Margaret atwood



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questo punto si ferma e abbassa lo sguardo, come se qualcosa le si fosse

impigliato nella scarpa. Guarda giù, poi alle sue spalle. Non c'è nessuno

che cammini dietro di lei, nessuna macchina che proceda lentamente. Una

donna robusta che sale faticosamente dei gradini d'ingresso, una borsa a re-

te in ciascuna mano, come zavorra; due ragazzi con i vestiti rattoppati che

inseguono un cane sporco lungo il marciapiede. Neanche un uomo, a parte

tre vecchi avvoltoi da veranda piegati su un giornale che si dividono.

Quindi si gira e ritorna sui suoi passi, e quando arriva all'Excelsior si in-

fila rapida nel vicolo adiacente e si affretta, sforzandosi di non correre.

L'asfalto è irregolare, i suoi tacchi troppo alti. Questo è il luogo sbagliato

per storcersi una caviglia. Si sente più esposta adesso, al centro dell'atten-

zione, sebbene non vi siano finestre. Il cuore le batte forte, le gambe sono

molli, di seta. Il panico si è impossessato di lei, perché?

Lui non ci sarà, dice una voce sommessa nella sua testa; una sommessa

voce angosciata, una triste voce che ricorda il tubare di una tortora lamen-

tosa. È andato via. È stato portato via. Non lo rivedrai mai più. Mai. Si

mette quasi a piangere.

Sciocca, a spaventarsi a quel modo. Ma in questo c'è comunque una par-

te di vero. Potrebbe sparire più facilmente di lei: lei ha un indirizzo fisso,

lui saprebbe sempre dove trovarla.

Si ferma, alza il polso, aspira l'odore rassicurante della pelliccia profu-

mata. C'è una porta metallica verso il retro, una porta di servizio. Bussa

leggermente.

L'assassino cieco: Il custode

La porta si apre, lui c'è. Non ha tempo di provare riconoscenza prima

che la tiri dentro. Sono su un pianerottolo; scale di servizio. Niente luce

tranne quella che penetra da una finestra, da qualche parte in alto. La ba-

cia, con le mani su ciascun lato del suo viso. La carta vetrata del collo di

lui. Sta tremando, ma non di eccitazione, o non solo.

Lei si allontana. Sembri un bandito. Non ha mai visto un bandito; pensa

a quelli delle opere. I contrabbandieri, in Carmen. Quando si va giù pesan-

te con i tappi di sughero bruciati.

Scusa, dice lui. Ho dovuto levare le tende in fretta. Poteva essere un fal-

so allarme, ma sono stato costretto a rinunciare a un paio di cose.

Come un rasoio?

Tra l'altro. Vieni - è quaggiù.

Le scale sono strette: legno non dipinto, assi di cinque centimetri per

dieci come ringhiera. In fondo, un pavimento di cemento. L'odore della

polvere di carbone, un penetrante odore di sotterraneo, come le pietre umi-

de di una cantina.

È qui dentro. La stanza del custode.

Ma tu non sei il custode, dice lei, con una breve risata. O no?

Ora lo sono. O almeno è quanto pensa il padrone. È passato un paio di

volte, la mattina presto, ad assicurarsi che avessi alimentato la caldaia, ma

senza esagerare. Non vuole affittuari troppo caldi, costano troppo; tiepidi è

sufficiente. Non è granché come letto.

È un letto, dice lei. Chiudi la porta a chiave.

Non si chiude, fa lui.

C'è una piccola finestra con delle sbarre; i resti di una tenda. Attraverso

di essa penetra una luce color ruggine. Hanno appoggiato una sedia contro

il pomello della porta, una sedia con molte traverse mancanti, quasi ridotta

a pezzi. Non è una gran barriera. Sono sotto l'unica coperta ammuffita, con

i loro cappotti ammucchiati sopra. Al lenzuolo meglio non pensare. Lei

può sentire le sue costole, seguire con la mano gli spazi tra l'una e l'altra.

Cosa mangi?

Non mi seccare.

Sei troppo magro. Potrei portare qualcosa, del cibo.

