delle istantanee, ma la sua non è una storia che lui desideri sentire. Non
può pensare ai bambini, avendone visti troppi morti. Sono i bambini che
non lo lasciano mai, anche più delle donne, più dei vecchi. Erano sempre
così inaspettati: i loro occhi assonnati, le loro mani ceree, le dita molli, la
bambola di pezza stracciata zuppa di sangue. Si gira, si studia il viso nel fi-
nestrino che si affaccia sulla notte, un viso dagli occhi infossati, in-
corniciato da capelli che sembrano bagnati, la pelle di un nero verdognolo,
velata dalla fuliggine e dalle scure sagome degli alberi che gli sfrecciano
innanzi.
Supera a fatica le ginocchia della vecchia e raggiunge il corridoio, si
mette tra le carrozze, fuma, getta via il mozzicone, piscia nel vuoto. Ha la
sensazione di andare nella stessa direzione - nel nulla. Potrebbe cadere giù
qui e non essere più trovato.
Una zona paludosa, un orizzonte che si distingue vagamente. Torna al
suo posto. Il treno è freddo e umido e surriscaldato e afoso; o suda o rab-
brividisce, forse entrambe le cose: brucia e gela, come in amore. La tap-
pezzeria ruvida dello schienale del sedile è ammuffita e scomoda, e gli
gratta contro la guancia. Alla fine dorme, a bocca aperta, la testa caduta da
un lato, contro il vetro sporco. Nelle orecchie ha il ticchettio dei ferri da
calza, e sotto quello il suono secco delle ruote lungo le rotaie di ferro, co-
me il rumore di un metronomo che funziona senza tregua.
Ora lo immagina che sogna. Lo immagina che sogna di lei, che sogna di
lui. Attraverso un cielo del colore dell'ardesia bagnata volano l'uno verso
l'altro su scure ali invisibili, cercando, cercando, tornando sui propri passi,
trascinati dalla speranza e dal desiderio, confusi dalla paura. Nei loro sogni
si toccano, si intrecciano, è piuttosto uno scontro, ed è lì che finisce il volo.
Cadono verso terra, paracadutisti entrati in collisione, angeli pasticcioni e
sporchi di cenere, mentre l'amore cola dietro di loro come seta strappata.
Da terra, il nemico apre il fuoco per accoglierli.
Passa un giorno, una notte, un giorno. A una fermata scende, compra
una mela, una Coca-Cola, mezzo pacchetto di sigarette, un giornale. A-
vrebbe dovuto comprare una fiaschetta di liquore, o magari un'intera botti-
glia, per l'oblio che contiene. Guarda fuori dei finestrini chiazzati di piog-
gia i campi lunghi e piatti che si srotolano come tappeti ispidi, i cumuli di
alberi; ci vede doppio per la sonnolenza. Di sera c'è un tramonto che indu-
gia, allontanandosi verso ovest mentre lui si avvicina, affievolendosi dal
rosa al viola. La notte cade con la sua discontinuità, a sbalzi, le grida di
ferro del treno. Dietro i suoi occhi c'è il rosso, il rosso di piccoli fuochi
ammassati, di piccole esplosioni in aria.
Si sveglia mentre il cielo si fa più chiaro; da un lato distingue dell'acqua,
piatta e sconfinata e argentea, il lago interno finalmente. Dall'altro lato del-
le rotaie ci sono piccole case avvilite, con panni che penzolano dai fili nei
cortili. Poi una ciminiera di mattoni incrostata, una fabbrica con le finestre
cieche e un'alta ciminiera; poi un'altra fabbrica, con gli innumerevoli vetri
che riflettono un pallidissimo blu.
Lo immagina scendere dal treno di mattina presto, camminare attraverso
la stazione, attraverso il lungo atrio a volta fiancheggiato da colonne, sul
pavimento di marmo. Vi galleggiano echi, le voci indistinte degli altopar-
lanti, i loro oscuri messaggi. L'aria odora di fumo - fumo di sigarette, di
treni, della città stessa, piuttosto simile a polvere. Anche lei sta camminan-
do attraverso la polvere o il fumo; è pronta ad aprire le braccia, a essere
sollevata in aria da lui. La gioia l'afferra alla gola, indistinguibile dal pani-
co. Non lo vede. Il sole dell'alba entra attraverso le alte finestre ad arco,
l'aria fumosa si accende, il pavimento brilla. Ora lui è a fuoco, dall'altra
parte della sala, ogni dettaglio è distinto - l'occhio, la bocca, la mano -,
sebbene tremulo, come un riflesso su una pozzanghera increspata.
