Margaret atwood



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Ho lottato con il coperchio del barattolo - devo pensare a un nascondi-

glio migliore, più facile - e finalmente l'ho aperto e ho tirato fuori la chia-

ve. Mi sono inginocchiata con una certa difficoltà, ho girato la chiave nella

serratura, ho sollevato il coperchio.

Era un po' che non aprivo il baule. L'odore di bruciacchiato e di foglie

autunnali della carta vecchia si è levato a darmi il benvenuto. C'erano tutti

i quaderni con le loro scadenti copertine di cartone simili a segatura pres-

sata. Anche il dattiloscritto, tenuto insieme da un vecchio spago da cucina

incrociato. Anche le lettere agli editori - scritte da me, naturalmente, non

da Laura, che a quel tempo era morta - e le bozze corrette. Anche le lettere

di insulti, finché non ho smesso di conservarle.

Anche cinque copie della prima edizione, con le sopraccoperte ancora

come nuove - appariscenti, ma le sopraccoperte lo erano a quei tempi, ne-

gli anni subito dopo la guerra. I colori sono un arancione sgargiante, un

viola spento e un verde giallognolo, stampati su carta leggera, con un orri-

bile disegno - una specie di Cleopatra con seni verdi a pera, occhi bordati

di kajal, collane viola dall'ombelico al mento e un'enorme bocca arancione

imbronciata, che emerge come un genio dalle spire del fumo di una siga-

retta viola. L'acido sta corrodendo le pagine, la copertina dai colori violenti

sta sbiadendo come le piume di un uccello tropicale imbalsamato.

(Ricevetti sei copie omaggio - le copie dell'autore, erano chiamate -, ma

ne diedi una a Richard. Non so che fine abbia fatto. Credo che l'abbia

stracciata, come faceva sempre con i pezzi di carta che non voleva. No -

ora ricordo. La trovarono sulla barca insieme a lui, accanto alla sua testa.

Winifred me la rimandò con un biglietto: Guarda cos'hai fatto! L'ho strap-

pata io. Non volevo accanto a me nulla che fosse stato toccato da Richard).

Mi sono spesso chiesta cosa fare di tutto ciò - di questo nascondiglio di

cianfrusaglie, di questo piccolo archivio. Non posso indurmi a venderlo,

ma non posso neppure decidermi a disfarmene. Se non faccio niente, la

scelta sarà lasciata a Myra, che farà ordine dopo la mia morte. Dopo i pri-

mi momenti di choc - supponendo che si metta a leggere -, qualcosa verrà

senza dubbio strappato e fatto a pezzi. Poi un fiammifero acceso e tutto

tornerà come prima. Lo interpreterebbe come un atto di lealtà: è ciò che

avrebbe fatto Reenie. Ai vecchi tempi i guai si tenevano in famiglia, che è

sempre il posto migliore, ammesso che ne esista uno. Perché andare a ri-

vangare tutta la storia dopo tanti anni, con tutti quelli che vi sono coinvolti

ormai infilati da bravi, come bambini stanchi, nelle loro tombe?

Forse dovrei lasciare questo baule e il suo contenuto a un'università, o a

una biblioteca. Là almeno verrebbe apprezzato, in un senso macabro. Non

sono pochi gli studiosi a cui piacerebbe mettere i loro artigli su tutta questa

cartaccia. Materiale, lo chiamerebbero - il loro nome per il bottino. Devo-

no immaginarmi come un vecchio drago ammuffito accovacciato su un te-

soro ottenuto in modo illecito - una macilenta signora che non vuole cede-

re agli altri ciò di cui non sa che fare, una carceriera rinsecchita e ipercriti-

ca, una custode delle chiavi con un'espressione compassata sulle labbra,

che sorveglia la segreta in cui Laura, lasciata morire di fame, è incatenata

al muro.

