Modello Amàrantos



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Il furgone decollò sopra la statale alla “folle” velocità di 80 chilometri orari. Vibrava come un vibratore anale. Era il peggior furgone che avessi mai guidato. Probabilmente aveva una ventina di anni. Sotto il cruscotto c’era una bottiglia di acqua con l’etichetta sbiadita. La stappai e la degluttai tutta nel giro di venti secondi. L’alcol mi aveva completamente disidratato.

Fuori iniziava a far caldo. Il sole era sempre più alto ed arrogante. Mi tolsi il giaccone.

A circa metà strada decisi di fermarmi per un caffè. Sostai in uno dei soliti bar dove sostavano i miei soliti simili, membri della famiglia IceFive. Fortunatamente non c’era nessuno che conoscessi, se non la barista, una discreta vulva. Ordinai un cappuccino. Non feci neppure tempo a finirlo che un crampo mi spezzò in due lo stomaco. Balzai nel cesso e vomiti con così tanto gusto che mi venne un’erezione. Tirai lo sciacquone, aprii la porta, ma dovetti richiuderla immediatamente perché un altro conato mi assalì l’esofago. Ok. Va tutto bene. Faccio finta di niente e me ne vado. Scivolai fuori dal locale a testa bassa.

- Ehi, fermo! Ehi, torna qua!

Misi in moto e sgommai via.

Che cazzo vuole la troia? Si è già accorta che le ho imbrattato il cesso? Ah, no. Non ho neanche pagato. Meglio. Tanto in quel posto di merda non tornerò mai più.

Asgard. Sono le undici. La mia prima consegna era alle nove e mezza. Che cazzo me ne frega.

Scesi dal furgone insieme al mio mal di testa, al sonno e al mio stomaco in putrefazione.

- E questo sarebbe un servizio? Sono le undici e mezza!

- Si calmi, si calmi signora...

- Ma dove è finito il solito venditore? Lui sì, che era puntuale...

Vecchia di merda - È in ferie, in malattia, è morto.

- Come, prego?

- È in Tailandia a fare turismo sessuale.

- ...

- Ecco qua. Due sfilatini di nerchie, tre confezioni di sburrate filanti e un bel sacchettino di supercazzola prematurata con scappellamento a destra.



- ...

- Ma non volevo queste. Volevo quelle sulla scatola rossa, queste fanno schifo.

Quelle con la scatola rossa non ero riuscito a trovarle. Probabilmente mi ero dimenticato di caricarle a bordo. O forse mi stavano solamente sul cazzo.

- Ha ragione signora. Ecco il conto. Sono 39 sesterzi.

Quando non sapevo cosa dire sparavo il conto. Se la cifra era alta gli altri discorsi si seppellivano seduta stante.

- 39? Così tanto?

- E le ho fatto anche lo sconto. Sarebbero stati 42 e cinquanta.

Ovviamente era una cazzata

- Ah, bravo giovanotto, lei è quasi meglio dell’altro venditore. Lui mi ha mai scontato neppure uno scellino.

- Ah, eh.

Levai le ancore e me ne andai. Avevo appena esaurito le mie ultime energie.

Allora, via Fiume numero 69. Via Fiume... Eccola là.

Il sole stava diventando sempre più potente e ortogonale.

Discesi un vicolo strettissimo. Ripidissimo e lunghissimo. Sbarcai in una sottospecie di piazzetta e letteralmente mi incastrai con il furgone tra un trattore agricolo ed un muro di cemento. Scesi dalla portiera del passeggero, perché l’altra era incastrata contro il catafalco pieno di letame.

Cazzo ho spaccato un altro retrovisore!

Era il terzo nel giro di dieci giorni.

Provai a girovagare in cerca del civico 69.

- Mi scusi - chiesi ad un tizio vestito da tirolese che passeggiava con un rastrello sulla spalla - per caso sa dove abita la signora tal dei tali?

- È morta due giorni fa.

- ah. Mi dispiace.

- Non deve dispiacersi, era una vecchia troia.

- ...


Abbassai la testa per nascondere le risate e tornai verso il furgone.

Porco due. Un figlio di puttana mi ha parcheggiato dietro un’ape piena di merda di vacca. Fanculo.

Mi infilai dentro il macchinario e restai ad aspettare per qualche minuto.