Ma la sua mente non può trattenerlo, non può fissare il ricordo del suo
aspetto. È come se una brezza soffi sull'acqua e lui si scomponga in colori
spezzati, in piccole onde, per poi riformarsi da un'altra parte, dopo la co-
lonna seguente, riprendendo il suo corpo ben noto. È circondato da uno
scintillio.
Lo scintillio è la sua assenza, ma a lei sembra luce. È la semplice luce
del giorno, dalla quale ogni cosa intorno è illuminata. Ogni mattina e ogni
notte, ogni guanto e ogni scarpa, ogni sedia e ogni piatto.
XI
Il bagno
A partire da qui, le cose prendono una piega più cupa. Ma in fondo sa-
pevi che sarebbe andata così. Lo sapevi, perché sai già cosa è successo a
Laura.
Quanto a Laura, lei non lo sapeva, naturalmente. Non aveva alcuna in-
tenzione di interpretare l'eroina romantica condannata. Lo divenne solo più
tardi, nell'ambito della sua nuova immagine, e perciò nelle menti dei suoi
ammiratori. Nel corso della vita quotidiana era spesso irritante, come tutti.
O noiosa. O allegra, poteva anche essere così: in presenza delle condizioni
giuste, il cui segreto era noto solo a lei, poteva scivolare in una sorta di ra-
pimento. Sono i suoi sprazzi di gioia quelli che mi commuovono di più,
adesso.
E così nella memoria si muove nel suo trantran di tutti i giorni, all'occhio
esterno nulla di eccessivamente insolito - una ragazza dai capelli luminosi
che sale su una collina, immersa nei propri pensieri. Ci sono molte di que-
ste ragazze graziose, riflessive, il paesaggio ne è pieno, ne nasce una al
minuto. Il più delle volte non accade nulla di fuori dell'ordinario, a queste
ragazze. A questa, a quella e all'altra ancora, e poi invecchiano. Ma Laura
è stata prescelta, da te, da me. In un quadro raccoglierebbe fiori di campo,
nella vita reale faceva raramente una cosa del genere. Il dio dal viso di ter-
ra si accovaccia dietro di lei nell'ombra della foresta. Solo noi possiamo
vederlo. Solo noi sappiamo che spiccherà il salto.
Ho riguardato quanto ho scritto finora, e mi sembra inadeguato. Forse
c'è troppa frivolezza, o troppe cose che si potrebbero scambiare per frivo-
lezza. Un'infinità di vestiti, di stili e colori oggi fuori moda, ali di farfalla
cadute. Un'infinità di cene, non sempre molto buone. Colazioni, picnic,
viaggi transoceanici, balli in costume, giornali, gite in barca sul fiume.
Tutti elementi che non si combinano molto bene con la tragedia. Ma nella
vita, una tragedia non è un urlo prolungato. Coinvolge tutto ciò che condu-
ce a essa. Un'ora banale dietro l'altra, un giorno dietro l'altro, un anno die-
tro l'altro, e poi l'attimo improvviso: la coltellata, il proiettile esploso, il
tuffo della macchina dal ponte.
È aprile adesso. I bucaneve sono venuti e se ne sono andati, i crochi so-
no in fiore. Presto - almeno nelle giornate di sole - potrò trasferirmi nella
veranda sul retro, al mio vecchio tavolo di legno coperto di graffi e impre-
gnato di puzza di topo. Non c'è ghiaccio sui marciapiedi, e così ho rico-
minciato a fare passeggiate. I mesi di inattività invernale mi hanno indebo-
lita; me lo sento nelle gambe. Malgrado ciò sono decisa a riprendere pos-
sesso dei miei precedenti territori, a rivisitare i miei locali preferiti.