Per anni mi hanno bombardata di lettere in cui mi chiedevano la corri-

spondenza di Laura - mi chiedevano manoscritti, promemoria, interviste,

aneddoti -, ogni genere di macabro dettaglio. A queste importune missive

avevo l'abitudine di stilare risposte redatte in maniera stringata:

«Gentile signorina W., a mio parere il suo progetto di una "cerimonia

commemorativa" sul ponte che fu la scena della tragica morte di Laura

Chase è sia di cattivo gusto che morboso. Deve essere fuori di testa. Credo

che lei soffra di autointossicazione. Dovrebbe provare un enteroclisma».

«Gentile signora X., la ringrazio per la lettera in cui mi informa della tesi

da lei proposta, sebbene non possa dire che il suo titolo abbia molto senso

per me. Senza dubbio lo ha per lei, altrimenti non se ne sarebbe uscita così.

Non posso darle alcun aiuto. Del resto, non ne merita. "Decostruzione" fa

pensare alla sfera metallica usata nelle demolizioni, e "problematizzare"

non è un verbo».

«Egregio dottor Y., riguardo al suo studio sulle implicazioni teologiche

dell'Assassino cieco: le credenze religiose di mia sorella erano molto pro-

fonde ma certamente non quel che si dice convenzionali. Non le piaceva

Dio, né approvava Dio, né sosteneva di capire Dio. Diceva di amare Dio, e

quanto agli esseri umani era un altro paio di maniche. No, non era buddi-

sta. Non sia fatuo. Le suggerisco di imparare a leggere».

«Egregio professor Z., ho preso nota della sua opinione secondo cui da

troppo tempo ormai si attende una biografia di Laura Chase. Questa può

benissimo essere, come lei dice, "tra le nostre più importanti scrittrici della

metà del secolo". Non saprei. Ma la mia collaborazione a ciò che lei chia-

ma "il suo progetto" è fuori questione. Non ho alcuna voglia di soddisfare

la sua bramosia di ampolle di sangue secco e dita mozzate di santi.

«Laura Chase non è il suo "progetto". Era mia sorella. Non avrebbe de-

siderato vedersi mettere le mani addosso dopo morta, in qualunque modo

si voglia eufemisticamente definire ciò. Le cose scritte possono fare molto

male. Troppo spesso la gente non ne tiene conto».

«Gentile signorina W., questa è la sua quarta lettera sullo stesso argo-

mento. La smetta di tormentarmi. Lei è una parassita».

Per decenni ho tratto una fosca soddisfazione da questi velenosi scara-

bocchi. Ho goduto nel leccare i francobolli, nel lasciar cadere le lettere

come tante bombe a mano nella scintillante cassetta rossa, con la sensazio-

ne di avere regolato i conti con qualche ficcanaso zelante e avido. Ma ul-

timamente ho smesso di rispondere. Perché punzecchiare degli estranei?

Se ne infischiano di quello che penso di loro. Per loro io sono solo un'ap-

pendice: la mano spaiata, in più, di Laura, non attaccata ad alcun corpo - la

mano che l'ha consegnata al mondo, a loro. Mi vedono come un deposito -

un mausoleo vivente, una fonte, come la definiscono. Perché dovrei fare

loro dei favori? Per quanto mi riguarda sono persone che frugano nell'im-

mondizia - iene, per lo più; sciacalli sulle tracce di una carogna, corvi a

caccia delle carcasse degli animali uccisi dalle auto lungo le strade; mo-

sche carnarie. Vogliono frugare dentro di me come se fossi un mucchio di

ciarpame, cercando rottami di metallo e terraglie rotte, cocci cuneiformi e

frammenti di papiro, curiosità, giocattoli perduti, denti d'oro. Se mai so-

spettassero cosa tengo riposto qui, scassinerebbero le serrature, farebbero

irruzione ed entrerebbero, mi darebbero una botta in testa e scapperebbero

con gli scarabocchi, e si sentirebbero più che giustificati.

No. Allora non a un'università. Perché dare loro soddisfazione?

Forse il mio baule da nave dovrebbe andare a Sabrina, nonostante la sua

decisione di restare nel suo isolamento, nonostante - ed è qui che fa più

male - il suo persistente rifiuto di me. Malgrado ciò, il sangue non è acqua,

come sa chiunque abbia assaggiato sia l'uno che l'altra. Queste cose le ap-

partengono di diritto. Si potrebbe perfino dire che sono la sua eredità: do-

potutto è mia nipote. È anche la pronipote di Laura. Sicuramente vorrà in-

formarsi sulle sue origini, una volta superata la cosa.