Accesi una sigaretta, feci due boccate, poi la gettai via. C’era troppo odore di merda per poter stare con il finestrino abbassato. Alzai il cristallo e accesi la radio. Il sole batteva sul parabrezza e sul mio teschio, la merda sulla carrozzeria ammaccata della cella frigorifera.

Abbassai il frontino del cappello e chiusi gli occhi.

L’evolversi bizzarro degli eventi mi consigliò una bella dormita. Fanculo alla famiglia IceFive.

Il mio nemico

Era venerdì.

Accesi il macchinario; era un classico venerdì, di quei venerdì pieni di vita, solo per il semplice fatto che erano dei fottuti venerdì. Uscii lentamente dal vicolo percorrendolo tutto in seconda, poi buttai l’occhio a sinistra a mi incuneai nella statale semi deserta. Solo per pochi chilometri però, poi fu il caos. Non pensai a niente se non ad accendere la radio in una stazione del cazzo, dove non facevano musica, ma parlavano solo delle loro nerchiate. Ero felice e scazzato contemporaneamente. Felice perché era venerdì e scazzato per tutto il resto. Quand’ero così non volevo sentire niente che fosse impegnativo e niente che mi donasse particolari emozioni. Volevo solo star lì ad ascoltare qualche cazzata e a fumarmi la mia sigaretta nel traffico.

- Non è possibile che un’auto costruita con pezzi di ricambio venga a costare più del triplo del suo valore commerciale! Manodopera esclusa, ovviamente

Era qualche John alla radio che sproloquiava giustamente.

- Senta, direttore, lei ha perfettamente ragione, ma noi...

Se aveva perfettamente ragione, che cazzo aveva da ribattere il sig. John n. 2? doveva tenere la bocca chiusa. In realtà pensava che quel direttore fosse un coglione e sapeva di esserlo anche lui

- Le racconto una mia esperienza personale. Nel lontano mille novecento xy comprai una frizione originale, e sottolineo originale...

Pensai un attimo al mio cofano sgangherato ed al paraurti che avevo appena aggiustato con il bostik e mi misi a ridere. Ascoltai il direttore ed il suo socio ancora per qualche minuto, poi cambiai su una stazione dove stranamente parlavano di sesso. Dicevano “clitoride”, “glande”, “anale” e una valanga di altre volgarità, gratuitamente, senza pensare che ad uno come me avrebbe potuto dare fastidio. Non pensavano che alle nove di sera la radio l’ascoltavano anche i bambini di sei anni e i vecchi fascisti. Mi girarono i coglioni con così tale irruenza da spegnere il cantiere e bestemmiare un po’, giusto perché ne ero abituato.

Ormai ero in piazza e scesi dall’auto per entrare in un osteria di a comprarmi le sigarette ed aspettare lì il mio vecchio socio. Mi feci fare anche un caffè corretto Sambuca, non un caffè con una merdosità di pseudo sambuchina dosata col contagocce, ma una buona e santa dose di molinari. Non troppa, altrimenti avrei ordinato direttamente un bicchiere, ma neanche troppo poca: la sua dolcezza doveva sostituire pienamente lo zucchero, infatti per me era una rottura di coglioni star là a strappar bustine e mescolare come i deficienti. Mentre sorseggiavo guardavo in giro le facce da cazzo che ondeggiavano in quel cesso di posto. L’unica cosa buona lì, oltre alla varietà di marche di sigarette, era il prezzo veramente basso del vino. In un paese come quello, in cui i baristi erano dei ladri, solo questo particolare bastava a rendermi un affezionato cliente. Ormai la mia tazzina se ne stava già nelle grinfie di qualche puttana su un qualche tavolino ed il mio pacchetto di west da venticinque si stava ridimensionando a venti come tutti i suoi simili. Tutto ciò era molto bello mi suggerì di guardare l’orologio che batteva la mezza. Via. Fuori dal cazzo.

- Quel coglione di Bob mi ha tirato il pacco, o per lo meno è in ritardo come al solito - dissi fra me e me. Non me la presi tanto, dopo tutto il re dei ritardi e dei pacchi ero io. Infondo me lo meritavo. Accesi la radio e puntai a nord, verso Avalon, dovevo infatti passare un paio di giorni di festa dal mio socio David. Festa. Pasqua. Santiddio. Odiavo queste stronzate. Però era positivo il fatto che nessuno in quei giorni andava a lavorare e tutti si sentivano più buoni. Anzi quello era Natale, fatto sta comunque che nessuno ci andava dentro le fottute fabbriche e nessuno si inviava ad imbastire muretti di cemento. Era bello e romantico, una festa che univa tutti quanti a tavola per mangiare l’agnello e le uova di rinoceronte. Chissà che contenti che erano i pastori sardi, che mangiavano agnello 365 giorni l’anno. Chissà che contenti che erano gli ovipari. Chissà che contento che era Gesù, dato che gli spostavano la resurrezione ogni anno, a secondo della loro luna.