Oggi, con l'aiuto del mio bastone e con parecchie pause lungo la strada,
sono riuscita a farcela fino al cimitero. C'erano i due angeli Chase, ovvia-
mente per nulla malandati nonostante l'inverno nella neve; c'erano i nomi
di famiglia, solo leggermente più illegibili, ma potrebbe anche essere la
mia vista. Ho fatto scorrere le dita lungo questi nomi, lungo le loro lettere;
nonostante la loro durezza, la loro tangibilità, sotto il mio tocco sembrava-
no ammorbidirsi, svanire, ondeggiare. Il tempo è stato loro addosso con i
suoi invisibili denti aguzzi.
Qualcuno ha ripulito la tomba di Laura dalle foglie fradice dello scorso
autunno. C'era un piccolo mazzo di narcisi bianchi, già appassiti, i gambi
avvolti in un foglio di alluminio. Chi pensano che apprezzi questi loro o-
maggi, gli adoratori di Laura? Più precisamente, chi pensano che li raccol-
ga dopo di loro? Loro e la loro porcheria floreale, sparpagliata tutt'intorno
insieme ai pegni del loro falso dolore.
Vi darò qualcosa per cui piangere davvero, avrebbe detto Reenie. Se
fossimo state le sue vere figlie ci avrebbe preso a schiaffi. Visto come sta-
vano le cose non lo fece mai, perciò non scoprimmo mai cosa potesse na-
scondersi dietro quel minaccioso qualcosa.
Sulla via del ritorno mi sono fermata al negozio di ciambelle. Devo esse-
re apparsa stanca come in effetti mi sentivo, perché è arrivata subito una
cameriera. Di solito non servono ai tavoli, bisogna andare al banco e por-
tarsi le cose da soli, ma questa ragazza - una ragazza dal viso ovale, i ca-
pelli scuri, in quella che sembrava un'uniforme nera - mi ha chiesto cosa
poteva portarmi. Ho ordinato un caffè e, tanto per cambiare, un muffin ai
mirtilli. Poi l'ho vista parlare a un'altra ragazza, quella dietro al banco, e mi
sono resa conto che non era affatto una cameriera, ma una cliente, come
me: la sua uniforme nera non era neppure un'uniforme, soltanto una giacca
e dei pantaloni. In qualche punto mandava luccichii argentei, forse chiusu-
re lampo: non sono riuscita a distinguere i dettagli. Prima che potessi rin-
graziarla come si deve, se n'era andata.
È talmente confortante trovare educazione e rispetto in ragazze di quel-
l'età. Troppo spesso (riflettevo, pensando a Sabrina) mostrano soltanto in-
gratitudine noncurante. Ma l'ingratitudine noncurante è la corazza dei gio-
vani; senza di essa, còme potrebbero mai farsi strada nella vita? I vecchi
augurano ai giovani il bene; ma augurano loro anche il male: avrebbero
voglia di mangiarseli, e di assorbirne la vitalità, e rimanere loro stessi im-
mortali. Senza la protezione del carattere scontroso e della leggerezza, tutti
i bambini sarebbero schiacciati dal passato - il passato degli altri, caricato
sulle loro spalle. L'egoismo è la loro unica buona qualità.
Fino a un certo punto, naturalmente.
La cameriera nel suo grembiule blu mi ha portato il caffè. Anche il muf-
fin, di cui mi sono pentita quasi immediatamente. Sono riuscita solo ad a-
prirvi un piccolo varco. Tutto nei ristoranti sta diventando troppo grosso,
troppo pesante - il mondo materiale si manifesta sotto forma di enormi
mucchi umidi di impasto.
Dopo avere bevuto quanto caffè ho potuto, sono andata a chiedere del
bagno. Nello scompartimento di mezzo le scritte che mi ricordavo dall'au-
tunno scorso sono state coperte di vernice, ma fortunatamente la stagione è
già ricominciata. Nell'angolo in alto a destra, una coppia di iniziali dichia-
rava timidamente il suo amore per un'altra coppia di iniziali, com'è loro a-
bitudine. Sotto, in un'ordinata scritta blu:
Il buon senso nasce dall'esperienza. L'esperienza nasce dalla mancanza
di buon senso.