Ma non c'è dubbio che Sabrina rifiuterebbe un simile regalo. È adulta

adesso, continuo a ripetermi. Se ha qualcosa da domandarmi, qualcosa da

dirmi, me lo farà sapere.

Ma perché non lo fa? Perché ci mette tanto tempo? Il suo silenzio è una

forma di vendetta, per qualcosa o per qualcuno? Certo non per Richard.

Non l'ha mai conosciuto. Neanche per Winifred, da cui è scappata. Per sua

madre allora - per la povera Aimee?

Quanto può mai ricordare? Aveva solo quattro anni.

La morte di Aimee non è stata colpa mia.

Dov'è Sabrina adesso, e di cosa può andare in cerca? Me la immagino

come una ragazza magrolina, con un sorriso esitante, un po' ascetico; ma

graziosa, con i suoi seri occhi blu come quelli di Laura, i suoi lunghi capel-

li scuri attorcigliati in crocchie come serpi addormentate intorno alla testa.

Ma non avrà un velo; porterà sandali pratici, o magari stivali dalle suole

consumate. O avrà adottato un sari? Le ragazze come lei lo fanno.

Sarà impegnata in questa o quella missione - sfamare i poveri del Terzo

Mondo, confortare i morenti; espiare i peccati di noi altri. Un compito inu-

tile - i nostri peccati sono un pozzo senza fondo, e ce ne sono molti di più

là da dove vengono. Ma è questa la caratteristica di Dio - l'inutilità. Gli è

sempre piaciuta la futilità. La considera nobile.

Sotto questo aspetto ha preso da Laura: la stessa tendenza al-

l'assolutismo, lo stesso rifiuto del compromesso, lo stesso disprezzo per i

più volgari difetti umani. Per cavarsela con un simile atteggiamento biso-

gna essere belli. Altrimenti verrà semplicemente scambiato per brutto ca-

rattere.


Il Braciere

Nonostante la stagione, il tempo si mantiene caldo. Tiepido, mite, secco

e luminoso; perfino il sole, così pallido e debole in questo periodo dell'an-

no, è pieno e maturo, i tramonti opulenti. I tizi pimpanti e dalle facce sor-

ridenti del canale delle previsioni meteorologiche dicono che ciò è dovuto

a qualche lontana catastrofe che ha sollevato una gran quantità di polvere -

un terremoto, un vulcano? Qualche nuovo, feroce atto di Dio. Non tutto il

male vien per nuocere, è il loro motto.

Ieri Walter mi ha portata a Toronto all'appuntamento con l'avvocato. È

un posto dove non va mai se può evitarlo, ma Myra lo ha costretto. È stato

dopo il mio annuncio che avrei preso il pullman. Myra non ne ha voluto

sapere. Com'è risaputo c'è solo un pullman, e parte e ritorna al buio. Ha

detto che quando ne sarei scesa, la sera, gli automobilisti non mi avrebbero

visto di sicuro e mi avrebbero schiacciata come un insetto. In ogni caso,

non sarei dovuta andare a Toronto da sola perché, anche questo è risaputo,

è popolata interamente da criminali e rapinatori. Walter, ha detto, si sareb-

be preso cura di me.

Per la gita Walter si è messo un berretto da baseball rosso; tra il bordo

del berretto e il margine del bavero della giacca il suo collo irsuto sporgeva

come un bicipite. Le sue palpebre erano grinzose come ginocchia. «Ho

pensato di prendere il pickup» ha detto, «è solido come un cesso di matto-

ni, così quei delinquenti ci penseranno due volte prima di venirmi addosso.

Soltanto, c'è qualche molla in meno, perciò non sarà un viaggio comodo».

Secondo lui, i guidatori a Toronto sono tutti matti. «Be', bisogna essere

matti per andare là, no?» ha detto.

«Ed è là che stiamo andando» ho osservato.

«Ma solo una volta. Come dicevo alle ragazze, una volta non conta».