Viaggiavo, senza ma ne perché, in silenzio, senza radio ne ulna, senza pudore e timore. Ogni tanto tiravo un porco pensando che avevo ammaccato ancora tutto il muso del macchinario. Ogni tanto mi chiedevo perché ero così stupido da incazzarmi, visto che mi succedeva una volta al mese e soprattutto che ogni volta andavo a regalare miliardi al carrozziere. - Non si preoccupi, mi diceva con tono scanzonante, tornerà come nuova! - Porco due, pensavo, con quei soldi là, a momenti la compro nuova sul serio. Ma quella volta non l’avrei di sicuro messa a posto, no. Mi sarei tenuto la targa di cartone ed il fil di ferro per tenere il cofano, come è vero il vero. Iniziavo ad annoiarmi ed accesi quindi la radio, anzi buttai su un cd di De Andrè.


Quando arrivai in paese, ormai erano le undici e molta gente si era già allontanata dalla piazza, per lanciarsi in qualche locale fuori mano, tipico di ogni venerdì sera. Lasciai l’auto di fronte al pub centrale, nel quale molto spesso era rintanato il vecchio David. Come immaginavo lo trovai seduto su uno di quegli assurdi sgabelli alti trenta metri, mentre sorseggiava una bevanda analcolica.

- Ehi, Jim, finalmente. Allora, stai da me per qualche giorno?

- In teoria fino a domenica sera, al massimo fino a lunedì mattina

- bene, bene, faremo cinebrivido - Mentre diceva queste parole gli brillarono gli occhi come sotto effetto da qualche sostanza non troppo legale, in un paese di merda come questo. Mi sedetti al tavolo e tirai fuori il mio pacchetto di ovest ormai decimato da questo vizio che mi avrebbe ucciso, però non senza darmi queste immense soddisfazioni.

- non c’è una minchia di nessuno questa sera. Sono già andati via tutti?

- le donne gli hanno rapiti, comunque io non mi muovo dal paese

- bene, anche perché non ho proprio più voglia di guidare, anzi, non ho voglia di fare un cazzo...

- come mai così tardi? Ti ha fermato ancora la pula?

- no, no, taci, sono stato sei giorni ad aspettare quel coglione di Bob, che poi non è neanche arrivato. Sai com’è quel melcico…

Nel frattempo ordinai da bere, come da copione, e per non smentirmi non lo feci solo una volta.

- socio, andiamo fino al dopolavoro? Forse là c’è movimento, e anche se non ce n’è lo facciamo noi

- sì, sì, mi sono rotto il cazzo di stare qua e poi mi tocca aspettare mezz’ora ogni volta per mezza ombra. Neanche fossero pieni di lavoro

Il dopolavoro era piazzato circa cinquanta metro più avanti, dall’altra parte della strada ed era un posto molto più da sbronze, anche perché chiudeva sempre verso le cinque di mattina. Salimmo la rampa di scale per entrare e sorprendentemente all’ingresso c’erano un paio di ignorantoni sbronzi che parlavano di calcio, con tale enfasi e passione, neanche fosse stata una donna con la figa di cobalto. Anche a me piaceva parlare di calcio, ma in senso lato ed angolo, infatti odiavo i fanatici e i piangi sconfitte. Non ero tifoso di nessuna squadra in particolare, più che altro a me interessava guardare il bel gioco ed il bordello che c’era ogni volta nei grandi stadi durante le grandi partite. Tutti i benpensanti condannavano le risse e la violenza tra gli spalti, invece io non aspettavo altro per esaltarmi un po’ e ridere dei casini che succedevano con i presidenti e i vari John che straparlavano di calcio. Il fatto che la gente si picchiasse per la propria squadra mi sembrava una cagata immane, come quella di un elefante africano di 60 anni, ma per me il 90% di quei pazzi non lo facevano perché 11 deficienti strapagati avevano perso, ma solo a causa della loro indole baruffante. Un po’ come i venditori di droga al dettaglio. Facevano rissa e si accoltellavano per tradizione, più che per rabbia. Io di sicuro non sarei andato a spaccare il truglio a qualcuno perché un arbitro venduto ha dato trenta rigori al 99°. Ma l’occasione fa l’uomo ladro. Infatti se fossi stato nervoso per i cazzi miei, avrei sicuramente colto l’occasione per far colare un po’ di sugo dal muso di qualche sfigato.

