun preavviso.

Pensavo che fosse scortese da parte sua, e infatti lo era, perché Elwood si

sentì disprezzato. Cercò di scoprire attra verso Reenie se Laura fosse mala-

ta, ma tutto quello che Reenie gli disse fu che Laura doveva avere cambia-

to idea sulla fotografia. Era piena di idee, quella ragazza; aveva sempre

qualche chiodo fis so, e ora doveva averne uno diverso.

Questo risvegliò la curiosità di Elwood. Cominciò a tenere d'occhio Lau-

ra, in un modo che andava ben oltre la sua normale curiosità. Non lo chia-

merei esattamente spiare - non era come se si nascondesse dietro i cespu-

gli. Semplicemente faceva più caso a lei. (Tuttavia non aveva ancora sco-

perto il negativo sottratto. Non gli venne in mente che Laura avesse potuto

avere un altro motivo per cercarlo. Aveva uno sguardo così diretto, occhi

sgranati talmente vacui, una fronte così pura e arrotondata, che pochi l'a-

vrebbero sospettata di doppiezza).

Sulle prime Elwood trovò ben poco da notare. Dovette osservare Laura

la domenica mattina, mentre camminava lungo la via principale in direzio-

ne della chiesa, dove insegnava alla scuola domenicale ai bambini di cin-

que anni. Tre altre mattine alla settimana aiutava alla mensa gratuita dei

poveri della Chiesa Unita, che era stata allestita accanto alla stazione fer-

roviaria. La sua missione consisteva nel servire scodelle di zuppa di cavolo

a uomini e a ragazzi sporchi e affamati che vivevano di espedienti: uno

sforzo onorevole, ma che non tutti in città vedevano di buon occhio. Ad

alcuni sembrava che queste persone fossero cospiratori, sovversivi, o peg-

gio ancora, comunisti; ad altri che non era giusto offrire pasti gratuiti, dal

momento che loro dovevano guadagnarsi ogni boccone. Si sentiva gridare:

«Andate a lavorare». (Gli insulti si levavano da entrambe le parti, sebbene

quelli dei disoccupati fossero detti a voce più bassa. Naturalmente ce l'a-

vevano con Laura e con tutti i benefattori bigotti come lei. Naturalmente

sapevano come rendere noti i loro sentimenti. Una battuta, un sogghigno,

una gomitata, un furtivo sguardo accigliato. Non c'è niente di più gravoso

della gratitudine imposta).

La polizia locale si teneva pronta, per assicurarsi che a questi uomini

non saltassero in testa strane idee, fin tanto che rimanevano a Port Ticon-

deroga. Avrebbero dovuto essere mandati via, spediti da qualche altra par-

te. Ma non erano autorizzati a salire sui carri merci perché la compagnia

ferroviaria non lo avrebbe tollerato. Ci furono zuffe e scazzottate e - come

scrisse Elwood Murray nero su bianco - si fece un largo uso di manganelli.

Perciò questi uomini si trascinavano lungo le rotaie e cercavano di salta-

re sui treni fuori della stazione, ma questo era più difficile perché a quel

punto i convogli avevano acquistato velocità. Ci furono parecchi incidenti,

e un morto - un ragazzo che non avrà avuto più di sedici anni cadde sotto

le ruote e fu letteralmente tagliato in due. (Dopo questo episodio Laura si

chiuse nella sua stanza per tre giorni e non volle mangiare niente: aveva

servito una scodella di zuppa al ragazzo). Elwood Murray scrisse un edito-

riale in cui giudicava l'incidente deplorevole, negando comunque che fosse

colpa delle ferrovie e tanto meno della città: se si corrono rischi sconside-

rati, cosa ci si può aspettare?

