Modello Amàrantos



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- Buonasera - ci disse con ironia. Io lo sapevo, lui lo sapeva, ma nessuno diva niente. Ero in quel locale per il semplice fatto che avevo voglia di bere e non c’era nessun altro posto aperto a quell’ora. Io stavo sui coglioni a lui e lui stava sui coglioni a me.

- cosa bevete? - Neanche “cosa volete?”, ma “cosa bevete?” lui lo sapeva. E se avessi ordinato da mangiare. No, non lo avrei mai fatto e lui lo sapeva. Non riuscivo neppure a guardarlo in faccia, non perché fossi vigliacco, ma perché ero fisicamente KO e la testa mi pesava più di tutto il resto del corpo. Dopo qualche secondo di esitazione mi alzai e vidi il frocio sfigato che diceva:

- Ma, non so, cosa mi consigli? Vorrei un vino non troppo pesante, ma molto pastoso, tipo… tipo…

- Un souvignon tal dei tali dell’anno XCMCXIIVI - Rispose con tono principesco l’arciduca Brown.

- Ottimo, direi, ottimo - Confermò il cugino di Eddie.

- E a te, cosa porto?

- Per me… - lo fissai con l’occhio spento e la testa gonfia

- Per me puoi andare a fanculo, te e il tuo souvignon dello scroto. Dammi un’ombra di rosso. Scadente che costi poco.

Alzai la testa per vedere la faccia di Brown. Gli occhi gli diventarono rossi e gli uscirono praticamente dalle orbite. Una vena gli si delineò con mille diramazioni lungo la fronte. Ora sono morto. mi spacca la faccia e sono così pieno da non riuscire nemmeno a reagire. Meglio così lo denunciano. Sì, Brown in galera. Brutto stronzo ti sta bene.

- Adesso basta, basta! basta! Non puoi venire qua solo quando sei ubriaco, dopo che hai bevuto tutta la sera in giro nelle altre osterie e venire da ME alle 4 di mattina a rompere i coglioni per un bicchiere da 60 scellini!

- Cazzo, 60 scellini? Hai abbassato i prezzi allora…

- Vattene fuori, fuori!

- Prima mi bevo un’ombra da 60

- Vattene fuori, fuori!- Brown non ci stava più dentro. Io ero troppo fuso per capire qualcosa, ma dentro di me immaginai tutta la gente del locale che si girava a guardarci.

- Ti ripeto che prima mi bevo la mia ombra, dopo me ne vado. Se ho voglia.

- Basata, basta! - Urlò con le vene che gli scoppiavano dalla crapa pelata.

- Scusa, ma perché quel tipo - indicai il primo tizio che vidi rialzando la testa che inesorabilmente si era riabbassata - ha bevuto un’ombra da 60 centesimi e io no. Stai forse facendo delle discriminazioni? Eh?

- Sì, sì ! questo è un locale per gente di un certo livello, non per ubriaconi come te! Vattene fuori, hai capito?

- Ah, mi dici tu, con la tua testa pelata… questo è un locale di un certo livello… e perché cazzo c’è una troia come quella? Dimmi perché nel tuo locale da signori c’è una troia? - indicai la prima donna che vidi alla mia portata oculare distrofica e maldestra.

Brown a quel punto impallidì e la ragazza che avevo involontariamente indicato si alzò ed iniziò ad urlarmi:

- Stronzo, come ti permetti? Troia a me?

Il suo ragazzo, o l’idiota che ci stava insieme insomma, la prese per un braccio e gli sussurrò con vocina da frocio:

- Lascialo stare, dai amoruccio mio, lascialo stare...

- No, no, mi ha chiamato puttana quello stronzo!

- intanto non era puttana, ma troia, che è ben più serio.- Puntualizzai scuotendo la testa abnorme di alcol.

- Adesso basta, io chiamo i carabinieri! - urlò con mezza tonsilla il monsignor Brown.

- Chiamali pure se ti fanno sentire meglio…

Ci fu un attimo di stasi, nel quale la troia spalancò la bocca, così come era abituata per motivi fallici e nel frattempo il suo accompagnatore sussurrò qualcosa di incomprensibile.

Il frocio cugino di Eddie era sfigato fino all’osso, ma non vigliacco. Infatti si limitò a guardare la scena e sorridere come se niente fosse. Il Brown era ancora imputridito ed indemoniato. Non si indirizzò neppure verso il telefono, come da programma; si limitava a fissarmi con lo sguardo tipico di chi mi vuole morto. Ormai ne avevo visti tanti di quelli occhi assassini e riuscivo a distinguerli più che bene.