Sotto, scritto in corsivo con una penna a sfera viola: Se cerchi una ra-
gazza esperta chiama Anita la Bocca Potente, ti porterò in Paradiso, e un
numero di telefono.
E sotto ancora, in stampatello e pennarello rosso: Il giudizio universale è
alle porte. Preparati a un triste destino, dico a te, Anita.
A volte penso - no, a volte gioco con l'idea - che questi scarabocchi nei
bagni siano in realtà opera di Laura, come se agisse da molto lontano at-
traverso le braccia e le mani delle ragazze che li scrivono. Un'idea stupida,
ma piacevole, finché non compio il passo logico successivo e deduco che
in quel caso dovrebbero essere destinati tutti a me, perché chi altri conosce
ancora Laura in questa città? Ma se sono destinati a me, cosa intende con
essi Laura? Non quello che dice.
Altre volte sento un forte stimolo a partecipare, a contribuire; a unire la
mia tremula voce al coro anonimo di serenate troncate, lettere d'amore sca-
rabocchiate, annunci volgari, inni e imprecazioni.
Il Dito Mobile scrive, e avendo scritto,
Va avanti; né tutta la tua Pietà né l'Intelligenza
Potranno indurlo a cancellare mezza Riga,
Né tutte le tue Lacrime potranno cancellarne una Parola.
Ah, penso. Questo li farebbe alzare in piedi e urlare.
Un giorno che mi sentirò meglio tornerò là e lo scriverò davvero. Do-
vrebbero esserne tutti rallegrati, perché non è quello che vogliono? Quello
che vogliamo tutti: lasciarci alle spalle un messaggio che abbia un effetto,
magari orribile; un messaggio che non possa essere cancellato.
Ma simili messaggi possono essere pericolosi. Pensaci due volte prima
di esprimere un desiderio, soprattutto prima di esprimere il desiderio di
trasformarti nella mano del fato.
(Pensaci due volte, diceva Reenie. E Laura chiedeva: Perché solo due?)
Il gattino
Venne settembre, quindi ottobre. Laura tornò a scuola, una scuola diffe-
rente. I kilt là erano grigi e blu invece che marroni e neri; per il resto era
quasi uguale alla prima, per quanto potevo capire.
In novembre, subito dopo avere compiuto diciassette anni, Laura annun-
ciò che Richard stava gettando via il suo denaro. Avrebbe continuato a fre-
quentare la scuola, se lui lo pretendeva, avrebbe messo il suo corpo dietro
al banco, ma non stava imparando nulla di utile. Lo dichiarò con calma e
senza rancore, e in modo alquanto soprendente Richard cedette. «Comun-
que non ha davvero bisogno di andare a scuola» disse. «Non dovrà mai la-
vorare per vivere».
Ma Laura doveva essere occupata in qualcosa, proprio come me. Fu ar-
ruolata in una delle cause di Winifred, un'organizzazione volontaria chia-
mata Le Abigail, che si occupava di visitare gli ospedali. Le Abigail erano
un gruppo vivace: ragazze di buona famiglia che si allenavano a essere le
future Winifred. Indossavano grembiuli da ragazza di latteria con tulipani
applicati sulle pettorine e gironzolavano per le corsie d'ospedale, dove a-
vrebbero dovuto parlare ai pazienti, magari leggere per loro e rallegrarli -
come, non era specificato.
Laura si dimostrò bravissima. Non le piacevano le altre Abigail, inutile a
dirsi, ma si adattò al grembiule. Com'era prevedibile, era attratta dalle cor-
sie che ospitavano i poveri, che le altre Abigail tendevano a evitare per via
del fetore e del comportamento indecente dei degenti. Queste corsie erano
piene di derelitti: vecchie afflitte da demenza, reduci indigenti e malridotti,
uomini senza naso con la sifilide terziaria e così via. Le infermiere erano
scarse in questi gironi, e ben presto Laura si fece carico di compiti che a
rigor di termini non erano di sua competenza. Padelle e vomito non la met-
tevano in imbarazzo, a quanto pare, e neppure le bestemmie, i deliri e la
generale confusione. Non era quella la situazione che Winifred aveva im-
maginato, ma ben presto fu quella con cui ci trovammo a fare i conti.