Poi mi piaceva l’atmosfera di tensione che si creava quando eravamo tutti riuniti dentro qualche cantiere oscuro a tifare la stessa squadra. Si beveva a contratto e non mancavano insulti all’arbitro e tremendi bordelli quando qualcuno segnava. Cinebrivido.

Mentre questi pensieri mi saettavano nella mente entrai nel locale insieme a David e ci piazzammo vicino alla TV, dove tra l’altro si potevano sfogliare dei giornali accatastati con un criterio random, di varie annate, più o meno interessanti. L’atmosfera era ripugnante per la mistura di odori marci provenienti da pizze sfornate a quintali ed il fumo massacrante della gente sudata ed intasata. Andai in cesso a svuotare la mia nerchia del pesante bottino della serata e sorprendentemente l’aria lì non sembrava affatto in putrefazione, come immaginavo. Aprii il rubinetto con la forza del pensiero o più semplicemente interrompendo involontariamente un qualche misterioso raggio invisibile, che correva instancabilmente tra due affari incastrati nei due versanti del lavandino. Mi rinfrescai il truglio ormai bollente per l’aumentare dell’alcool nel mio corpo e, non mi appena mi riassestai, vidi una faccia nota che sorrideva nello specchio. Non ricordavo come si chiamasse, ma sapevo chi era e lo salutai. Lui disse qualcosa di incomprensibile per una persona normale, forse una specie di saluto, poi se ne andò, inspirando pesantemente dalla sua campana, probabilmente rigonfia di polvere da sparo in negativo. Dondolai la testa in segno di disappunto e pensai che quella roba si sarebbe trovata molto meglio dentro di me e non a quell’idiota insignificante. Uscito dal cesso ripresi posizione vicino a David ed ordinai ancora qualcos’altro da bere. Un J&B. Appena lo presi in mano sospettai che quella sera sarebbe andata a finire molto male, infatti inconsciamente ordinavo quel tipo di strizza fegato solo quando volevo farla secca e niente più. Dall’altra parte della sala, tutte intorno ad un tavolino che faceva angolo, brindavano un gruppo di tristi babusche allegre. Da quando erano sedute non facevano altro che ordinare giri di fragolino, martini originale - non gibò - prosecchi e altre goliardie tipiche delle donne. Stavano là, quasi tutte vestite di nero, giovani e trombabili, chi più e chi meno, ma avevano un qualcosa che non mi ispirava. Qualcosa di oscuro come i loro vestiti, qualcosa di lugubre come le loro voci stonate.

- Porco due, Jim, guarda che compagnia. Sembrano delle vecchie ubriacone

- Io però me le scoperei tutte - Risposi con ghigno guardando un culetto dondolante cinebrivido

- No, non dico che siano marce dal punto di vista fisico, ma così, mi danno l’idea di baldraccone sessantenni

- Che siano tutte baldracche non ho dubbi e sinceramente anche a me mettono la depressione caspica

David continuò a scrutare le babusche cercando di trovare un senso in tutto ciò, mentre io non riuscivo a smettere di pensare a quel culo che mi stava parlando. Santiddio, come avrei voluto infornarlo!

- Solo qua ci sono certe compagnie così deprimenti…- Continuò il mio socio dopo essersi acceso una Marlboro

- Beh, David… per me, agli occhi della gente, appariamo molto più bigi noi di quelle là

- Anche se non è vero, però… - Azzardò il mio socio

- Purtroppo la verità della gente prevale su quella delle singole persone

- In un certo senso però è un bene, è come dire che la maggioranza vince, o no?

- No, per me un po’ come mescolare la merda col cioccolato. Anche se c’è molto più cioccolato che merda, chi cazzo se lo mangia?