«E ti credevano, Walter?» ho chiesto, prendendolo in giro come piace a

lui.

«Certo. Stupide come rape. Soprattutto le bionde». Potevo sentirlo sorri-



dere.

Solida come un cesso di mattoni. Questo si diceva delle donne. Era inte-

so come un complimento, nei giorni in cui non tutti avevano cessi di mat-

toni; soltanto di legno, fragili, puzzolenti e facili da buttare giù.

Appena mi ha fatta salire a bordo e mi ha allacciato la cintura, Walter ha

acceso la radio: violini elettrici che si lamentavano, una contorta storia

d'amore, il battito deciso di un cuore spezzato. Sofferenza trita, ma pur

sempre sofferenza. Il business dell'intrattenimento. Che guardoni siamo

diventati tutti quanti. Mi sono appoggiata al cuscino fornito da Myra. (Ci

ha equipaggiato come per un viaggio transoceanico - ha infilato in macchi-

na una coperta per le ginocchia, panini al tonno, dolcetti al cioccolato, un

thermos di caffè). Fuori del finestrino c'era il fiume Jogues, che seguiva il

suo corso indolente. Lo abbiamo attraversato e abbiamo svoltato verso

nord, superando strade fiancheggiate da quelle che un tempo erano casette

di operai, poi qualche piccola azienda: un autodemolitore, un emporio di

cibi naturali in rovina, un punto vendita di scarpe ortopediche con un piede

al neon verde che si accendeva a intermittenza, come se camminasse da so-

lo sul posto. Poi un centro commerciale in miniatura, cinque negozi, di cui

solo uno era riuscito a sistemare già i fili argentati natalizi. Poi il salone di

bellezza di Myra, The Hair Port. In vetrina c'era la foto di una persona con

la testa rapata, se maschio o femmina non avrei saputo dire con precisione.

Poi un motel che un tempo veniva chiamato Fine dei Viaggi. Suppongo

che avessero in mente «La fine dei viaggi è ai convegni d'amore», ma non

ci si poteva aspettare che tutti cogliessero il riferimento: ad alcuni sarà ri-

sultato troppo sinistro, un edificio tutto entrate ma senza uscite, che faceva

pensare ad aneurismi e trombosi e flaconi di sonnifero vuoti e ferite di ar-

ma da fuoco alla testa. Ora lo chiamano semplicemente Viaggi. È stato

molto saggio cambiare il nome. Tanto più inconcludente, tanto meno e-

stremo. Molto meglio viaggiare che arrivare.

Abbiamo superato qualche altro rivenditore - polli sorridenti che offri-

vano vassoi con parti del loro stesso corpo fritte, un allegro messicano che

brandiva dei taco. Davanti a noi si stagliava il serbatoio dell'acqua della

città, una di quelle enormi bolle di cemento disseminate nel paesaggio

campestre come nuvolette dei fumetti svuotate di parole. Ora avevamo

raggiunto l'aperta campagna. Un silos di metallo si innalzava da un campo

come una torre di comando; accanto al margine della strada tre corvi bec-

cavano la massa informe e pelosa di una marmotta bruciata. Recinti, anco-

ra silos, un gruppo di mucche bagnate; un bosco di cedri scuri, poi un'area

paludosa, con i giunchi estivi già a pezzi e spelacchiati.

Ha cominciato a piovigginare. Walter ha azionato i tergicristalli. Alla lo-

ro rilassante ninnananna mi sono addormentata.

Quando mi sono svegliata il mio primo pensiero è stato: Avrò russato? E

in tal caso, con la bocca aperta? È tanto brutto a vedersi, e perciò tanto u-

miliante. Ma non mi sono decisa a chiederlo. Nel caso che ve lo stiate do-

mandando, la vanità non muore mai.

Eravamo sull'autostrada a otto corsie, vicino a Toronto. Questo a quanto

diceva Walter: io non vedevo niente, perché eravamo incollati dietro il

camion di un'azienda agricola che ondeggiava, sbilanciato da gabbie di o-

che bianche, diretto senza alcun dubbio al mercato. I loro colli lunghi e

condannati e le loro teste agitate sbirciavano di qua e di là attraverso le as-

sicelle, i loro becchi si aprivano e si chiudevano, mandando grida tragiche

e ridicole, coperte dal rombo delle ruote. Sul parabrezza si sono appiccica-

te delle piume, la macchina è stata invasa dall'odore di sterco di oca e dal

fumo dello scappamento.