Sul più bello il fottuto signor Brown mi sdegnò lo sguardo e si protese a braccia alte in segno di dispiacere nei confronti della brutta troia.

- Signorina, mi dispiace, ma lo lasci stare per favore, è uno che ha dei problemi

- È vero. - Confermò il sottoscritto. - Signorina, mi scusi, per favore mi perdoni, Ho avuto dei sei problemi psichici dal giorno che sono stato costretto a copulare con la sorella grassa del qui presente onorevole Barista nonché sommelier, Brown.

- È ora di finirla, brutto stronzo!

Non so perché ma mi chiamavano brutto stronzo solo le troie ed i fighetti effeminati. Probabilmente non era un caso.

- troia sarà tua sorella! hai capito?

- ehi, Brown, abbassa la voce, qua siamo in un locale di alto livello…

Il deficiente di Brown inclinò la testa e fece strabordare il sangue dalle vene varicose che gli coronavano il teschio. Non si permise neppure di puntarmi contro il dito. Era un signore. Allora capii che non avrebbe mai alzato le mani. Forse la cornetta per il 115. Molto probabilmente. Era quindi giunta l’ora di colpirlo con un ultimo insulto verbale per poi andarsene via. Fissai il cuginetto di Eddie. Mi faceva morie dal ridere. Era troppo sfigato. Guardai Brown che stava scoppiando. Povero idiota.

- Comunque Brown, si è fatto tardi, dobbiamo andare. Ah, dimenticavo. Il barbiere ti saluta. È un po’ preoccupato perché non ti vede da una vita...

- stronzo! stronzo!

Mentre il teschio pelato di Brown urlava come un dannato, io ed il frocione cugino di Eddie ce ne andammo ridendo. Mancava poco che gli occhi gli fuoriuscissero dalle orbite.


Salimmo la via senza parlare, ma ridendo come dei bastardi.

- Gliene hai dette 4 e hai fatto bene, Jim!

- Se le meritava, è uno sborone della mutua.

Lungo la strada mi voltai un attimo e vidi le luci del pub di prima ancora accese.

- Hei, cugino di Eddie, andiamo a berci l’ultima via al pub?

- ma stai in piedi?

- Questo non è un problema.

Dopo pochi minuti eravamo appoggiati al bancone sudicio del Pub con una birra in mano.

- Che cazzo stai cantando, Jim? Vidi lo sguardo imbecille del finocchietto scivolare verso l’alto.

Una cantilena pastosa troppo insulsa per essere ricordata mi fuoriusciva mentre mi accasciavo lentamente al suolo. No. Non ero ancora alla frutta. Mi risollevai faticosamente per un altro goccio. Andai avanti fino all’alba borbottando quella cantilena, sempre con un nuovo ultimo goccio tra le dita. Poi persi tutti i sensi.

Mi svegliai lentamente, tossendo e sputando catrame con tanto di segnaletica orizzontale. Sentii la mia testa tonda e pesante, poi di colpo vuota ed ancora più pesante. Mi girai di schiena e sentii il freddo delle piastrelle con lo stomaco, poi racimolai la mia coperta e chiusi ancora gli occhi. Bip, Bip. Dalla mia tasca quel lucifero di telefono riprese a suonare di nuovo. Erano già passati cinque minuti. Santiddio dovevo alzarmi, l’IceFive mi aspettava.

Ero ancora vestito, sporco, marcio, con l’alito in continua evoluzione metastica. Mi tirai in piedi, dilaniato. La testa mi pesava a tal punto da non permettermi di stare in equilibrio. Presi le chiavi e qualche altra cianfrusaglia, mi incastrai in testa un cappello da deficiente ed uscii di casa così per abitudine, senza farci troppo caso. Salii le scalette di cemento con una certa disinvoltura, ma quando arrivai in strada mi venne un totale giramento di testa, barcollai fino ad appoggiarmi alla ringhiera, trattenetti un colpo di vomito inaspettato e con il sudore alla fronte e brividi nella schiena. Zampettai obliquo fino al mio macchinario. Dentro c’era un odore pestilenziale di sperma misto vomito e birra rancida. Fanculo al lavoro, fanculo a tutti santiddio.