Ma tu non sei molto affidabile, vero? Potrei morire di fame nell'attesa

che ti faccia viva. Non preoccuparti, sarò fuori di qui abbastanza presto.

Da dove? Vuoi dire da questa stanza, o dalla città, o...

Non lo so. Non tormentarmi.

Sono interessata, ecco tutto. Mi riguarda, voglio...

Falla finita.

E va bene, dice lei, sarà meglio tornare a Zycron. A meno che non vuoi

che me ne vada.

No. Rimani ancora un po'. Scusa, ma sono stato sotto pressione. Dov'e-

ravamo? Ho dimenticato.

Lui stava decidendo se tagliarle la gola o amarla per sempre.

Giusto. Già. Le solite scelte.

Sta decidendo se tagliarle la gola o amarla per sempre, quando - con l'u-

dito sensibile accordatogli dalla cecità - percepisce un rumore metallico,

qualcosa che stride, raschia. Gli anelli di una catena che si sfregano, dei

ceppi in movimento. Si avvicina lungo il corridoio. Lui sa già che il Signo-

re dell'Oltretomba non ha ancora fatto la visita per cui ha già pagato: lo ha

capito dallo stato in cui era la ragazza. Intatto, si potrebbe dire.

Che fare adesso? Potrebbe scivolare dietro la porta o sotto il letto, ab-

bandonarla al suo destino, quindi riapparire e finire il lavoro per cui è stato

pagato. Ma in quella situazione è restio ad agire a quel modo. Allora po-

trebbe aspettare finché le cose sono a buon punto e il cortigiano è sordo al

mondo esterno, e scivolare fuori della porta; ma poi, l'onore degli assassini

come gruppo - come corporazione, se vuoi - sarebbe macchiato.

Prende la fanciulla per il braccio e, mettendole la sua stessa mano sulla

bocca, le segnala la necessità di fare silenzio. Poi la conduce lontano dal

letto e la nasconde dietro la porta. Controlla che questa non sia chiusa a

chiave, com'era stabilito. L'uomo non si aspetta una sentinella: nel suo pat-

to con la Somma Sacerdotessa ha specificato di non volere testimoni. La

sentinella del tempio doveva tagliare la corda non appena l'avesse sentito

arrivare.

L'assassino cieco tira fuori la sentinella morta da sotto il letto e la siste-

ma sul copriletto, nascondendole lo squarcio alla gola con la sua sciarpa.

Non è ancora fredda, e ha smesso di sanguinare. Saranno guai se l'amico

ha una candela accesa; altrimenti, di notte tutti i gatti sono grigi. Le vergini

del tempio sono ammaestrate a mostrarsi inerti. All'uomo potrebbe occor-

rere qualche tempo - impedito com'è dal suo pesante costume da dio, che

tradizionalmente comprende un elmo e una visiera - per scoprire che sta

scopando la donna sbagliata, e per di più morta.

L'assassino cieco tira le tende del letto di broccato, chiudendole quasi

completamente. Poi raggiunge la fanciulla, e tutte e due si schiacciano

quanto più possibile contro la parete.

La pesante porta si apre con un cigolio. La fanciulla vede un bagliore

avanzare sul pavimento. Il Signore dell'Oltretomba non ci vede molto be-

ne, evidentemente; va a sbattere contro qualcosa, impreca. Ora sta armeg-

giando con i tendaggi del letto. Dove sei, bellezza? sta dicendo. Non si

stupirà certo non sentendola rispondere, scoprendola muta, proprio come

dev'essere.

L'assassino cieco esce lentamente da dietro la porta, e la fanciulla con

lui. Come togliermi questa dannata roba di dosso? borbotta tra sé e sé il

Signore dell'Oltretomba. Loro due scivolano oltre la porta, poi nel corri-

doio, mano nella mano, come bambini che scappino dagli adulti.

Alle loro spalle risuona un urlo, di rabbia od orrore. Una mano sul muro,

l'assassino cieco comincia a correre. Passando tira fuori le torce dai loro

sostegni, le scaglia dietro di sé, sperando che si spengano.