Laura chiedeva a Reenie gli ossi per la zuppa della chiesa. Reenie diceva

che lei non era fatta di ossi: gli ossi non crescevano sugli alberi. La mag-

gior parte degli ossi le servivano per sé - per Avilion, per noi. Diceva che

un penny risparmiato era un penny guadagnato, e non vedeva Laura che in

quei tempi duri nostro padre aveva bisogno di tutti i penny che poteva ri-

mediare? Tuttavia non riusciva a resistere a Laura troppo a lungo, e un os-

so o due saltavano fuori. Laura non voleva toccarli e neppure vederli - da

questo punto di vista era schizzinosa - perciò Reenie glieli incartava. «Ec-

co qui. Quei fannulloni mangeranno noi e tutta la casa» sospirava. «Ci ho

messo una cipolla». Non pensava che Laura dovesse lavorare alla mensa

gratuita dei poveri - era troppo rozzo per una ragazzina come lei.

«Non è giusto chiamarli fannulloni» diceva Laura. «Li cacciamo tutti

via. Vogliono solo lavorare. Tutto quello che vogliono è un lavoro».

«Sarà» faceva Reenie con voce scettica, esasperante. A me, in privato,

diceva: «È il ritratto sputato di sua madre».

Io non andavo alla mensa dei poveri con Laura. Non me lo chiedeva, e

in ogni caso non ne avrei avuto il tempo: mio padre ora si era messo in te-

sta che dovevo imparare tutti i segreti della produzione dei bottoni, com'e-

ra mio dovere. Faute de mieux, toccava a me essere il figlio nella Chase &

Figli, e se mai un giorno mi fosse capitato di mandare avanti la baracca,

dovevo fare la gavetta.

Sapevo di non essere affatto portata per gli affari, ma ero troppo intimo-

rita per obiettare. Accompagnavo mio padre in fabbrica tutte le mattine. In

questo modo (diceva) mi sarei resa conto di come andavano le cose nel

mondo reale. Se fossi stata un ragazzo, mi avrebbe fatto cominciare a lavo-

rare alla catena di montaggio, per analogia con la consuetudine militare se-

condo cui un ufficiale non dovrebbe aspettarsi che i suoi uomini svolgano

nessun compito che lui stesso non potrebbe svolgere. Visto come stavano

le cose, mi mise a stilare l'inventario e a fare il bilancio contabile delle ri-

messe - i materiali grezzi dentro, il prodotto finito fuori.

Ero una frana, più o meno intenzionalmente. Ero annoiata, e anche inti-

midita. Quando arrivavo in fabbrica tutte le mattine con le mie gonne e le

mie camicette da educanda, camminando alle calcagna di mio padre come

un cane, dovevo passare davanti alle file degli operai. Mi sentivo disprez-

zata dalle donne e fissata dagli uomini. Sapevo che mi facevano battute al-

le spalle - battute che avevano a che fare con la mia condotta (le donne) e

con il mio corpo (gli uomini), e che quello era il loro modo di prendersi la

rivincita. Sotto alcuni punti di vista non li biasimavo - al loro posto avrei

fatto lo stesso -, ma ciò nonostante mi sentivo offesa da loro.

La-di-da. Si crede la regina diSaba.

Una buona scopata la farebbe scendere dal piedistallo.

Mio padre non notò niente di tutto ciò. O preferì non farlo.

Un pomeriggio Elwood Murray arrivò alla porta sul retro da Reenie con

il petto gonfio e l'aria grave di chi porta brutte notizie. Io stavo aiutando

Reenie a fare le conserve: era settembre inoltrato, e stavamo mettendo nei

vasetti gli ultimi pomodori del giardino davanti alla cucina. Reenie era

sempre stata parsimoniosa, ma in quel periodo per lei sprecare era un pec-

cato. Doveva essersi resa conto di quanto stesse diventando sottile il filo -

il filo dei dollari in sovrappiù che la tenevano legata al suo lavoro.

C'era qualcosa che avremmo dovuto sapere, disse Elwood Murray, per il

nostro bene. Reenie gli lanciò un'occhiata, a lui e al suo atteggiamento da

pallone gonfiato, valutando la gravità delle sue notizie, e le giudicò abba-

stanza serie da invitarlo a entrare. Gli offrì perfino una tazza di tè. Poi gli

chiese di aspettare finché non avesse tolto gli ultimi vasetti dall'acqua bol-

lente con le molle e vi avesse avvitato i coperchi. Quindi si sedette.