Misi in moto e via, come un siluro. Nonostante la stagione fosse buona faceva un freddo cane ed indossai il giaccone da cella frigorifera che avevo sul sedile del passeggero. Non riuscii neppure ad accendere la radio. Forse ci avevo incastrato un CD dentro. O forse non andava più e basta.

Avevo una sete allucinante. Il cuore lo sentivo fino nello scroto ed il suo ritmo cambiava spesso senza preavviso. Forse sto morendo, pensai. Ma, per una sbronza non è mai morto nessuno, forse, almeno negli ultimi dieci minuti. Mi passarono per la mente tutti i morti alcolizzati che conoscevo e mi venne da vomitare un’altra volta. Fanculo a tutti quanti. Io sono qua, anche se vorrei essere magari sul divano a bermi una tisana calda e a guardare l’A-Team, Mc Giver o uno quei soliti telefilm che fanno alla mattina da 15 anni a questa parte. Budello di Giuda.

Venti minuti dopo ero già quasi arrivato al lavoro; sfilai fuori dallo svincolo autostradale con eleganza, andai dritto allo stop e che cazzo! Ero fottuto.

- Patente e libretto, prego.

- Serpente bestia. Santiddio.

- come… mi dica?

- no, no, niente, agente. Aspetti un attimo solo per favore… ecco la patente - ero quasi contento dato che le ultime due multe le avevo prese per mancato possesso di un documento o una roba simile - ed ecco il libretto...

- ma si è accorto che lei non si è fermato allo stop?

- direi di sì, visto che non sono rincoglionito

- …


- comunque mi dispiace. Ho il difetto di guardare la strada quando sono ancora sullo svincolo e se vedo che non ci sono macchine a distanza ravvicinata, quando arrivo allo stop do un’occhiata veloce e vado via…

Lo sapevano anche loro che era una cazzata madornale, però era venuta bene e l’avevo pronunciata con un tono appropriato e sublime, modestamente, senza arroganza e senza una classica evidente finta ingenuità.

- ma allo stop bisognerebbe sempre fermarsi

- ha perfettamente ragione, agente. allo stop tutti si dovrebbero fermare

Il tizio mi fissò per un attimo, io schivai lo sguardo e mi accesi una sigaretta. Forse era fatta. O forse no. Avevo lo stomaco in frantumi, il cuore ed il fegato che battevano come dei picchi in calore ed ero in ritardo. Le otto e dodici. Dodici minuti di ritardo. Avevo sete, avrei bevuto perfino il mio piscio. Non riuscivo a stare fermo, fumavo, fumavo e ad ogni tiro sentivo la nicotina devastare il mio sistema nervoso e se stavo in silenzio potevo assaporare tutti i 12 milligrammi di catrame che si depositavano infondo ai polmoni. Che cazzo avranno da fare. Che cazzo stanno facendo. Per la prima volta da quando mi avevano fermato mi accorsi che uno dei due aveva i baffetti e gli occhiali a goccia come i poliziotti froci dei film ed il tizio che stava sempre zitto e scriveva era letteralmente un bambino. Ed erano carabinieri. Un frocio ed un tizio di neanche vent’anni che potrebbe essere mio nipote. Magari il baffetto se lo inchiappettava durante le pause.

Alle 8 e 17 il bimbo venne verso di me e sorprendentemente mi disse:

- Come mai lei non ha la targa anteriore? -

Boia il budello, si è accorto lo stronzo. La mia targa davanti infatti non esisteva più da qualche anno, o meglio, io di sicuro non ce l’avevo. Colpa di un fottuto incidente sulla, di notte, 140 all’ora contro uno spartitraffico. Muso disintegrato, targa e paraurti finiti in qualche canale ed il macchinario ancora quasi funzionante che a 20 all’ora mi portò fino a casa. Bei tempi. E da quella volta ho sempre avuto una finta targa di cartone plastificato, molto ingannevole, ma non all’occhio della legge di merda. Pensandoci bene però, di solito mi fermavano di notte e non sempre si accorgevano del mio misfatto, ma con il sole, un finocchio ed un giovane piglianculo tutto poteva succedere.

- Ho una targa provvisoria…

- Provvisoria? Non mi sembra molto provvisoria

- Eh, io anche se faccio le cose provvisorie voglio farle bene lo stesso, altrimenti evito di farle…

Abbassai di nuovo la testa in segno di umiltà e sodomia nei confronti degli sceriffi miei sovrani.