Conosce il Tempio come le sue tasche, al tatto e all'odorato; è il suo la-

voro conoscere certe cose. Allo stesso modo conosce la città, può corrervi

come un topo in un labirinto: ne conosce i passaggi, i tunnel, i rifugi e i vi-

coli ciechi, gli architravi, i canali di scolo e le grondaie - perfino le parole

d'ordine, il più delle volte. Sa quali muri può scalare, dove si trova ogni

appiglio. Ora spinge un pannello di marmo - c'è sopra un bassorilievo del

Dio Infranto, patrono dei fuggiaschi - e si ritrovano al buio. Lo sa dal mo-

do in cui la ragazza incespica, e per la prima volta gli viene in mente che

portandola con sé sarà rallentato. Sarà ostacolato dalla sua capacità di ve-

dere.

Dall'altra parte del muro si muovono passi pesanti. Lui sussurra: Tieniti



alla mia veste, aggiungendo, inutilmente: Non dire una parola. Sono nella

rete di tunnel nascosti che permette alla Somma Sacerdotessa e ai suoi

scagnozzi di avere notizia di tanti preziosi segreti da coloro che vengono al

Tempio per incontrarsi o per confessarsi alla Dea o per pregare, ma devono

uscirne al più presto. In fin dei conti, è il primo posto in cui la Somma Sa-

cerdotessa penserà di cercare. Né può farli uscire da lì attraverso la pietra

allentata nel muro esterno da cui è entrato all'andata. Il falso Signore del-

l'Oltretomba può esserne a conoscenza, avendo preso accordi per il delitto

e specificato l'ora e il luogo, e ormai deve avere indovinato che a tradire è

stato l'assassino cieco.

Attutito dalle spesse pietre, risuona un gong di bronzo. Lo sente attra-

verso i piedi.

Conduce la fanciulla di muro in muro, poi giù lungo una scala ripida e

stretta. Lei piagnucola per la paura: avere la lingua tagliata non ha arrestato

la sua capacità di piangere. Peccato, pensa lui. Trova a tastoni la fogna in

disuso che è lì, lo sa, ce la fa salire offrendole le mani come staffa, quindi

si issa accanto a lei. D'ora in avanti dovranno strisciare. L'odore non è pia-

cevole, ma è un odore vecchio. Effluvio umano raggrumato, ridotto in pol-

vere.

Ora c'è aria fresca. La sente mentre annusa per controllare se c'è odore di



fumo di torce.

Ci sono stelle? le chiede. Lei annuisce. Dunque non ci sono nuvole. Pec-

cato. Un paio delle cinque lune devono risplendere - lo sa dal periodo del

mese - e altre tre seguiranno tra breve. Loro due saranno chiaramente visi-

bili per il resto della notte, e alla luce del giorno diverranno incandescenti.

Il Tempio non vorrà che la storia della loro fuga diventi di pubblico do-

minio - significherebbe perdere la faccia, e inoltre potrebbero seguire delle

rivolte. Un'altra fanciulla sarà scelta per il sacrificio: con i veli chi se ne

accorgerà? Ma molti li inseguiranno, di nascosto ma implacabilmente.

Può trovare un nascondiglio, ma prima o poi dovrebbero uscirne per

procurarsi cibo e acqua. Da solo avrebbe potuto farcela, ma non in due.

Potrebbe sempre buttarla in un fosso. O pugnalarla, gettarla in un pozzo.

No, non può.

C'è sempre il covo degli assassini. È dove tutti loro vanno quando non

lavorano, a scambiare due chiacchiere, a dividersi il bottino e a vantarsi

delle loro imprese. È nascosto audacemente proprio sotto la stanza dei giu-

dizi del palazzo principale, un profondo sotterraneo cosparso di tappeti - i

tappeti che gli assassini furono costretti a tessere da bambini e che poi

hanno rubato. Li riconoscono al tatto e spesso ci siedono sopra, fumando

l'erbaccia fring che induce al sogno e passando le dita sui disegni, sui colo-

ri sgargianti, ricordando com'erano quei colori quando ancora ci vedevano.

Ma solo gli assassini ciechi hanno il permesso di entrare nel sotterraneo.