Ecco la notizia. La signorina Laura Chase era stata vista in giro per la

città - disse Elwood - in compagnia di un giovanotto, lo stesso giovanotto

con cui era stata fotografata al picnic della fabbrica di bottoni. Erano stati

notati prima dalle parti della mensa dei poveri; poi, più tardi, seduti su una

panchina - su più di una panchina - a fumare sigarette. O forse era l'uomo a

fumare; quanto a Laura, non poteva giurarci, disse, serrando le labbra. E-

rano stati visti nei pressi del Monumento ai Caduti accanto al Municipio, e

che si sporgevano dal parapetto del Jubilee Bridge per guardare le rapide -

un luogo tradizionale per il corteggiamento. Pare fossero stati notati perfi-

no dalle parti dei Campeggi, il che era un segno quasi certo di comporta-

mento equivoco, o di preludio a esso - sebbene non potesse affermarlo con

certezza, perché non l'aveva visto con i propri occhi.

Comunque, pensava che avremmo dovuto esserne informate. L'uomo era

un adulto, e la signorina Laura non aveva solo quattordici anni? Che ver-

gogna, approfittarsi così di lei. Si appoggiò allo schienale della sedia,

scuotendo la testa desolato, come una marmotta, gli occhi scintillanti di

piacere malizioso.

Reenie era furiosa. Odiava chiunque la superasse in materia di pettego-

lezzi. «Le siamo grati per averci informato» disse con educazione sussie-

gosa. «Meglio estirpare subito la malapianta». Questo era il suo modo di

difendere l'onore di Laura: ancora non era successo niente che non potesse

essere prevenuto.

«Che ti avevo detto?» disse Reenie dopo che se ne fu andato. «È senza

vergogna». Non intendeva Elwood, naturalmente, ma Alex Thomas.

Quando venne affrontata, Laura non negò nulla se non di essere stata vi-

sta ai Campeggi. Le panchine e tutto il resto - sì, ci si era seduta, anche se

non molto a lungo. Né riusciva a capire perché Reenie facesse tutto quel

chiasso. Alex Thomas non era un innamorato da due soldi (espressione u-

sata da Reenie). E non era neanche un cascamorto (altra espressione sua).

Negò di evere fumato anche solo una sigaretta in vita sua. Quanto al-

l'«amoreggiare» - altro termine di Reenie - pensava che fosse disgustoso.

Cosa aveva fatto per provocare sospetti così meschini? Evidentemente non

lo sapeva.

Essere Laura, pensai, era come non avere orecchio musicale: la musica

suonava e tu sentivi qualcosa, ma non quello che sentivano tutti gli altri.

Secondo Laura, in tutte quelle occasioni - e ce n'erano state solo tre - lei

e Alex Thomas erano stati impegnati in discussioni serie. Su cosa? Su Dio.

Alex Thomas aveva perso la fede, e Laura stava cercando di aiutarlo a ri-

guadagnarla. Era un lavoro duro perché lui era molto cinico, o forse scetti-

co era quello che intendeva. Pensava che l'età moderna sarebbe stata un'età

di questo mondo piuttosto che del futuro - sarebbe stata un'età dell'uomo,

dell'umanità - e ne era entusiasta. Affermava di non avere un'anima, e di-

ceva che non gli importava un fico di cosa sarebbe potuto succedergli dopo

la morte. Eppure, lei era intenzionata a continuare a provare, per quanto

quel compito potesse sembrare arduo.

Tossii nella mano. Non osavo ridere. Avevo visto abbastanza spesso

Laura usare quell'espressione da santarellina con il signor Erskine, e pen-

savo che era quello che stava facendo adesso: gettare fumo negli occhi.