- Ma l’ha fatta la denuncia? - intervenne nuovamente il frocio baffettato. Non sembrava affatto una persona cattiva, ma in quel momento lo avrei preso a randellate nei coglioni.

- Sì.


- me la può mostrare?

Di solito dice così anche alle ragazze? Lo pensai ma non lo dissi e mi voltai in fretta per non ridergli in faccia. Mi infilai di nuovo nel macchinario fetido e mi venne un ennesimo capogiro. Aprii il vano porta minchiate ed iniziai a frugare. Sorprendentemente trovai quasi subito la fottuta denuncia e la mostrai al mio migliore amico gay.

- prego a lei, agente. Probabilmente mi è scaduto anche il tempo massimo per circolare senza la targa, ma purtroppo le mie risorse economiche non mi permettono di reimmatricolare la macchina. Tanto meno di cambiarla...

L’agente non mi guardò neppure, ma molto probabilmente ascoltò il mio discorso da paraculo. Ma alla fine era più o meno vero. Tranne per il fatto che neanche avessi avuto 100 milioni di sesterzi ne avrei buttati via 500 per reimmatricolare un macchinario di merda che ne valeva forse meno. Tutto per colpa di un pezzo di lamiera e di un governo ladro. Porca troia impestata di vermi obesi.

- Eccome se è scaduta! È di due anni fa! - sobbalzò il frocetto

- Caspita, come passa il tempo, agente. 18 mesi sono volati…

- Come diciotto? due mesi, sono due i mesi di diritto a circolare con la sola denuncia di smarrimento di un documento di circolazione. Perché la targa, lo sa lei, vero, è un documento di circolazione

- Santiddio! - Escalamai con il disappunto tipico di chi bestemmia una volta all’anno solo nei momenti drammatici.

- Ma chi le ha detto diciotto mesi?

- Un mio caro amico - La parola caro mi fece guadagnare mille punti.

- Eh, purtroppo il suo amico è male informato…

- Ma allora mi dica, agente, come posso fare?

- Vada al più presto alla motorizzazione e porti la denuncia, mi raccomando!

- Ma allora io domani mattina vado subito a sistemare questa questione. Mi dispiace ma è successo tutto solo per il fatto di essermi fidato della parola di un amico

Ormai era fatta. In quel momento pensai: o questi sono veramente dei coglioni o più probabilmente sono così froci che quando mi guardano hanno l’uccello così duro che non gli fa più arrivare il sangue al cervello.

- ma lei dove lavora? - mi chiese sempre il baffo gay.

- lavoro qua a duecento metri, all’IceFive…

- vada, vada, che a occhio e croce è già in ritardo

- grazie e arrivederci, agente
Volai in macchina e buttai l’occhio su un cerchio con delle freccette. Otto e 25. Verme mastrurbato da una roia negra. Misi in moto, agganciai le cinture, rimisi a posto i documenti e partii a rallentatore, con la faccia da santo, la manina salutosa nei confronti degli agenti, un mal di testa che avrebbe ucciso un cavallo, un senso di vomito più unico che raro ed un sonno così stronzo che avrei dormito anche sopra un cumulo di letame.

Parcheggiai davanti allo stabilimento, scesi di corsa, schivando due colleghi deficienti che schizzarono fuori con il furgone a tutta velocità. Cazzo, io dovevo ancora caricare il camion. Volai dentro come niente fosse, con ancora il giaccone addosso.

- Jim, Jim, ti sembra ora di arrivare, questa?

- Hei, Silvio… sai come sono queste cose…

Silvio non era altro che il capo della filiale. Un terrone amico, amico super amico, che però per pararsi il culo con il suoi superiori ti spalmava la merda addosso con il sorriso sulla faccia. Poi mi faceva girare il cazzo la sua camaleonticità. Era terrone, con l’accento terrone e parlava finti dialetti nordici, ma con l’accento terrone. Cazzo, anch’io ho lavorato a Napoli, Palermo, Reggio C. e compagnia e col cazzo che provavo a parlare nel dialetto locale. Che cazzo di discorso è? Allora per andare in africa devo pitturarmi il truglio di nero e mettermi una protesi per allungarmi il pisello? Lui invece era venuto a fare il capo lì, il capo della filiale del nord, e parlava il dialetto tarocco, lui. Il capo.

- Hai alzato un po’ il gomito ieri sera? - Ironizzò falsamente il capo in dialetto locale con accento non locale.

- Sì, e non per masturbarmi.