Formano una società chiusa, nella quale gli estranei sono introdotti soltan-

to sotto forma di bottino. Inoltre, lui ha tradito la sua professione salvando

la vita a qualcuno che era stato pagato per uccidere. Sono professionisti,

gli assassini; si vantano di portare a termine i loro contratti, non sopporta-

no violazioni al loro codice di comportamento. Lo ucciderebbero senza

pietà, e anche lei, dopo un po'.

Uno dei suoi compagni potrebbe benissimo venire ingaggiato per rin-

tracciarli. Contro un furbo ci vuole un furbo e mezzo. Poi, presto o tardi,

saranno condannati. Basterà il profumo di lei a tradirli - l'hanno profumata

da capo a piedi.

Dovrà portarla fuori da Sakiel-Norn - fuori della città, fuori del territorio

conosciuto. È pericoloso, ma non tanto quanto restare. Forse riuscirà a

scendere giù al porto, quindi a salire a bordo di una nave. Ma come varcare

di nascosto le porte? Tutte e otto sono serrate e sorvegliate, come sempre

la notte. Da solo, potrebbe scalare le mura - ha le dita delle mani e dei pie-

di capaci di fare presa come quelle di un geco -, ma con lei sarebbe una ca-

tastrofe.

C'è un'altra via. Rimanendo in ascolto a ogni passo, la conduce giù, ver-

so la parte della città più vicina al mare. Le acque di tutte le sorgenti e le

fontane di Sakiel-Norn vengono raccolte in un canale, e questo canale si

riversa sotto le mura della città, attraverso un tunnel ad arco. L'acqua è più

alta della testa di un uomo e la corrente veloce, perciò nessuno prova mai a

entrare in città per quella via. Ma a uscirne?

L'acqua che scorre attenuerà l'odore.

Lui sa nuotare. È una delle cose che gli assassini hanno cura di imparare.

Presume giustamente che lei non ne sia capace. Le dice di togliersi tutti i

vestiti e di farne un fagotto. Quindi si libera della veste del Tempio e lega i

suoi abiti al fagotto di lei. Si annoda la veste attorno alle spalle, poi attorno

ai polsi della fanciulla, le dice che se i nodi si sciolgono non dovrà comun-

que staccarsi da lui, qualunque cosa accada. Quando raggiungeranno il

passaggio ad arco, dovrà trattenere il respiro.

Gli uccelli nyerk si stanno svegliando; ne sente i primi gracidii; presto

sarà giorno. Tre strade più in là si sta avvicinando qualcuno, con passo de-

ciso, prudente, come se stesse cercando qualcosa. L'assassino cieco in par-

te guida, in parte spinge la ragazza nell'acqua fredda. Lei annaspa, ma fa

come le è stato detto. Si fanno trascinare dalle acque; lui cerca la corrente

principale, tende l'orecchio per cogliere il rumore dell'impeto e del gorgo-

glio dell'acqua dove questa entra nel passaggio ad arco. Troppo presto e

rimarranno senza fiato, troppo tardi e lui si spaccherà la testa contro la pie-

tra. Poi si tuffa sott'acqua.

L'acqua è indistinta, non ha forma, puoi infilarci la mano; eppure può

ucciderti. La forza di una simile cosa è la velocità, la traiettoria. Con cosa

va a urtare e quanto velocemente. Lo stesso potrebbe dirsi... ma non im-

porta.


C'è un lungo tragitto angoscioso. Pensa che gli scoppieranno i polmoni,

che le braccia gli cederanno. La sente trascinarsi dietro di lui, si chiede se

sia annegata. Almeno la corrente è con loro. Struscia contro la parete del

tunnel; qualcosa si lacera. Stoffa o carne?

Una volta oltre il passaggio ad arco tornano in superficie; lei tossisce, lui

ride piano. Le tiene la testa sopra l'acqua, stando sul dorso; in questo modo

percorrono galleggiando un tratto del canale. Quando giudica che si trovi-

no abbastanza lontano e abbastanza al sicuro, si dirige verso terra e la issa

sulla riva sassosa in pendenza. Cerca a tastoni l'ombra di un albero. È e-

sausto, ma anche inebriato, pieno di una strana felicità dolente. L'ha salva-

ta. Ha dispensato pietà per la prima volta nella sua vita. Chissà cosa può

derivare da una simile deviazione dal sentiero prescelto?