Le infermiere ritenevano Laura un angelo (almeno alcune di loro; altre la
consideravano semplicemente d'impiccio). Secondo Winifred, che cercava
di tenere le cose sotto controllo e aveva le sue spie, correva voce che Laura
fosse particolarmente brava con i casi disperati. Sembrava non cogliere il
fatto che stessero morendo, diceva. Trattava la loro condizione come ordi-
naria, perfino normale, e questo - supponeva Winifred - doveva avere su di
loro un effetto in qualche modo calmante, effetto che non avrebbe certo
avuto su una persona sana. Per Winifred questa facilità o talento di Laura
era un altro segno della sua natura fondamentalmente bizzarra.
«Deve avere nervi di ghiaccio» diceva. «Io non ci riuscirei di certo. Non
potrei sopportarlo. Pensate che squallore!»
Intanto, erano in atto i piani per l'ingresso in società di Laura. Questi
piani non erano ancora stati condivisi con lei: avevo preparato Winifred ad
aspettarsi una reazione negativa da parte sua. In quel caso, disse lei, tutta la
cosa sarebbe stata organizzata e poi presentata come un fait accompli; o,
meglio ancora, si sarebbe potuto addirittura fare a meno dell'ingresso in
società, se il suo obiettivo principale fosse stato già raggiunto, dove l'obiet-
tivo principale era un matrimonio strategico.
Stavamo pranzando all'Arcadian Court; Winifred mi aveva invitata là,
solo noi due, per escogitare uno stratagemma per Laura, come si era e-
spressa.
«Uno stratagemma?» chiesi.
«Sai cosa voglio dire» disse Winifred. «Niente di disastroso». Il meglio
che si poteva sperare per Laura, tutto considerato - continuò - era che un
uomo bravo e ricco ingoiasse il rospo, le chiedesse di sposarlo e la portasse
dritta all'altare. Ancora meglio, un uomo ricco, bravo e stupido, che non
vedesse nemmeno che c'era un rospo da ingoiare finché non sarebbe stato
troppo tardi.
«Di che rospo parli?» domandai. Mi chiesi se fosse stato quello lo sche-
ma seguito da lei stessa quando aveva messo nel sacco lo sfuggente signor
Prior. Aveva nascosto la sua natura di rospo fino alla luna di miele e poi
gliel'aveva rivelata troppo all'improvviso? È per questo che non si faceva
mai vedere, tranne in fotografia?
«Devi ammettere» disse Winifred, «che Laura è più che un po' strana».
Tacque per sorridere a qualcuno al di sopra della mia spalla, e per agitare
le dita in un saluto. I suoi bracciali d'argento tintinnarono; ne portava trop-
pi.
«Cosa vuoi dire?» chiesi in tono mite. Raccogliere le spiegazioni di Wi-
nifred su ciò che voleva dire era diventato un mio deplorevole hobby.
Winifred contrasse le labbra. Aveva un rossetto arancione, le sue labbra
stavano cominciando a riempirsi di rughe. Oggigiorno diremmo che era
colpa del troppo sole, ma la gente non aveva ancora fatto quel collegamen-
to, e a Winifred piaceva essere abbronzata; le piaceva la patina metallica.
«Non è il tipo che va a genio a tutti gli uomini. Se ne viene fuori con certe
stranezze. Le manca - le manca la prudenza».
Winifred indossava le sue scarpe verdi di alligatore, ma non le giudicavo
più eleganti; al contrario, le giudicavo appariscenti. Molte delle cose di
Winifred che un tempo trovavo misteriose e affascinanti ora le trovavo ov-
vie, semplicemente perché ne sapevo troppo. La sua costosa vernice era
smalto scheggiato, il suo splendore nient'altro che lucido. Avevo guardato
dietro le quinte, avevo visto corde e pulegge, avevo visto fili e corsetti.
Avevo sviluppato dei gusti miei.
«Per esempio?» chiesi. «Quali strane cose?»
«Ieri mi ha detto che il matrimonio non è importante, solo l'amore. Ha
detto che Gesù è d'accordo con lei» rispose Winifred.
«Be', è il suo modo di vedere» dissi. «Non ne fa mistero. Ma non ha in
mente il sesso, lo sai. Non ha in mente l'eros».