La breve e dialettale conversazione si concluse con questa mia inopportuna precisazione che però stroncò sul nascere un dialogo senza vie d’uscita. Attraversai a testa bassa lo stabile per uscire nel retro. Io ero uno dei tre sfigati in quel cazzo di posto che avevano il furgone all’aperto e si prendevano la pioggia o la neve un giorno sì e uno no.

L’IceFive era una di quelle catene di distributori di roba surgelata. Patate, patatine, tonde e quadrate, spinaci, spinacine, cordonbleau, gelati, ghiaccioli, coppe all’amarena, sburra, crauti, minestroni da una a 245 verdure, piselli, bastoncini dei pesce, di carne, di budello, torte alla nerchia, hamburger di pollo, manzo e sorci, penne precotte alla puttanesca, peni al curry, al pesto di marchese, cazzetti e fichette, tutti felicemente surgelati. No congelati, surgelati, mi raccomando. Eh, sì, perché l’IceFive insegna a tutti la cultura del surgelato e non del congelato, ibernato, mummificato e marcito. Cazzo, io ho perfino il diploma del corso internazionale di IceFive. Eh, sì, internazionale, no nazionale come le sigarette o provinciale o addirittura locale come il dialetto, ma sentite, sentite: intercontinentale internazionale e chi più ne ha più ne metta. Io non sono mica un pirla. Cazzo, io ho l’attestato di felicitazioni conseguite al corso intensivo di tre giorni nella sede mondiale dell’IceFive.

Il fottuto Silvio a suo tempo infatti mi mandò al corso obbligatorio per tutti gli apprendisti della famiglia IceFive. Con tre mesi di ritardo mi pagò perfino tutte le spese e vacazioni, eccetto gli extra, quali i soliti bere, fumare e stantuffare con bionde rumene. Restai tre giorni in un cazzo di posto a mangiare prodotti IceFive e a seguire lezioni di IceFive per tre giorni e tre notti. Insieme a dei veri terroni però. In tre giorni fumai circa trenta canne e bevetti almeno il triplo di ombre di vino con i miei colleghi apprendisti da Bari. Tre giorni su tre in ritardo variabile di un’ora - due a sorbirmi ore e ore di lezioni di marketing e vendita al dettaglio.

- Se la signora non ha soldi per comprare, cosa gli dici, Jim? - mi chiese uno dei fantomatici istruttori del corso durante “l’esame” finale.

- Che può andare a prenderselo nel culo - Risposi da strafatto.

- Bene, Jim e te, comportandoti così da pagliaccio vorresti restare nella famiglia IceFive?

- Sinceramente non me ne frega una sega, per me è un lavoro come un altro e se non vi vado bene così potete anche mandarmi via. Voglio solo i soldi che mi spettano per questi tre giorni di cazzate e poi me ne tornerò a casa, senza rompere più i coglioni a nessuno.

Ci fu una sommossa generale, esaltata dagli applausi dei miei soci da Bari, poi il finferlo di istruttore mi consegnò a malavoglia il “diploma IceFive”, forse costretto da qualche superiore, poiché avevo superato splendidamente il test di cultura generale (cosa fa 2+2?). Presi il mio zaino scucito e scolorito dal vomito e me ne andai al bar a bere due sambuche prima di tornare at home.
E così ero là, in una cazzo di catena di distribuzione porta a porta di stronzate surgelate da consegnate con un furgone di merda. Mezzo ubriaco, come aveva sottolineato il mio Superiore. Tra le altre cose non ero neppure un vero venditore IceFive, ma ero una sorta di tappa - buchi. A differenza degli altri non avevo un furgone, ma me ne assegnavano uno diverso ogni due giorni, a seconda di chi se ne stava a casa per ferie o malattia. Così con quella storia mi inculavano triplamente: per prima cosa non sapevo mai cosa c’era e cosa non c’era nella cella ibernante. Così ad ogni inventario mi inculavano sempre qualche decina di euro. Manca questo, manca quello, dicevano. Ormai mi ero rotto le palle di litigare e pagavo di tasca mia. Per seconda cosa mi facevano rallentare tutte le operazioni di fatturazione e bolle per mille casini che non voglio neppure pensarci. L’ultima inculata era la peggiore: il tempo. In primavera o in autunno pioveva sempre e dato che non sapevo dove si trovava esattamente la merce mi imborbavo di acqua insieme ai documenti di trasporto. Se era inverno faceva buio e non riuscivo a trovare un cazzo, così per prendere un pacco di spinaci col marchese rischiavo il congelamento di entrambe le falangi. D’estate invece se non recuperavo la roba in fretta, rischiavo di farla marcire per colpa del caldo. E quel giorno stava iniziando a fare veramente caldo.