C'è qualcuno in giro? chiede. Lei si ferma a guardare, scrolla la testa per

dire di no. Qualche animale? Di nuovo no. Appende i loro abiti ai rami

dell'albero; poi, alla luce delle lune color zafferano, eliotropio e magenta

che si va affievolendo, la prende tra le braccia come se fosse seta, affonda

dentro di lei. È fresca come un melone, e leggermente salata, come un pe-

sce fresco.

Giacciono l'una nelle braccia dell'altro, profondamente addormentati,

quando tre spie mandate in avanscoperta dal Popolo della Desolazione per

perlustrare gli accessi alla città inciampano su di loro. Vengono brusca-

mente svegliati, quindi interrogati da quella delle spie che parla la loro lin-

gua, anche se tutt'altro che alla perfezione. Il ragazzo è cieco, dice agli al-

tri, e la ragazza è muta. Le tre spie li guardano meravigliate. Come hanno

fatto ad arrivare fin lì? Non vengono certo dalla città; tutte le porte sono

serrate. È come se fossero caduti dal cielo.

La risposta è ovvia: devono essere messaggeri divini. Viene loro gentil-

mente concesso di rimettersi i vestiti ormai asciutti e di montare insieme

sul cavallo di una delle spie, quindi vengono condotti via per essere pre-

sentati al Servitore della Gioia. Le spie sono enormemente soddisfatte di

sé, e l'assassino cieco ha il buonsenso di non parlare troppo. Ha sentito va-

ghe storie su questa gente e sulle sue curiose credenze riguardo ai messag-

geri divini. Si dice che questi trasmettano i loro messaggi in forme oscure,

e così cerca di ricordarsi tutti gli indovinelli, i paradossi e gli enigmi che

conosce: La via che scende è la via che sale. Cos'è che va su quattro gambe

all'alba, su due a mezzogiorno e su tre la sera? Dal divoratore è uscito il

cibo e dal forte è uscito il dolce. Cos'è bianco e nero e tutto coperto di ros-

so?


Questo non può essere zycroniano, non avevano i giornali.

Aggiudicato. Come non detto. Che ne pensi di: È più forte di Dio, più

cattivo del Diavolo, il povero ce l'ha, al ricco manca e se lo mangi muori?

È nuovo.


Prova a indovinare.

Mi arrendo.

Niente.

Lei ci mette un minuto a capire. Niente. Sì, dice. Dovrebbe andare.



Mentre cavalcano, l'assassino cieco tiene un braccio attorno alla fanciul-

la. Come proteggerla? Ha un'idea, improvvisata e generata dalla dispera-

zione, ma nonostante ciò può funzionare. Affermerà che tutti e due sono

davvero messaggeri divini, ma di tipo differente. È lui che riceve i mes-

saggi dall'Invincibile, ma solo lei può interpretarli. A tal fine usa le mani,

fa dei segni con le dita. Il metodo per leggere quei segni è stato rivelato so-

lo a lui. Aggiungerà, giusto nel caso che venga loro qualche brutta idea,

che a nessun uomo è concesso di toccare la fanciulla muta in modo scon-

veniente, o di toccarla in generale. Tranne a lui, naturalmente. Altrimenti

lei perderà il suo potere.

È semplice, finché la berranno. Spera che lei sia svelta di comprendonio

e sia capace di improvvisare. Si chiede se conosca qualche segno.

È tutto per oggi, dice lui. Devo aprire la finestra.

Ma fa così freddo.

No, non per me. Questo posto sembra uno sgabuzzino. Sto soffocando.

Gli sente la fronte. Credo che ti stia venendo qualcosa. Potrei andare in

farmacia.

No. Non mi ammalo mai.

Che c'è? Cosa c'è che non va? Sei preoccupato.

Non sono esattamente preoccupato. Non mi preoccupo mai. Ma non mi

fido di quanto sta succedendo. Non mi fido dei miei amici. I miei cosiddet-

ti amici.

Perché? Cosa stanno combinando?

Praticamente nulla, dice lui. È questo il problema.

