Margaret atwood



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to qualcosa di futile. Neanche lei l'aveva avuto.

La nonna Adelia era diversa, e abbastanza lontana nel tempo perché po-

tessi idealizzarla. Si sarebbe fatta in quattro per me; non avrebbe rispar-

miato né progetti né spese. Mi abbandonavo alle fantasticherie nella bi-

blioteca, studiando i suoi ritratti ancora appesi alle pareti: quello a olio, e-

seguito nel 1900, in cui esibiva un sorriso da sfinge e un abito del colore

delle rose rosse secche, con una profonda scollatura dalla quale la gola nu-

da emergeva all'improvviso, come un braccio da dietro la tenda di un ma-

go; le fotografie in bianco e nero in cornici dorate, che la mostravano in

cappelli a larghe tese, o piume di struzzo, o vestiti da sera con diademi e

guanti bianchi di capretto, da sola o con varie autorità ormai dimenticate.

Mi avrebbe fatto sedere e mi avrebbe dato i consigli necessari: come ve-

stirmi, cosa dire, come comportarmi in ogni occasione. Come evitare di

rendermi ridicola, cosa per cui intravedevo già ampie possibilità. Nono-

stante le sue incursioni nelle pagine mondane, Reenie non ne sapeva abba-

stanza.

Il picnic alla fabbrica di bottoni



Il fine settimana della Festa del Lavoro è arrivato e passato, lasciando

resti di bicchieri di plastica, bottiglie galleggianti e palloncini che si afflo-

sciano nel risucchio dei gorghi del fiume. Ora settembre si sta facendo va-

lere. Sebbene a mezzogiorno il sole non sia meno caldo, sorge ogni matti-

na più tardi, trascinandosi dietro la foschia, e nelle sere più fredde i grilli

stridono e friniscono. Astri selvatici crescono a gruppi nel giardino, dove

hanno fatto radici qualche tempo fa - alcuni piccoli e bianchi, altri più folti

e del colore del cielo, altri ancora con gambi color ruggine, di un viola più

intenso. Una volta, nei giorni in cui mi dedicavo saltuariamente al giardi-

naggio, li avrei bollati come erbacce e li avrei estirpati. Ora non faccio più

certe distinzioni.

Questo è il tempo migliore per camminare, la luce non è troppo forte o

abbagliante. I turisti si stanno diradando, e quelli che restano sono almeno

coperti in maniera decente: niente più pantaloncini giganti e prendisole

traboccanti, niente più gambe rosse e bitorzolute.

Oggi mi sono messa in cammino verso i Campeggi. Mi sono messa in

cammino, ma quando ero a metà strada è passata Myra in macchina e mi

ha offerto un passaggio, e mi vergogno a dire che l'ho accettato: ero senza

fiato, me n'ero già resa conto da un pezzo. Myra ha voluto sapere dove

stessi andando e perché - deve avere ereditato l'istinto del cane da pastore

da Reenie. Le ho detto dove stavo andando; quanto al perché, ho detto che

volevo soltanto rivedere il posto, in onore dei vecchi tempi. Troppo perico-

loso, ha fatto lei: non si sa mai cosa può strisciare tra gli arbusti laggiù. Mi

ha fatto promettere di sedermi su una panchina, bene in vista, e di aspettar-

la. Ha detto che sarebbe tornata a riprendermi dopo un'ora.

Mi sento sempre più come una lettera - depositata qui, raccolta là. Ma

una lettera senza destinatario.

I Campeggi non sono un grande spettacolo. Una striscia di terra tra la

strada e il fiume Jogues - un acro o due - con alberi e cespugli stentati, e in

primavera le zanzare che si diffondono dall'area acquitrinosa al suo centro.

Qui vengono a cacciare gli aironi; a volte si sentono le loro grida rauche,

come un bastone raschiato su una latta deformata. Di quando in quando

appassionati di bird-watching vi fanno capolino con quella loro aria deso-

lata, come se andassero in cerca di qualcosa che hanno smarrito.

Tra le ombre ci sono luccichii d'argento di pacchetti di sigarette, e i pal-

lidi tuberi sgonfi di preservativi gettati via, e i quadrati abbandonati di

Kleenex che la pioggia ha reso simili a merletti. Cani e gatti rivendicano i

propri diritti, avide coppie si insinuano tra gli alberi, sebbene meno nume-

rose di una volta - ci sono tante altre possibilità oggi. In estate gli ubriachi

dormono sotto i cespugli più fitti, e gli adolescenti vanno là a fumare e a

sniffare, qualsiasi cosa fumino e sniffino. Vi sono stati trovati mozziconi

di candela e cucchiai bruciati, e l'occasionale ago usa e getta. Vengo a sa-

pere tutte queste cose da Myra, che le considera una vergogna. Lei sa a co-

sa servono i mozziconi di candela e i cucchiai: sono l'armamentario dei

drogati. Il vizio è ovunque, a quanto pare. Et in Arcadia ego.