Reenie, le mani sui fianchi, la bocca spalancata, sembrava una vecchia gal-

lina con le spalle al muro.

«Perché è ancora in città, vorrei sapere» disse Reenie, confusa, cam-

biando discorso. «Pensavo che fosse solo in visita».

«Oh, ha degli affari da sbrigare qui» rispose Laura in tono mite. «Ma

può stare dove vuole. Non è uno stato schiavista, questo. Tranne che per

gli schiavi salariati, naturalmente». Pensai che il tentativo di conversione

non era stato a senso unico: Alex Thomas si era dato da fare anche lui. Se

le cose continuavano a quel modo, ci saremmo ritrovati tra le mani una

piccola bolscevica.

«Non è troppo vecchio?» chiesi.

Laura mi lanciò uno sguardo inferocito - troppo vecchio per cosa? -, dif-

fidandomi dall'immischiarmi. «L'anima non ha età» disse.

«La gente parla» disse Reenie: era sempre il suo argomento decisivo.

«Sono affari loro» ribatté Laura. Aveva un tono di fiera irritazione: gli

altri erano la croce che doveva portare.

Reenie e io eravamo entrambe senza argomenti. Che fare? Avremmo po-

tuto dirlo a mio padre, che in quel caso magari avrebbe proibito a Laura di

vedere Alex Thomas. Ma lei non sarebbe stata disposta a obbedire, non

quando c'era un anima in gioco. Dirlo a mio padre avrebbe provocato più

guai di quanto non valesse la pena, stabilimmo; e dopotutto, cos'era suc-

cesso veramente? Nulla di tangibile. (Reenie e io ormai ci confidavamo

sull'argomento; avevamo unito i nostri sforzi).

Via via che i giorni passavano sentivo che Laura si stava prendendo gio-

co di me, sebbene non potessi precisare in che modo con esattezza. Non

pensavo che mentisse nel vero senso della parola, ma non diceva neanche

tutta la verità. Una volta la vidi in compagnia di Alex Thomas, mentre par-

lavano fitto fitto passeggiando davanti al Monumento ai Caduti; una volta

sul Jubilee Bridge, una volta mentre oziava con lui fuori del Betty's Lun-

cheonette, ignara delle teste che si giravano, inclusa la mia. Era pura ri-

bellione.

«Devi farla ragionare» mi diceva Reenie. Ma non potevo farla ragionare.

Sempre più spesso non riuscivo neppure a parlarle; oppure ci riuscivo, ma

lei ascoltava? Era come parlare a un foglio di carta assorbente bianca: le

parole uscivano dalla mia bocca e scomparivano dietro il suo viso come se

penetrassero nel muro di una nevicata.

Quando non passavo il mio tempo alla fabbrica di bottoni - una pratica

che appariva ogni giorno più inutile, perfino a mio padre - cominciai a gi-

ronzolare anch'io. Camminavo lungo la riva del fiume cercando di fingere

di avere una meta, oppure stavo sul Jubilee Bridge come se aspettassi qual-

cuno, guardando l'acqua nera là sotto e ricordando le storie di donne che vi

si erano gettate. Lo avevano fatto per amore, perché era quello l'effetto del-

l'amore. Ti arrivava alle spalle di soppiatto, si impadroniva di te prima che

potessi accorgertene, e poi non c'era più niente da fare. Una volta che lo eri

- innamorata -, saresti stata spazzata via malgrado tutto. O almeno così di-

cevano i libri.

Oppure camminavo da sola lungo la strada principale, facendo seriamen-

te attenzione a cosa c'era nelle vetrine - calze e scarpe, cappelli e guanti,

cacciaviti e chiavi. Studiavo i manifesti delle stelle del cinema nelle ba-

cheche di vetro del Bijou Theatre e le confrontavo con il mio aspetto reale,

o con il mio possibile aspetto se mi fossi pettinata in modo che i capelli mi

ricadessero su un occhio e avessi avuto i vestiti giusti. Non avevo il per-

messo di entrare; non sono entrata in un cinema finché non mi sono sposa-

ta, perché Reenie diceva che andare al Bijou era squalificante, in ogni caso

per le ragazze giovani non accompagnate. Gli uomini andavano là in cerca

di preda, uomini dalle menti sporche. Ti si sedevano accanto e ti appicci-

cavano le mani addosso come carta moschicida, e prima che te ne accor-

gessi ti montavano sopra.