Dietro il camion c'era un cartello che diceva: Se siete abbastanza vicini

da leggere siete troppo vicini. Quando finalmente è uscito dall'autostrada,

davanti a noi c'era Toronto, una montagna artificiale di vetro e cemento

che si innalzava dall'uniforme pianura in riva al lago, tutta cristalli, guglie,

gigantesche piastre scintillanti e obelischi taglienti, fluttuante in una fo-

schia di smog tra il marrone e l'arancio. Sembrava qualcosa che non avessi

mai visto prima - qualcosa che fosse spuntata durante la notte, o che in re-

altà non era lì, come un miraggio.

Fiocchi neri ci volavano accanto come se più avanti stesse bruciando un

mucchio di carta. La furia vibrava nell'aria come afa. Mi sono venute in

mente sparatorie tra macchine.

L'ufficio dell'avvocato era dalle parti di King e Bay Street. Walter si è

perso, poi non riusciva a trovare parcheggio. Ci è toccato camminare per

cinque isolati, con Walter che mi spingeva avanti per il gomito. Non sape-

vo dove fossimo, perché tutto era talmente cambiato. Cambia ogni volta

che ci vado, il che non accade spesso, e l'effetto complessivo è devastante -

come se la città sia stata rasa al suolo e ricostruita da zero.

Il centro che ricordo io - grigio, calvinista, con uomini bianchi in sopra-

biti scuri che avanzavano a ranghi serrati sui marciapiedi, occasionalmente

intervallati da una donna con tacchi alti, guanti e cappello di prammatica,

borsa a busta sotto il braccio e avanti marsch! - è semplicemente scompar-

so, ma del resto lo era già da qualche tempo. Toronto non è più una città

protestante, è una città medievale: le folle che intasano le strade sono mul-

ticolori, i vestiti sgargianti. Bancarelle di hotdog con ombrelli gialli, chio-

schi di ciambelle, venditori ambulanti di orecchini, borse di stoffa e cinture

di cuoio, mendicanti che portano cartelli con su scritto con le matite colo-

rate Fuori Servizio: tra loro si sono divisi il territorio. Sono passata davanti

a un suonatore di flauto, a un trio di chitarre elettriche, a un uomo in kilt e

cornamusa. Da un momento all'altro mi aspettavo giocolieri o mangiatori

di fuoco, lebbrosi in processione, con cappucci e campanelli di ferro. Il

rumore era assordante; una pellicola iridescente mi è rimasta incollata agli

occhiali come olio.

Alla fine ce l'abbiamo fatta ad arrivare dall'avvocato. La prima volta che

mi sono rivolta a questo studio, nei lontani anni Quaranta, era situato in

uno di quei fuligginosi palazzi di uffici in mattoni rossi stile Manchester,

con l'atrio a mosaico, i leoni di pietra e le scritte dorate sulle porte di legno

con i loro riquadri di vetro stampato. L'ascensore era di quelli che avevano

una grata incrociata di sbarre di metallo all'interno della cabina; entrarci

era come finire brevemente in prigione. Era una donna in divisa blu oltre-

mare e guanti bianchi a manovrarlo, annunciando i piani, che arrivavano

soltanto a dieci.

Ora lo studio legale è situato in una torre di lastre di cristallo, in un uffi-

cio al cinquantesimo piano. Walter e io siamo saliti nell'ascensore risplen-

dente, con il suo interno di plastica marmorizzata, il suo odore di tappezze-

ria di automobile e la sua calca di gente intonata, uomini e donne, tutti con

gli sguardi sfuggenti e i visi vacui dei servitori a vita. Gente che vede sol-

tanto ciò che è pagata per vedere. Quanto allo studio legale, ha un ingresso

che potrebbe benissimo essere quello di un albergo a cinque stelle: fiori di-

sposti con un'abbondanza e un'ostentazione settecentesche, una spessa mo-

quette color fungo, un dipinto astratto fatto di costose macchie.