- Però quelle là sono tutte puttane - Tagliò magistralmente il discorso David, poiché si stava facendo troppo pesante per due finferli come noi. Di tutto quello che dissi e pensai dopo quei discorsi ricordo solo quel bellissimo e succulento sedere che mi faceva rizzare la nerchia. Anche se parzialmente. Comunque l’intenzione c’era tutta, eccome. Puttane. Puttane. Di fronte ad un nuovo J&B rimuginai su quel prezioso e libidinoso termine. Immaginai a cosa avessero fatto se fossi andato là con la nerchia dura in mano, magari non la mia, ma una molto più poderosa ed eruttante di sburra. No, non si sarebbero tirate indietro, no, me l’avrebbero affondata a turno in tutti i loro orifizi. Mi avrebbero pregato in ginocchio di sbiancargli il truglio a tutte quante, mentre ancora si smandrellavano e succhiavano le labbra vaginali una con l’altra. Puttane. Nascoste dietro alle mura di un’università o di un capannone di una fabbrica non facevano altro che pensare a prenderlo, tanto e duro. Vivevano solo per succhiarlo e passarselo a turno come fosse l’ultima delle droghe. La loro vita era solo farsi sbattere da qualcuno che ce l’avesse grosso e che fosse violento, che glielo infilasse nel culo mentre stantuffava una zampogna tra la grondante bocca vaginale. No, non potevo accettare che fossero così puttane, non riuscivo a starci dentro con la testa.
Quando ripresi la cognizione del tempo e dello spazio, mi ritrovai in casa di David.

- Ehi, ma Jim, non ti ricordi più una sega?

- No, no, ti giuro, ho un vuoto completo. Mi succede sempre quando esagero dopo una giornata pesante…

- Non mi sembravi preso troppo male, comunque…

- No so dirti, l’unica cosa…santiddio!

- Attento!

Rischiai di inciampare sul suo cane meticcio. Mi distesi sulla poltrona, sorprendendomi di quanto fosse instabile il mio equilibrio e chiesi una birra al mio soma. Mi accesi anche una sigaretta e mi sembrò amarissima, o forse era la birra che non mi piaceva, non mi ricordo. David invece accese il suo PCpds per farsi un tour in internet in qualche chat o in qualche sito porno o vattelapesca. Mi sentivo veramente rintronato, ma per nulla stupito, anzi ero quasi sorpreso di essermi riassestato per un attimo. Restai lì a guardare la stanza che avevo visto ormai mille volte, ma era l’unica cosa che mi sentivo di fare. David stava disteso sull’altra poltrona, con lo sguardo ipnotizzato dal monitor ed ogni tanto sparava qualche cazzata. Il computer era in un angolo, per terra, mezzo aperto, con cavi che si aggrovigliavano in ogni parte. Il monitor stava sopra ad una specie di piccola scrivania di truciolare e per terra c’erano casse acustiche di legno rustico da per tutto. Le aveva fatte lui, di ottima qualità, a discapito dell’estetica. Erano infatti assemblate con grosse tavole di larice non piallate, incollate le une con le altre in modo da formare dei parallelepipedi quasi regolari, traboccanti di silicone bianco o marrone, a seconda della dimensione della cassa. Io stavo lì sulla mia poltrona color grigio pene di topo, così come il cane che a dir poco si mimetizzava con l’arredamento. La luce era spenta e vedevo brillare le fluorescenza del monitor, che rischiarava il frigo ed i fornelli colmi di piatti sporchi e porcherie. Quella stanza era una specie di soggiorno misto cucina misto laboratorio misto salotto. Dalla parte opposta, nell’oscurità si intravedeva la tv ed il tavolo che sovrastava la panca di legno, sulla quale come al mio solito sarei andato a dormire. Neanche David dormiva nel letto, normalmente piazzava le due poltrone specularmente una di fronte all’altra e con tutta la sua statura si contorceva in mezzo, coperto da un piccolo piumino rosicchiato dalla bestia. Appoggiai il vuoto sopra alla credenza dov’era parcheggiato un modellino di macchina arcaica, stile auto di Lupin, poi presi anch’io una coperta, molto più sostanziosa di quella del mio socio, e mi sollevai a fatica dalla poltrona:

- Ehi, soma, io mi butto sulla mia panca a dormire. Che ore sono?

- Bo, le tre le quattro. No, le quattro e mezza. Io sto qua a tirarmi giù due pancianate da internet. Notte finocchio...

Feci faticosamente i due metri che mi separavano dalla panca, con il cane ringhiante appeso al bavero delle braghe, così mi buttai a piombo sul legno che accolse bestemmiando il mio corpo marcito.


Era sabato.