Nelle descrizioni di Reenie la ragazza o la donna era un corpo inerte, ma

con molti appigli, come una di quelle strutture in legno su cui si arrampi-

cano i bambini. Era magicamente privata della facoltà di gridare o di muo-

versi. Era paralizzata - dallo choc, o dall'oltraggio, o dalla vergogna. Non

aveva alcuna risorsa.

La cantina fredda

Freddo pungente; alte nuvole portate dal vento. Fasci di granturco secca-

to sono apparsi sui portoni più belli; nelle verande le zucche di Halloween

hanno cominciato le loro veglie ghignanti. Tra una settimana a partire da

adesso i bambini in cerca di dolci si riverseranno nelle strade, travestiti da

ballerine e zombie e alieni e scheletri e indovini gitani e rockstar morte, e

come al solito io spegnerò le luci e fingerò di non essere in casa. Non è ve-

ra e propria antipatia nei loro confronti, quanto autodifesa - se qualcuno

dei marmocchi dovesse sparire, non voglio essere accusata di averlo ade-

scato e mangiato.

L'ho detto a Myra, che sta facendo un vivace smercio di tozze candele

arancioni e gatti di ceramica nera e pipistrelli di rasatello, nonché di stre-

ghe ornamentali di stoffa imbottita con le teste fatte con mele essiccate. Si

è messa a ridere. Pensava che stessi scherzando.

Ieri ho trascorso una giornata indolente - il cuore mi ha fatto penare, ho

potuto a malapena spostarmi dal divano -, ma questa mattina, dopo avere

preso la mia pillola, mi sono sentita stranamente energica. Ho camminato

in modo piuttosto arzillo fino al negozio di ciambelle. Là ho ispezionato il

muro del bagno, sul quale l'ultimo arrivo è: Se non puoi dire niente di bel-

lo, non dire niente, seguito da: Se non puoi succhiare niente di bello, non

succhiare niente. È bello sapere che la libertà di parola è ancora in pieno

rigoglio in questo paese.

Poi ho preso un caffè e una ciambella con la glassa di cioccolato e li ho

portati fuori, a una delle panche fornite dal locale, collocata in maniera

pratica accanto al bidone dei rifiuti. Mi sono seduta là al sole ancora tiepi-

do, scaldandomi come una tartaruga. La gente passeggiava lì intorno - due

donne ipernutrite con una carrozzina, un ragazzo, una donna più magra con

un cappotto di cuoio nero con sopra borchie d'argento come teste di chiodi

e un'altra nel naso, tre uomini anziani in giacca a vento. Ho avuto l'impres-

sione che mi stessero osservando. Sono ancora così famigerata, o la mia è

solo paranoia? O forse avevo soltanto parlato tra me e me ad alta voce.

Difficile dirlo. La voce mi sgorga semplicemente fuori come aria, quando

non faccio attenzione? Un sussurro raggrinzito, i rampicanti invernali che

frusciano, il sibilo del vento autunnale tra l'erba secca.

A chi importa cosa pensa la gente, mi sono detta. Se vogliono ascoltare,

sono i benvenuti.

A chi importa, a chi importa. L'eterna risposta degli adolescenti. A me

importava, naturalmente. Mi importava cosa pensava la gente. Me ne è

sempre importato. Al contrario di Laura, non ho mai avuto il coraggio del-

le mie convinzioni.

Mi si è avvicinato un cane; gli ho dato metà della ciambella. «Buon pro

ti faccia» gli ho detto. È quello che diceva Reenie quando ti sorprendeva a

origliare.