L'avvocato è arrivato, ci ha stretto la mano, ha sussurrato, ha gesticolato:

dovevo seguirlo. Walter ha detto che mi avrebbe aspettato lì, non si sareb-

be mosso. Fissava con un certo allarme la giovane, distinta segretaria in

vestito nero, foulard color malva e unghie madreperla; lei fissava non lui,

ma la sua camicia a quadri e i suoi enormi stivali con la suola di gomma

simili a baccelli. Poi Walter si è seduto sul divano a due posti, dove è af-

fondato immediatamente come in un mucchio di marshmallow, le ginoc-

chia ad angolo acuto, le gambe dei pantaloni tirate su, a scoprire spesse

calze rosse da taglialegna. Davanti a lui, su un raffinato tavolino, c'era un

assortimento di riviste finanziarie che gli consigliavano come far fruttare al

massimo i dollari che voleva investire. Ha preso un numero sui fondi co-

muni d'investimento: nella sua smisurata manaccia sembrava un Kleenex.

Gli occhi gli roteavano in testa come quelli di un manzo in una carica di

suoi simili.

«Non ci metterò molto» ho detto, per tranquillizzarlo. In realtà ci ho

messo un po' più di quanto pensassi. Be', fanno pagare tanto al minuto,

questi avvocati, proprio come le puttane più a buon mercato. Continuavo

ad aspettarmi di sentire dei colpi alla porta e una voce irritata dire: Ehi, là

dentro. Che aspetti? Rizzalo, mettilo dentro e tiralo fuori!

Quando ho finito le mie faccende con l'avvocato, ci siamo di nuovo av-

viati al pickup e Walter ha detto che mi avrebbe portato a pranzo. Cono-

sceva un posto, ha detto. Credo che Myra lo abbia costretto a farlo: Per

l'amor del cielo, assicurati che mangi qualcosa, a quell'età mangiano co-

me uccellini, non capiscono neanche quando esauriscono l'energia, po-

trebbe morire di fame in macchina. Magari aveva fame anche lui: mentre

dormivo aveva divorato tutti i panini impacchettati con cura da Myra, e per

giunta anche i dolcetti al cioccolato.

Il posto che conosceva si chiamava il Braciere, ha detto. Ci aveva man-

giato l'ultima volta che era venuto, forse due o tre anni prima, ed era stato

più o meno decente, tutto considerato. Considerato cosa? Considerato che

era a Toronto. Aveva preso un doppio hamburger al formaggio con tutti i

contorni. Là facevano costolette al barbecue, e in generale erano specializ-

zati in piatti alla griglia.

Ricordavo anch'io quel ristorante, da più di dieci anni prima - nei giorni

in cui tenevo d'occhio Sabrina, dopo la prima volta che era scappata. Ave-

vo l'abitudine di bighellonare intorno alla sua scuola alla fine delle lezioni,

piazzandomi sulle panchine, in punti in cui avrei potuto tenderle un aggua-

to - no, dove avrei potuto essere riconosciuta da lei, nonostante ci fossero

scarse probabilità che questo accadesse. Mi nascondevo dietro un giornale

aperto, come un esibizionista ossessionato, patetico, come lui piena di de-

siderio senza speranza per una ragazza che sarebbe sicuramente fuggita da

me quasi fossi un troll.

Volevo soltanto far sapere a Sabrina che c'ero; che esistevo; che non ero

quella che le avevano detto. Che avrei potuto essere un rifugio per lei. Sa-

pevo che ne avrebbe avuto bisogno, ne aveva già bisogno, perché conosce-

vo Winifred. Tuttavia non successe mai niente. Non mi notò mai, né io mi

rivelai mai. Quando si venne al dunque, fui troppo codarda.

Un giorno la seguii al Braciere. Sembrava il posto che le ragazze - le ra-

gazze di quell'età, di quella scuola - bazzicavano all'ora di pranzo, o quan-

do saltavano le lezioni. L'insegna fuori della porta era rossa, i bordi delle


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