Mi svegliai presto, alle nove, credo. Non di certo per mia volontà, ma per colpa di quel cazzo di cane che mi stava tirando la coda di capelli che avevo in testa.

- porco due! Sta cazzo di volpe di merda! Lasciami stronzo…

Il cane non mollava. Fui costretto ad aprirgli la bocca con le mani e a buttarlo sulla poltrona dove dormiva il mio soma.

- porco Giuda! Che cazzo ha il mio cane questa mattina?

- Ehi, David, oggi è in forma il tuo cane!

- Basta, adesso lo butto fuori dai coglioni, così impara a scassarmi le palle!

Prese il cane per il collo, aprì la porta e lo lanciò fuori in giardino, dove si mise subito a guaire da vigliacco.

- questo è quello che si merita quello stronzo! - dissi

- Guarda, sta notte mi ha mangiato tutta la manica della maglietta, questo gran figlio di puttana!

Bestemmiando mi alzai e mi indirizzai verso il cesso per pisciare e sistemarmi un po’ da tutto quel casino che avevo addosso. Quando tornai al piano di sotto la collera mi era svanita e nel giro di un attimo ritornai ad essere rincoglionito, come da copione. Mi ributtai sulla panca e praticai del dormi veglia fino ad un’ora non definita, con la speranza di smaltire del tutto la sbronza, mentre il mio socio smanettava ancora sul computer alla ricerca di una cazzo di foto. Ogni tanto riemergevo dagli inferi e dialogavo un po’ con le persone reali, in uno stato abbastanza comatoso, ma per niente fastidioso. Non riuscii a distinguere perfettamente se le mie parole fossero rivolte a David o al cane o addirittura a chissà chi altro. Mi sembrò infatti che nella stanza ogni tanto ci fossero una o più presenze estranee. Probabilmente passò di lì sua sorella, magari con suo moroso con il suo occhio di vetro o magari qualche melcico che frequentava l’ambiente. Ma. La cosa più strana è che sono convinto di averci parlato con queste entità. Budello di Giuda cane maiale. Pensai di essere pazzo.

Arrivò un’ora prossima a mezzogiorno e David fece bollire qualcosa in pentola, probabilmente l’acqua per la pasta. Mi svegliai definitivamente dal mio torpore e riempii completamente le mie bisacce. Accesi persino la tv e locchiai qualche pubblicità di film che sfornavano al cinema.

- Le solite puttanate

puntualizzò David con sicurezza

- hai ragione. Casini. Esplosioni. Terroristi. Fighe. Come il film del cazzo che ho visto l’altra sera, con Steven Segal. Erano anni che non vedevo una stronzata simile

- Che roba è? - chiese il mio socio - Uno di quei film dove lui è strafigo e uccide tutti?

- …e quando lo colpiscono con il mitra è come se lo pizzicassero con l’uccello di un neonato - completai con fierezza.

- Doveva salvare sua figlia o sua morosa?

- Sua figlia, mi sembra...

- porco due, la solita puttanata - continuava a ripetere David.

- dovevi vederlo! C’erano dei terroristi su un treno, tra cui il compagno di merende di Segal e uno scienziato pazzo che lavorava per la CIA. Con un PCpds comandavano l’arma che poteva distruggere il mondo, e cosa fanno gli idioti? Minacciano l’ONU, la NATO, il governo, l’umanità intera ed il boia di un Giuda, diresti te. No. No. Loro vogliono un miliardo di dollari.

Ovviamente su quel treno chi c’è? Steven Segal, con tutti i suoi arsenali. E non è finita. Chi c’è oltre a lui, che ovviamente non sapeva? Sua figlia o nipote o vattelapesca, che ovviamente viene rapita dal genio criminale. Poi tutti sparano. Cinquanta contro uno a due metri di distanza, ma lui li secca tutti. Poi ad un certo punto si trova nel vagone bar, va da un negro che lo stava aiutando ad uccidere i cattivi e gli dice: - ho la soluzione per farli fuori tutti! Passami del Gin, della Vodka e del succo all’arancia! - A quel punto te dici: - va beh, ha visto che sta andando tutto a puttane e almeno si fotte un paio di drink - Invece no! Prende le bevande, le mescola, poi nella scena successiva lo inquadrano con in mano un container di acciaio da drink, con un timer sopra e dice: - hai visto? Ho costruito una bomba. Con la tecnica che mi hanno insegnato in Vietnam! - Porco due, ero piegato per terra a ridere come un mostro di Dirkinson!


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