Per tutto ottobre - l'ottobre del 1934 - si andò avanti a parlare di cosa

stava succedendo alla fabbrica di bottoni. Si diceva che sobillatori venuti

da fuori ciondolavano lì intorno; agitavano le acque, soprattutto tra le gio-

vani teste calde. Si parlava di guadagni collettivi, di diritti dei lavoratori, di

sindacati. I sindacati erano sicuramente illegali, o lo erano piuttosto le im-

prese che assumevano soltanto lavoratori iscritti a un particolare sindaca-

to? Sembrava che nessuno lo sapesse bene. In ogni caso le organizzazioni

dei lavoratori erano circondate da un odore di zolfo.

Le persone che agitavano le acque erano mascalzoni e criminali prezzo-

lati (secondo la signora Hillcoate). Non erano soltanto agitatori esterni, ma

agitatori esterni stranieri, il che faceva in un certo senso più paura. Ometti

scuri con i baffi, che avevano messo la loro firma col sangue e giurato leal-

tà fino alla morte, e che avrebbero fatto scoppiare disordini e non si sareb-

bero fermati davanti a niente, e avrebbero piazzato bombe e di notte sareb-

bero scivolati nelle nostre case per tagliarci la gola nel sonno (secondo Re-

enie). Erano questi i loro metodi, di questi spietati bolscevichi o organiz-

zatori sindacali, che in fondo non si distinguevano l'uno dall'altro (secondo

Elwood Murray). Volevano il libero amore, e la distruzione della famiglia,

e la morte per mano di plotoni di esecuzione di chiunque avesse del denaro

- non importa quanto -, o un orologio, o una fede. Come era stato fatto in

Russia. Così si diceva.

Si diceva anche che le fabbriche di mio padre fossero nei guai.

Entrambe le voci - gli agitatori esterni e i guai - venivano smentite pub-

blicamente. Si dava fede a entrambe.

A settembre mio padre aveva lasciato a casa alcuni dei suoi operai - al-

cuni dei più giovani, più capaci di cavarsela, secondo le sue teorie - e ave-

va chiesto ai rimanenti di accettare orari più brevi. Non si facevano abba-

stanza affari, aveva spiegato, per far marciare tutte le fabbriche nella piena

capacità produttiva. I clienti non compravano bottoni, o non il tipo di bot-

toni prodotti dalla Chase & Figli, che per avere profitti doveva poter conta-

re su commissioni ingenti. E non compravano neppure gli indumenti intimi

a buon mercato, pratici: preferivano rammendarli, si arrangiavano. Non

tutti nel paese erano senza lavoro, naturalmente, ma chi aveva un posto

non era troppo sicuro di riuscire a tenerselo stretto. Naturalmente preferi-

vano mettere da parte il denaro piuttosto che spenderlo. Non si poteva bia-

simarli. Al loro posto chiunque avrebbe fatto lo stesso.

Era entrata in scena l'aritmetica, con tutte le sue gambe, le sue schiene e

teste, i suoi occhi spietati fatti di zeri. Due più due facevano quattro, era il

suo messaggio. Ma cosa succedeva se non avevi il due più due? In quel ca-

so i conti non sarebbero tornati. E infatti non tornavano, non ci riuscivo;

non riuscivo a far diventare neri i numeri rossi sui libri contabili. Questo

mi preoccupava terribilmente; era come se fosse una mia colpa personale.

Quando chiudevo gli occhi di notte vedevo i numeri sulla pagina davanti a

me, disposti in file sulla mia scrivania quadrata di quercia alla fabbrica di

bottoni - quelle file di numeri rossi come tanti millepiedi meccanici, che

divoravano quanto rimaneva del denaro. Quando la somma a cui riuscivi a

vendere una cosa era inferiore a quanto ti era costata - che era quanto suc-

cedeva alla Chase & Figli da qualche tempo - è così che si comportavano i

numeri. Si comportavano male - senza amore, senza giustizia, senza pietà -


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