Quando c'era qualcosa che non capiva, Winifred ne rideva o la ignorava.
Questa la ignorò. «Tutti hanno in mente il sesso, che lo conoscano o me-
no» disse. «Un simile modo di vedere potrebbe procurare un sacco di guai
a una ragazza come lei».
«Ne verrà fuori in tempo» osservai, anche se non lo pensavo.
«Non sarà mai troppo presto. Le ragazze con la testa tra le nuvole sono
di gran lunga le peggiori - gli uomini se ne approfittano. Tutto quello che
ci serve è un piccolo Romeo ben provvisto. Questo la metterebbe a posto».
«Cosa suggerisci, dunque?» chiesi, fissandola con espressione vacua.
Usavo quel mio sguardo vacuo per nascondere irritazione o anche rabbia,
ma non faceva che incoraggiare Winifred.
«Come ho detto, darla in sposa a un brav'uomo che non sappia come va
il mondo. Poi potrà sbizzarrirsi con le faccende amorose più tardi, se è
quello che vuole. Finché lo fa senza dare nell'occhio, nessuno aprirà il bec-
co».
Giocherellai con i resti del mio pasticcio di pollo. Ultimamente Winifred
aveva imparato un bel po' di espressioni gergali. Suppongo pensasse che
erano all'ultima moda: aveva raggiunto l'età in cui avrebbe dovuto comin-
ciare a preoccuparsi di essere all'ultima moda.
Ovviamente non conosceva Laura. Mi era difficile concepire l'idea di
Laura che faceva qualcosa di simile senza dare nell'occhio. Era più da lei
farlo apertamente, per strada, in pieno giorno. Avrebbe voluto sfidarci,
sbattercelo in faccia. Fuggire con un amante, o qualcosa di altrettanto me-
lodrammatico. Mostrare a noi altri che ipocriti fossimo.
«Laura avrà del denaro quando compirà ventun anni».
«Non abbastanza» disse Winifred.
«Forse sarà abbastanza per lei. Forse vuole soltanto fare la sua vita» re-
plicai.
«La sua vita!» esclamò Winifred. «Pensa solo cosa ne farebbe!»
Non aveva senso cercare di far recedere Winifred dai suoi propositi. Era
come una mannaia da macellaio calata a mezz'aria. «Hai qualche candida-
to?» chiesi.
«Nulla di sicuro, ma ci sto lavorando» rispose in tono brusco. «Ci sono
alcune persone a cui non dispiacerebbe legarsi a Richard».
«Non darti troppa pena» mormorai.
«Oh, ma se non lo faccio» disse Winifred allegramente, «cosa succede-
rà?»
«Ho sentito che hai preso Winifred per il verso sbagliato» dissi a Laura.
«Mettendola tutta sottosopra. Stuzzicandola sul Libero Amore».
«Non ho mai nominato il Libero Amore» ribatté. «Ho detto soltanto che
il matrimonio era un'istituzione sorpassata. Ho detto che non ha nulla a che
vedere con l'amore, ecco tutto. L'amore è dare, il matrimonio è comprare e
vendere. Non si può mettere l'amore in un contratto. Poi ho detto che non
c'è matrimonio in Paradiso».
«Questo non è il Paradiso» dissi. «Nel caso tu non l'abbia notato. Co-
munque, l'hai sicuramente allarmata».
«Stavo solo dicendo la verità». Si stava togliendo le pellicine con il mio
scalzapelli. «Suppongo che ora comincerà a presentarmi alla gente. Non fa
che immischiarsi».
«Ha solo paura che tu possa rovinarti la vita. Se ti fai prendere troppo
dall'amore, voglio dire».
«Sposarti ti ha evitato di rovinarti la vita? O è troppo presto per dirlo?»
Ignorai il suo tono. «Tu cosa pensi, comunque?»
«Hai un nuovo profumo. Te l'ha regalato Richard?»
«Dell'idea del matrimonio, voglio dire».
«Niente». Ora si stava spazzolando i lunghi capelli biondi, con la mia
spazzola, seduta alla mia toletta. Ultimamente faceva più attenzione all'a-
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