- Ah, ah, Jim, come farai quest’inverno?

- …?...?

- È estate e giri con quel giaccone da cella frigorifera…

Lo fissai e lo vidi in tutta la sua follia miscelata a stupidità culturale. Era Pinco Pallino, il tizio che mi aveva “insegnato” il lavoro. Faccia apparentemente seria, sposato, benvestito ed eretto. Festaiolo all’occorrenza, con un pizzico di goliardia rusticana. Mi fissò attraverso i suoi occhiali perfettamente bilanciati che riflettevano il mio cazzo storto.

- Ma…- gli dissi accendendomi una sigaretta - chi ti dice che saremo qua quest’inverno?

Pinco Pallino si toccò i coglioni e si mise a ridere. In realtà non intendevo pensare alla nostra morte, anche se mi sarebbe piaciuto, soprattutto la sua, ma pensai solo al fatto che al più presto me ne sarei andato da quel posto di lavoro di merda.

Pinco Pallino fece un’altra battuta, poi salì di corsa sul furgone e volò via, lasciandomi solo nel piazzale vuoto.

Era passato un po’ di tempo, non saprei dire quanto, ed ero ancora là, con il mio mal di testa. Gettai la sigaretta vicino ad una caditoia e feci mentalmente il punto della situazione. Non avevo fatto ancora un cazzo. Fino a quel momento avevo solo aperto la serratura del furgone e pensato alle mie stronzate. Teoricamente a quell’ora i normali venditori IceFive avevano già caricato il furgone, compilato le cento carte del cazzo, fatto carburante e tutti gli altri soliti cazzi bubbonici.

Probabilmente se ne erano già andati in giro a vendere. In quel momento arrivò la segretaria. La fissai direttamente sui capezzoli sporgenti e mi venne un’erezione incontrollabile. Non so come mai, ma dopo una mega sbronza mi tirava sempre. Mi venne perfino un giramento di testa supplementare che mi fece barcollare fino ad appoggiarmi sul furgone di merda. Forse quello era causato dalle troppe sigarette. Ne avevo già fumate una barca e, fidatevi, dopo aver bevuto una cisterna e aver dormito per modo di dire, le sigarette ti battono in testa. Però non puoi farne a meno, perché ti tengono sveglio spendendo pochi soldi.

Capezzoli. A punta. Una punta dura e sottile, con una ghiera scura intorno. Un disco fresato in rilievo su due tette di marmo grosse e a pera. Dure e malleabili allo stesso tempo. Due tette alla giusta altezza sul busto, severe e giudiziose. Mammelle da succhiare.

Il mio occhio destro intercettò sullo sfondo grigio del capannone di lamiera la sagoma sfocata di Silvio. Riavvitai il mio teschio sulle spalle ed inquadrai la segretaria con sguardo professionale.

- Dove mi mandi di bello ‘sta mattina, tesoro?

Non era proprio quello che intendevo per professionale, ma ormai le mie labbra avevano preso coscienza propria e componevano da sole le mie parole.

- Ad Asgard

Troia. Un posto un po’ più in culo, no? Due ore di strada per finire in una merda di paese in mezzo ai monti. A vendere merda pressata, che a quanto pare piace. Ad inculare i vecchi e le casalinghe assatanate di sesso, ingorde di sperma.

- Jim, ecco qua le tue carte.

La babusca mi rifilò tutto il malloppo di scartoffie. Lista dei clienti da visitare, lista delle consegne, fogli delle promozioni, cazzi pressati e testicoli fritti. In base alle mie merde di elenchi iniziai a caricare la merce. Tranci di fustagno, pizze ai crauti, gelati ai piselli verdi, castagne alla bourguignon, lastre di styrodur, involtini di condilomi, ragadi fritte e polipi anali, feci surgelate. Feci anche il pieno di gasolio, compilai le relative carte con litri, chilometraggio, numero di matricola, targa del furgone, colore, pressione delle gomme, temperatura interna della cella, temperatura esterna all’ombra, al sole e dentro il capannone. Pre firmai le bolle, le consegne, il mio stato di famiglia e dopo un ora balzai in sella al mio transistor. Non mi sentivo bene.


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