Un decennio o due fa venne fatto un tentativo di ripulire l'area. Fu innal-

zato un cartello - The Colonel Parkman Park, che suonava assurdo - e vi

furono sistemati tre rustici tavoli da picnic, un contenitore per la plastica e

un paio di bagni mobili, a beneficio dei visitatori di fuori, fu detto, anche

se questi preferivano tracannare la loro birra e disseminare i loro rifiuti da

qualche parte dove ci fosse una vista più chiara del fiume. Poi qualche ra-

gazzo dal grilletto facile usò il cartello per allenarsi a sparare, i tavoli e i

bagni furono rimossi dall'amministrazione provinciale - per via di un qual-

che bilancio - e il contenitore per i rifiuti non venne mai svuotato, sebbene

fosse spesso saccheggiato dai procioni; così portarono via anche quello, e

ora il posto sta tornando allo stato brado.

È chiamato i Campeggi perché è là che avevano luogo i raduni religiosi

all'aperto, con grandi tende come al circo e ferventi predicatori venuti da

fuori. A quei tempi lo spazio era più curato, oppure più calpestato. Piccole

fiere viaggianti vi sistemavano baracche e attrazioni e vi impastoiavano i

loro pony e i loro asini, era qui che le sfilate terminavano e si disperdevano

in picnic. Era un posto per riunioni all'aperto di qualsiasi genere.

È qui che una volta si teneva la Festa del Lavoro della Chase & Figli.

Questo era il nome formale, sebbene la gente lo chiamasse semplicemente

il picnic della fabbrica di bottoni. Aveva luogo sempre il sabato precedente

al lunedì ufficiale della Festa del Lavoro, con la sua calorosa retorica e le

bande che marciavano e le bandiere fatte in casa. C'erano palloncini e una

giostra, e giochi innocui, sciocchi - corse nei sacchi, gare in cui bisognava

trasportare un uovo su un cucchiaio, staffette in cui il testimone era una ca-

rota. Si esibivano quartetti vocali, e neanche troppo male; il gruppo di

trombettieri degli scout strombazzava uno o due numeri; squadre di bam-

bini eseguivano vivaci danze scozzesi e irlandesi su una piattaforma di le-

gno rialzata che ricordava un ring, mentre la musica era fornita da un

grammofono a carica. C'era un concorso per l'animale meglio vestito, e an-

che uno per i bambini. Si mangiavano pannocchie di granturco, insalata di

patate, hot dog. Le ausiliarie organizzavano vendite gastronomiche in aiuto

di questo o quello, offrendo pasticci e biscotti e torte, e vasetti di marmel-

lata e di sottaceti e di salse indiane a base di spezie e frutta, ognuno con

l'etichetta che recava un nome di battesimo: Conserva di scorza d'arancia

di Rhoda, Composta di prugne di Pearl.

Si facevano giochi pesanti - una gran baldoria. Al banco non si serviva

nulla di più forte della limonata, ma gli uomini portavano fiasche grandi e

piccole, e quando scendeva il crepuscolo potevano esserci risse, o grida e

rauche risate tra gli alberi, seguite da tonfi lungo la riva quando un uomo o

un giovanotto veniva buttato in acqua tutto vestito, oppure senza i calzoni.

In quel punto le acque del Jogues erano abbastanza basse, di modo che

quasi nessuno annegava. Una volta buio si facevano i fuochi d'artificio.

Nel suo massimo fulgore, o in quello che io ricordo come tale, il picnic

prevedeva anche la quadriglia, con tanto di violini. Ma nell'anno che ora

sto rievocando, che è il 1934, si era posto un freno a questo genere di esa-

gerata allegria.

Verso le tre del pomeriggio mio padre faceva un discorso, dalla piatta-

forma destinata alle danze. Era sempre un discorso breve, ma veniva ascol-

tato con attenzione dagli uomini più anziani; anche dalle donne, dal mo-

mento che o lavoravano loro stesse per la compagnia, o erano sposate con

qualcuno che vi lavorava. Quando i tempi si fecero più duri, perfino i gio-

vani cominciarono ad ascoltare il discorso; perfino le ragazze, con i loro

vestiti estivi e le braccia seminude. Il discorso non diceva mai molto, ma si

poteva leggere tra le righe. «Ragione di essere soddisfatti» era buon segno;

«motivi di ottimismo» era cattivo segno.

Quell'anno il tempo era caldo e secco, com'era ormai da un bel pezzo.

Non c'erano tanti palloncini come al solito; non c'era la giostra. Il grantur-

co sulle pannocchie era troppo vecchio, i chicchi erano raggrinziti come

nocche; la limonata era acquosa, gli hot dog finirono presto. Eppure, non

c'erano stati licenziamenti alle Industrie Chase, non ancora. Rallentamenti,

ma non licenziamenti.

Mio padre disse «motivi di ottimismo» quattro volte, ma «ragione di es-

sere soddisfatti» neanche una. C'erano sguardi ansiosi.

Quando eravamo più piccole, io e Laura ci divertivamo al picnic; ora

non più, ma era un obbligo parteciparvi. Dovevamo farci vedere. Ci era

stato inculcato fin dalla più tenera età: la mamma si era sempre fatta un

dovere di andare, per quanto male potesse sentirsi.

Dopo che mia madre era morta ed era toccato a Reenie badare a noi,

questa aveva fatto scrupolosamente attenzione alle nostre tenute per quel

giorno: non troppo informali, perché sarebbe stato sprezzante, come se non

ci importasse cosa pensasse di noi la cittadinanza; ma neanche troppo ele-

ganti, perché sarebbe equivalso a volerla mortificare. Ormai eravamo ab-

bastanza grandi da scegliere come vestirci - io avevo appena compiuto di-

ciotto anni, Laura ne aveva quattordici e mezzo -, anche se non avevamo

più tante possibilità di scelta. L'eccessiva mostra di lusso era sempre stata

scoraggiata in casa nostra, sebbene avessimo avuto quella che Reenie

chiamava roba buona, ma di recente la definizione di lusso si era ristretta

fino a significare qualunque capo nuovo. Per il picnic indossavamo tutte e

due gonne svasate e strette in vita blu e camicette bianche dell'estate pri-

ma. Laura aveva il mio cappello di tre stagioni prima; quanto a me, avevo

quello dell'anno precedente, a cui era stato cambiato il nastro.

Laura non sembrava farci caso. Io invece sì. Lo dissi, e lei osservò che

ero attaccata alle cose mondane.

Ascoltammo il discorso. (O meglio, io lo ascoltai. Laura aveva l'atteg-

giamento di chi ascolta - gli occhi spalancati, la testa inclinata da un lato

con aria attenta - ma non si poteva assolutamente dire cosa stesse senten-

do). A mio padre quel discorso era sempre venuto bene, non importa quan-

to avesse bevuto, ma quella volta si impappinò sul testo. Avvicinava la pa-

gina dattiloscritta all'occhio buono, quindi l'allontanava con uno sguardo

perplesso, come se si trattasse del conto di qualcosa che non aveva ordina-

to. Un tempo i suoi vestiti erano stati eleganti, poi erano divenuti eleganti

ma consumati, ora erano quasi logori. I capelli erano arruffati attorno alle

orecchie, avevano bisogno di essere tagliati; sembrava tormentato - quasi

feroce, come un bandito messo con le spalle al muro.

Dopo il discorso, che fu accolto da niente di più che un applauso dove-

roso, alcuni degli uomini si riunirono in piccoli gruppi, parlando tra loro a

voce bassa. Altri si sedettero sotto gli alberi, su giacche o coperte stese,

oppure si allungarono con un fazzoletto sul viso a fare un pisolino. Soltan-

to gli uomini facevano così; le donne rimanevano sveglie, vigili. Le madri

conducevano i figli piccoli al fiume, per farli sguazzare sulla spiaggetta

ghiaiosa laggiù. Un po' in disparte era cominciata una fiacca partita di ba-

seball; un gruppetto di spettatori la seguiva con aria stordita.

Andai ad aiutare Reenie alla vendita gastronomica. In sostegno di chi e-

ra? Non me lo ricordo. Ma ormai aiutavo sempre - ci si aspettava che lo

facessi. Dissi a Laura che sarebbe dovuta venire anche lei, ma si comportò

come se non mi avesse sentito e si allontanò lentamente, facendo dondola-

re il cappello per la tesa floscia.

La lasciai andare. Io avrei dovuto tenerla d'occhio: per quanto riguarda-

va me, Reenie dormiva tra due guanciali, ma a suo parere Laura era assolu-

tamente troppo fiduciosa, dava troppa confidenza agli estranei. Gli uomini

della tratta delle bianche erano sempre in agguato, e Laura era il loro ber-

saglio naturale. Sarebbe salita sulla macchina di un estraneo, avrebbe aper-

to una porta sconosciuta, attraversato la strada sbagliata, e poi sarebbe stata

fatta, perché lei non si poneva limiti, o almeno non dove se li ponevano gli

altri, e non si poteva metterla in guardia perché non avrebbe capito. Non

che si facesse beffe delle regole: semplicemente le dimenticava.

Ero stanca di tenere d'occhio Laura, che non me ne era grata. Ero stanca

di essere ritenuta responsabile dei suoi sbagli, della sua incapacità di ade-

guarsi. Ero stanca di essere ritenuta responsabile, punto e basta. Volevo

andare in Europa, o a New York, o perfino a Montreal - nei night club, alle

soirée, in tutti quei posti eccitanti nominati nelle riviste mondane di Reenie

- ma c'era bisogno di me a casa. Bisogno di me a casa, bisogno di me a ca-

sa - sembrava una condanna a vita. Peggio, un lamento funebre. Ero bloc-

cata a Port Ticonderoga, fiero bastione del bottone comune-e-ordinario e

dei mutandoni a basso prezzo per acquirenti che dovevano far quadrare i

conti. Là mi sarei intorpidita, non mi sarebbe successo niente, e sarei di-

ventata una vecchia zitella come Miss Violence, compatita e derisa. Questa

era fondamentalmente la mia paura. Volevo essere in qualche altro posto,

ma non vedevo alcun modo per arrivarci. