Modello Amàrantos



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Mi alzai e vidi qualche sagoma scura oltre le fessure del cartone della birra.

- È aperto, stronzi, la porta è appoggiata…

Nel giro di due secondi mi trovai spalle al muro con le mani in alto. Erano i Cartabinieri. Ovviamente in due, un vecchio ed un giovane.

- Allora, cosa sta succedendo qua?

- Che macello, maresciallo… - balbettò il numero due

- C’è stato un festino…

- Un festino? Una rissa direi, più che un festino

- Eh, lo sa come sono i vecchi alpini. Bevono un goccio di troppo e poi s’azzuffano… - non sapevo più che cazzo inventarmi per sminuire il tutto.

Mi perquisirono alla svelta, poi dopo essersi accertati che non fossi armato ci chiesero i documenti, come da prassi. Naturalmente fecero anche le loro classiche telefonate alla centrale, bla, bla, bla e via discorrendo.

- Qua ci risulta che lei è già stato segnalato anche per un mucchio di altre cazzate…

- E questa volta, l'accusa cos'è?

- Schiamazzi notturni. I vicini hanno detto che ormai questa storia va avanti da una settimana e questa sera avete superato il limite

Non aveva tutti i torti, pensai, ma preferii tenere per me questa affermazione.

- È grave la situazione?

- Mah, faccia un po’ lei

Che cazzo di discorso era. Non valeva neanche la pena di aggiungere altro.

Ci fu un attimo di silenzio mentre gli sbirri iniziarono a blaterare i cazzi loro, poi dissi una frase di routine giusto per poi sentire la classica risposta da film.

- Maresciallo, vuole un po’ di vino? è roba buona!

- Non possiamo bere in servizio

Bene, ero soddisfatto.

- Le dispiace se diamo un’occhiata in giro?

- Fate come se foste a casa vostra, non ho niente da nascondere.

Avrei potuto anche mandarli a cagare, ma preferii fare un po’ il leccaculo, tanto per finirla in fretta.

Iniziarono a scartabellare in giro: guardarono dentro la dispensa, il frigo, gli armadi. L’appuntato si soffermò persino a svuotare il contenitore del caffè. Sorrisi, pensando che fino alla sera prima Bob teneva lì nascosta la sua roba. È il posto più sicuro del mondo, mi disse. Qui neanche i cani possono sentirne l’odore. L’avevo sempre detto che era un idiota.

La storta mi era un po’ passata, a causa di tutto quell’ambaradam Avrei voluto quasi, quasi chiedere ai Cartabinieri se avevano un mandato di perquisizione. Nei film funzionava sempre, ma quello non era un film ed io per loro ero solo un pezzente, alla pari dei barboni che dormivano nell’atrio del centro commerciale

- Trovato, niente?

- niente marescià, tutto a posto, a parte il casino

- ma io, adesso, che cazzo devo fare? Intervenni in preda all’alcol e al giramento di coglioni.

- sperare che i suoi vicini ritirino la denuncia…

- ah.


Firmai per l’ennesima volta un volgarissimo verbale, nel quale scrissero tra l’altro che non avevo droghe, armi e strane porcherie. Ne avevo pieni i coglioni di queste buffonate. Una volta dovetti firmare un verbale solo perché mi fermai a pisciare lungo una scarpata in autostrada. Avrei potuto uccidere la flora locale.

Cacciai giù tutto il resto del fragolino e persi completamente e definitivamente le mie facoltà psico - motorie. I tizi in divisa continuarono ancora per un po’ a bighellonare in torno facendo domande. Non ricordo che cosa mi chiesero ancora, so solo che avevo sempre la risposta pronta. L’ultima cosa che vidi furono quelle sagome blu scuro che uscivano dalla porta blaterando qualcosa.

Presi un foglio di carta e scrissi qualcosa, poi chiusi gli occhi.
- Jim ,Jim, apra per favore!

Mi svegliai di soprassalto. La mia stanza era piena di luce. C’era la tapparella alzata. Tutto in torno a me un odore rancido e bottiglie vuote ovunque.

- Jim, Jim, apra per favore

- Cazzo! Sì, arrivo.

Era il padrone di casa. Questa volta mi avrebbe buttato fuori, pensai. Mi fermai un attimo a riflettere se valeva la pena di sistemare un attimo prima di aprire; magari avrei potuto vestirmi un attimo, dato che indossavo una maglietta bianca imbrattata di vino rosso. All’ennesimo - Jim, Jim, apra per favore - mandai tutto a fanculo e corsi alla porta. Riuscii anche ad aprirla in modo da farla sembrare meno scardinata possibile

- Buongiorno capo.

Era il classico pensionato medio, un po’ tirchio, ma simpatico. Non però quella mattina.

- Sì, buongiorno - mi disse nervosamente - il limite è stato superato anche questa volta…

Fece una frase un po’ merdosa, con un tono piuttosto arrogante, biblico, ma ne intuii il significato nonostante fossi rintronato. Non era difficile da immaginare

- Eh, mi dispiace…- Ormai le mie parole contavano meno di un pallottoliere.

- Ti voglio fuori entro un paio d’ore

Questa volta invece fu chiaro e sintetico. Lo preferivo così.

- Non si preoccupi per la porta, pagherò tutto - Col cazzo.

- Non me ne frega un cazzo, ti voglio fuori e basta

- … - Va beh. Se insiste…

- Poi pagherai

- Ah, ecco

- fino all’ultimo centesimo.

Fui piuttosto sorpreso nel sentire un termine così volgare come cazzo fuoriuscire da un vecchio così educato. Forse era veramente arci stufo. Ed aveva ragione, ma io non potevo farci niente. Mentre confabulava lanciava occhiate sataniche verso l’interno dell’appartamento, così io restai immobile sulla porta per evitare che vedesse troppo. Quando finalmente se ne andò mi precipitai in casa a raccattate le mie cose. Dovevo sparire al più presto. Prima che si accorgesse di tutti i danni. Prima che tornasse a riscuotere l’affitto. Gli unici sodi che mi erano rimasti infatti erano i due terzi della rata di Bob e Ben. Li tenevo nascosti sotto la suola dei miei stivali.

Balzai con tutta la mia roba a cavallo della prinz e mi dileguai tra la neve. Le Grolsch mi avevano fottuto.

La festa degli specchi

Ed eccomi ancora qui, a girare a vuoto, senza neppure una meta e tanto meno senza volerne una. Alzai lo sguardo varcando un’altra porta uguale alla precedente e molto simile ad altre mille. Altre mille persone, diverse ma identiche nell’insieme, se messe insieme ad altre mille cento mila mille un milione. Non riuscii più ad immaginare quante fossero. Differenti, ma armoniche, come il basso e frustrante suono che vibrando mi tagliava la testa da un orecchio all’altro. Invadente come il vento che fischiava tra le canne aguzze e pungenti su un campo di amianto. Fastidioso e coinvolgente come nessuno riuscirà mai a descrivere; perfetto nella sua deformità vanificante e maligna.

Passo dopo passo, movimento dopo movimento, battevo il morbido ed avvolgente pavimento di moquette trasparente; duro ma contemporaneamente malleabile. Dondolavo tra un angolo ed un altro, senza riuscire però a toccare mai un muro. Piano, piano andavo avanti, verso un qualcosa che fosse almeno simile a prima, se non addirittura uguale. Ogni volta che non ero in grado prevedere quello che avrebbe potuto comparirmi di fronte, non riuscivo a proseguire senza timori ed ansie, come invece succedeva. Le casualità però mi vennero incontro, mostrandomi ben tre facce diverse della stessa medaglia, facendomi naufragare fra decine e decine di stanze irregolari. Vedevo bianche pareti oscurate dall’assenza di finestre e dalla moltitudine di uomini ed animali; volavo tra uno scompartimento e l’altro, sempre più lungo e storto, sempre più simile al precedente.

L’odore di fumo e droga mi distorceva l’istinto, sopprimendolo al volere dei sensi appannati e bugiardi. Un suono ritmico e nervoso mi rilassava i nervi, con la sua perversa e paradossale natura. Il tempo si dilatò improvvisamente, lasciandomi solo nello spazio infinito, mentre lui si contorceva su se stesso. La musica divenne meno martellante, quasi melodica, pacata, fino a scomparire. Camminai lentamente nella moquette divenuta improvvisamente come un prato, cosparso di colonne di abeti rossi e pini mughi che pungevano l’aria rarefatta. L’aroma delle piante mi pervase fino a farmi mancare il fiato, fino a svuotare per sempre i miei polmoni e a riempire il mio cuore di sugo bollente.

Un leggero ronzio mi attraversò il corpo, dalle orecchie fino alle caviglie, lanciandomi brutalmente in mezzo alla stanza. Tutto tornò a riempirsi di corrente magnetica e la musica iniziò a triturarsi nel mio truglio come polvere di stelle. Il mio corpo si coprì di ghiaccio arroventato da gas esploso ed i mie nervi silenziosi partirono per la loro guerra contro la fisica. Nulla riuscì a tenermi legato al suolo, nemmeno il pesante morale che sorreggeva gli spettri della gente. Buttai questo mio cervello malato tra le luci e lo vidi così schiantarsi su un soffitto di lapidi che nessuno osò violare. Forse per questo non lo rividi più e ritornai al suolo privo di ogni ragione, planando tra la folla indifferente e assetata di banalità. Pochi si accorsero che lì era tutto uguale, tutto perennemente identico a se stesso e a chi gli stava appresso. Un infinito agglomerato di vibrazioni e cemento.

Uscii da quella stanza barcollando, senza più alcuna speranza di poter rivedere la varietà folle che accompagnava questo mondo. Insieme alla voglia di cambiare il percorso che dovevo seguire, lasciai lì anche i miei vestiti e chissà cos’altro. Un rumore mi trascinò fuori come fossi ipnotizzato, un suono elettrico di un motore nucleare fece esplodere ogni mio atomo in una fontana di sangue. Con una goccia rossa che continuava a rinnovarsi sempre identica, sempre penzolante dal mio viso, mi tuffai in un’altra chiassosa sala piena di gente fluttuante. Anche quelle lontane mura mi mostrarono cinque, dieci, mille angoli e luci. Poi il mio passo sordo filtrò sotto una parete di cemento armato, svuotando i miei pensieri schiacciati da macigni di ghisa. Ancora rumore di una natura infinita e robotica mi assalì nell’ennesima stanza brulicante di odori artificiali e commoventi, senza però procurarmi alcuna piega sulla fronte.


Non so dire come riuscii ad uscire da quel posto e non so neppure per quanto tempo ci restai imprigionato. Ero distrutto e malconcio, con la testa rigonfia di pensieri contrastanti. Attraversai il piazzale e vidi la mia auto parcheggiata di sbieco, solitaria e malandata quasi quanto me. Non credo facesse freddo, ma neppure caldo e persino la notte ormai si stava mescolando con il giorno. Portai le mie palandre fino sul sedile davanti e con tre colpi di fortuna misi in moto, lasciandomi alle spalle mille ansie e frenesie. Probabilmente l’alba sarebbe sorta prepotentemente entro pochi minuti e la sua luce avrebbe messo in mostra tutte le mie paure. Scivolai lentamente fuori dal parcheggio come una lumaca bavosa sul selciato e non mi preoccupai più di tutto quello che mi ero lasciato alle spalle.

Svoltai all’interno della stradina più ripida; dentro un leggero solco di asfalto che penetrava l’erba con una violenza inaudita. Serpentai in prima quella tortuosa e scoscesa via, temendo di annegare in ogni goccia di rugiada. Riuscivo a vedere solo pochi metri oltre il cofano bollente, ma non per questo frenai la mia lenta corsa e continuai ad allontanarmi dal paese. Discesi in mezzo alla boscaglia per un paio di minuti, poi la strada ritornò a portarmi verso il cielo, senza neppure chiedermi se lo volevo per davvero. Finalmente l’asfalto si fermò ed io insieme a lui. L’alba non era ancora del tutto sorta e senza la luna che mi aveva tradito non riuscii a vedere bene la fine delle montagne. Scesi dall’auto senza prendere niente e mi incamminai lungo l’irte pendio che dominava il paesaggio.


La salita era tremenda e le mie gambe si rifiutavano di accelerare il passo. La mia mente era sempre un metro davanti a me e non riuscivo mai a raggiungerla. Ogni tentativo mi risultava vano e pertanto mi rassegnai di restarle dietro, quasi imprigionato dalla natura spettrale. Qualche goccia di pioggia pesante iniziò a tintinnarmi prima sulla testa, sulle spalle e poi per pochi attimi sentii l’acqua che si infiltrava in tutti i miei pori. Poi basta, ancora solo poche lacrime gelate sulla fronte ed il fruscio pesante del vento. Un lampo rischiarò senza rumore la montagna che mi sovrastava; la vidi così tutta in uno sguardo: imponente e distante, irraggiungibile ma reale, rigonfia e densa fino quasi a scoppiare. Forse sconcertato da quei maestosi fenomeni, lanciai un’occhiata alle mie spalle, verso l’auto parcheggiata infondo alla valle. Senza troppo stupore però notai che non era più la stessa; ormai quella piccola scatola verde faceva parte anche lei del tutto e non sarebbe servito a nulla tornarci dentro.

Proseguivo lentamente, senza troppa convinzione e senza false aspettative, confondendomi tra le piante azzurre che sgorgavano dal terreno in continuazione, senza sosta e senza temere di aggrovigliasi l’una con le altre. L’impresa mi sembrò sempre più ardua, il terreno sempre più irto e scosceso; il fango iniziò a penetrarmi nelle scarpe rendendomi quasi impossibile avanzare di un metro. La mia mentre però sembrava non stancarsi mai e scivolava imperterrita tra la ripida radura, senza evitare nessun ostacolo e senza coprirsi mai dalla misera pioggia. Sebbene sembrò impossibile, neppure il mio corpo si lasciò intimorire e nonostante i polmoni fossero ormai stremati ed il cuore battesse quasi a sfondare la cassa toracica, tutti i miei organi proseguirono saldamente senza sosta. Calpestai decine di boccioli chiusi, dall’aspetto sferico e prematuro e con essi tonnellate di foglie ed erba, fitta e pesantissima erba tagliente.

Quando il cielo sembrò quasi schiarirsi ed una baracca intrecciata di edere mi comparve alla sinistra, iniziai ad addentrarmi tra gli abeti. Lì tutto tornò buio come quando ero partito, se non peggio. Alberi nodosi e traboccanti di resina iniziarono a fuoriuscire uno dietro l’altro dal terreno sempre più povero di vita. Alti e vivi come non mai, occuparono ogni anfratto ed ogni mio angolo di veduta, uccidendo il primi miserabili raggi di sole che tentarono di rischiararmi la strada. Crescevano e si dislocavano in ogni direzione, facendomi smarrire l’orientamento ed ingannando perfino la mia mente. Qualcuno si muoveva al di fuori del mio campo visivo e mi sorprendeva alle spalle e talvolta riusciva a distrarmi dal selciato. Il sentiero era sempre meno visibile, sempre più invaso da veloci aghi di abete che aiutati dal vento si trascinavano ovunque, seppellendo ogni cosa come dune di sabbia. I rami secchi si intrecciavano e si annodavano, salendo lungo i tronchi ed ostruendomi ogni via di fuga. Io non mi feci intimorire e continuai ancora a salire, anche se non c’era più nessuna strada da poter vedere, sapevo che dovevo andare sempre più su, senza mai fermarmi.

Avevo lasciato troppe cose dietro di me e ciò nonostante andare avanti mi sembrò assurdo. Fui quasi tentato di fermarmi da qualche parte ad aspettare che venisse giorno, ma lo stesso giorno mi anticipò e finalmente tutto mi sembrò meno oscuro. La via si fece meno sfocata e gli abeti mi si allontanarono a poco a poco, quasi spaventati dalla forza che mi pervase in quell’istante. Il fango si dileguò e si sciolse insieme agli intricati rami che divennero sottili fili d’erba. Tutto sembrò scomparire tranne la montagna che continuava a dominare la mia infinita salita. Ormai si era fatta talmente imponente da mescolarsi con il cielo e le nuvole scure non scomparvero nemmeno con la brutalità del vento. Infatti una raffica di straziante rumore mi circondò, sciogliendomi le ultime gocce di sangue coagulato e trascinandomi ferocemente fuori dal sentiero, contro una staccionata malconcia e marcita, facendomi affondare il truglio in un tappeto di muschio odoroso.

Non fui in grado di percepire alcun contatto con quei vecchi tronchi di legno, quasi li avessi evitati, quasi fossi diventato inconsistente per un’infinitesima frazione di secondo. Finalmente mi rialzai, senza neppure muovere un arto e così vidi davanti a me una casa di pietra e legno. Non credevo però che quella fosse la mia vera meta. Mi fermai per un attimo a pensare, mentre la pioggerellina iniziò ad infittirsi e a penetrarmi sotto le vesti come stalattiti di cristallo appuntite e taglienti. La testa mi pulsava ancora per tutto quello che mi era successo ed il mio corpo continuava ad intorpidirsi sempre di più, al punto che non riuscii neppure a capire se fossi ancora sveglio. Finalmente sentii qualche verso indistinto di animali, miscelati dalla pazzia del vento e forse quello mi fece muovere verso una direzione, non di certo la più banale.

Viaggio di vomito

I capelli mi sfarfallavano davanti agli occhi e non vedevo bene la strada. Ogni tanto li buttavo indietro con un colpo di mano, ma tornavano imperterriti, indemoniati a colpirmi i bulbi oculari come sottili lunghe lamine pesanti e fastidiose. Il sangue iniziava così a sguazzare dalla mia fronte fino sulla punta del naso, poi giù ed ancora più giù. Scesi il vicolo strettissimo soffocato dalle case alte e compatte: un canyon al 30% di pendenza, trafitto da sassi vivi ed asfalto squamoso. Al primo bagliore di luce, giù infondo a questa tremenda via, mi fermai. I freni fischiarono a lungo e l’enorme macchina pesante si fermò di sbieco in mezzo ad una piazza deserta, se non per qualche balordo. Scesi dall’auto incurante della posizione in cui l’avevo lasciata e mi affrettai verso Roy.

Roy se ne stava lì appoggiato sulla sua jeep, nuova fiammante, percorsa da suntuosi tubi che incorniciavano quattro grosse ruote infangate. Non lo salutai neppure, così lui non fu costretto a rispondermi e si limitò a guardarmi di sbieco con gli occhi lucidi come due palle da biliardo. Ogni volta che lo vedevo era sempre uguale; con la lunga schiena ricurva ed i jeans logori e sgualciti. Talvolta portava anche un cappellino da baseball mutuato, ma quel giorno preferì lasciare scoperti quegli ormai pochi capelli neri.

- Andiamo Jim!

esclamò ruggendo.

Salimmo così lungo un bianco sentiero, oscurato dalla sua lunga ombra contorta e oscillante, lasciandoci indietro le sporche vetture. Dopo pochi metri spalancai la porta dell’osteria e fissai il barista tondo, peloso e con un fottutissimo occhio di vetro.
- Buona sera

Mi disse il guercio fingendo di non vedere il mio socio, alto ameno due spanne più di me e tre più di lui. Poi uscì goffamente da dietro il banco e si mostrò ancora più basso e grasso, ancora più brutto e peloso. Il suo occhio destro sembrò ancora più di vetro.

Roy si voltò e sputò per terra ridendo. Io sorrisi senza motivo ed abbassando lo sguardo sul pavimento sudicio brillai l’accendino senza speranza e provai a rianimare la mia cicca con ripetute boccate d’aria. Roy fissò il cielo fuori dalla finestra; io non mi pronunciai e restai con lì con lui in silenzio a guardare le nubi nere e schiumose che soffocavano il paese.

- cosa bevete, ragazzi?

Ci chiese finalmente l’oste, anche se con una certa titubanza.

- due bianchi. Anzi un bianco ed un rosso

- fai due rossi - disse Roy

Capovolse sopra il banco di larice due piccoli calici, stranamente sporchi, e gorgogliò pochi sorsi di nero da un fiasco ammuffito e malato.

- ecco a voi

- buttane ancora santiddio! Hai paura che i bicchieri trabocchino?

Il vecchio non ci pensò due volte e buttò vino fino a farne comparire un leggiero alone ai piedi dai calici, poi chiuse in fretta il fiasco e se lo imboscò dietro al banco.

- ma, allora Roy, quante ne hai di quelle bestie? - chiese il barista, che era anche zoppo

- 7 o 8

- 7 oppure 8?



- non fare il delicato che non ti si addice. E versa ancora da bere.

Il guercio questa volta fu molto più rapido nel recuperare il fiasco ed i bicchieri traboccarono al primo colpo, senza esitazione e compromessi.

- allora, posso venire a prendermele?

- te le portiamo noi, non preoccuparti.

Io stavo ancora in silenzio, con gli occhi per terra ed il sangue che gocciolava dal bicchiere. In quel momento pensai solo a bere, svuotai il calice in un lampo senza sentire neppure il gusto e soprattutto senza ascoltare i loro sporchi discorsi. A tal punto non mi restava altro che ordinare ancora un goccio.

- vengo io a prenderle, di te non mi fido

- ti ho detto che te le porto io!

Dopo queste parole Roy si sbilanciò verso l’oste, quasi avvolgendolo, e gli mise una mano sulla spalla stringendogli leggermente i nervi vicino alla clavicola, tra l’indice ed il pollice della sua mano ossuta.

- ok, ok, Roy, mi fido. Bevete ancora quest’ombra e poi aspetterò.

Io non commentai e mi limitai a svuotare il bicchiere fissando il quadro appeso al muro. Rappresentava un gran bel nero tendente al blu con budella e sperma dappertutto. Il sangue e la merda sembravano uscire dalla tela quasi a cadere nella testa deforme del barista storpio, intento a pulire i suoi lerci calici.

- andiamo! - Mi disse Roy voltandosi con sensibile rapidità. Percepii persino lo spostamento d’aria e scazzato come sempre decisi di seguire la sua corrente. Alle spalle mi lasciai un barista grasso, basso, barbuto e puzzolente, mentre soffocava tra il sangue e la merda discesi dal suo stesso quadro. Davanti a me c’era ancora il sentiero di prima, ancora una volta in salita, bianco ma infestato dall’ombra di Roy.

Salii in macchina sbattendo la porta e sprofondai nel sedile di velluto cigolante. Roy sbuffò e tirò indietro la leva per far spazio alle sue lunghe gambe. Misi in moto ed una canzone dei Velvet underground continuò il suo ritornello di droga e poesia.

Roy ne aveva 7 o 8 di quelle bestie. Roy. Il suo sguardo surgelato sopra il calore del finestrino ondeggiava e non mi prometteva niente di buono. Tirò fuori una Marlboro piegata dal taschino della giacca di pelle e poco dopo la spezzò nel posacenere bestemmiando.

- vado su? - chiesi retoricamente allegro

- vai, vai! - mi rispose pensando probabilmente a quelle sue strafottute bestie che non voleva nominare. Intanto sognava. Intanto continuava a viaggiare insieme a me senza meta e senza porsi il problema di che fine avrebbe fatto lui, forse io, sicuramente le sue 7 o 8 bestie di merda.

Ormai era buio e la musica si era spenta da un pezzo, così Lou, che era sdraiato da parecchie ore sul sedile di dietro, si svegliò. Forse per il silenzio.

- dove cazzo stiamo andando? - mi chiese sbadigliando vistosamente - ditemi che cazzo di intenzioni avete, perché io non voglio avere niente a che fare con voi e le vostre bestie!

Nessuno gli diede risposta e scelse saggiamente di tornare a dormire.

Ci fermammo all’ultima osteria del paese, prima del bosco, vicino alle ultime case che ormai si perdevano nel nulla.

Varcai la soglia e vidi un casino di gente, tutti impegnati nel loro non fare un cazzo. Qualcuno beveva al banco, altri stavano seduti a giocare a carte, qualcuno girava con la cicca penzolante e ruminava qualche parola imbrattata di bestemmie.

Mi piacevano quei posti e piacevano un po’ a tutti quelli che conoscevo e la cosa mi garbava. Salutai la cameriera, ma era troppo presa dalle moine dei vecchi per potermi dire qualcosa di più che un semplice ciao. Non me ne fregava un cazzo, non era di certo per lei che ero là e tanto meno per quei vecchi ubriaconi ed ancora meno per le bestie di merda di Roy.

- Bene - dissi senza enfasi e soprattutto senza aggiungere altro che non fosse superfluo. Forse anche quel bene era in più, ma ci stava. Roy attaccò discorso con qualche suo conoscente ed io ne approfittai per farmi i cazzi miei. Non che avessi molto da fare, infatti ordinai un rosso e rimasi a fissare il bancone del bar. Ogni volta che entravo in un osteria restavo sempre qualche minuto a fissare, contare e criticare le bottiglie di liquori che solitamente stavano dietro al bancone.

Odiavo quando mancavano delle bottiglie da me ritenute indispensabili, come la Sambuca, la grappa Maschio, il J&B e la vodka liscia stile Wyborowa o affini. Quest’ultima solitamente era sostituita da qualche merdume di pseudo vodka alla pesca, allo yogurt e al budello di Giuda e mi faceva incazzare. Talvolta me la prendevo anche col barista.

Quella sera tutto era splendido e la vodka era perfino Moskovskaya, costava poco ed aveva una potenza non indifferente. Splendido. Mentre mi chiedevo se il Vov tarocco, il famoso Zabov, del quale una volta avevo erroneamente rubato una bottiglia, fosse del ‘32 o del ’37, un vecchio marcio iniziò a rompermi i coglioni.


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