Mayfair, febbraio 1936

PETTEGOLEZZI SULLA TORONTO CHE CONTA

DI YORK

A metà gennaio si è visto il Royal York Hotel traboccare di



gaudenti in tenute esotiche, in occasione del terzo ballo di benefi-

cenza in costume della stagione, organizzato in sostegno del Bre-

fotrofio Downtown Foundlings. Quest'anno il tema - con una

strizzatina d'occhio allo spettacolare Beaux Arts Bali dello scorso

anno, intitolato «Tamerlano a Samarcanda» - era «Xanadu», e sot-

to l'abile direzione del signor Wallace Wynant le tre lussuose sale

da ballo erano state trasformate in un «grandioso tempio del pia-

cere» di irresistibile splendore, dove Kubla Khan e il suo sfolgo-

rante seguito tenevano un gran ricevimento. Sovrani stranieri da

regni orientali e i loro corteggi - harem, servitori, danzatrici e

schiavi, come pure damigelle con salteri, mercanti, cortigiani, fa-

chiri, soldati di tutti i paesi e mendicanti in quantità - volteggia-

vano allegramente intorno a una fantastica fontana ispirata ad

«Alph, il fiume sacro», tinti di un viola da baccanale da un riflet-

tore sistemato in alto, sotto gli scintillanti festoni di cristallo della

centrale «Grotta di ghiaccio».

Le danze si svolgevano vivaci anche nei due adiacenti pergola-

ti, entrambi carichi di fiori, mentre in ogni sala un'orchestra jazz

continuava a eseguire «la musica e il canto». Non abbiamo sentito

«voci ancestrali profetanti guerra», dal momento che tutto era in

dolce armonia, grazie alla mano decisa della signora Winifred

Griffen Prior, ideatrice del ballo, incantevole nei panni scarlatti e

dorati di principessa del Rajistan. Nel comitato organizzatore era-

no presenti anche la signora Richard Chase Griffen, fanciulla a-

bissina in verde e argento, la signora Oliver MacDonnell, in rosso

cinese, e la signora Hugh N. Hillert, maestosa sultana in magenta.

L'assassino cieco: L'alieno sul ghiaccio

È in un altro posto adesso, ha affittato una stanza vicino alla stazione di

smistamento. È sopra un negozio di ferramenta. In vetrina c'è una misera

mostra di chiavi e cardini. Non va troppo bene; da queste parti nulla va

troppo bene. Il vento trasporta sabbia e fa rotolare sul terreno cartacce

spiegazzate; i marciapiedi sono infidi per il ghiaccio, per la neve ammuc-

chiata che nessuno ha spalato.

A una certa distanza i treni si lamentano e vengono smistati, i loro fischi

si affievoliscono in lontananza. Sempre in partenza. Potrebbe saltare su

uno, ma è un rischio: vengono pattugliati, anche se non si sa mai quando.

Comunque, ora è inchiodato lì - diciamo la verità - a causa di lei; anche se

lei, come i treni, non è mai puntuale ed è sempre in partenza.

La stanza è dopo la seconda rampa, scala di servizio con gomma sui

gradini, gomma consumata a chiazze, ma almeno ha un'entrata indipenden-

te. A meno che non si voglia contare la giovane coppia con un bambino

piccolo dall'altra parte della parete. Usano la stessa scala, ma lui li vede di

rado, si alzano troppo presto. Però li sente a mezzanotte, quando cerca di

lavorare; ci danno dentro come se non ci fosse un domani, con il letto che

cigola come tanti topi. Lo fa impazzire. Si penserebbe che quando il mar-

mocchio si mette a urlare la facciano finita, e invece no, continuano a ga-

loppare. Ma almeno si sbrigano.

A volte appoggia l'orecchio alla parete per ascoltare. Un oblò qualsiasi

durante una tempesta, pensa. Di notte tutte le vacche sono vacche.

Ha incrociato la donna un paio di volte, infagottata e con il fazzoletto

come una nonna russa, alle prese con pacchi e con la carrozzina del bam-

bino. La tengono al piano terra, dove rimane in attesa come una trappola

mortale aliena, con la sua nera bocca spalancata. Una volta l'ha aiutata a


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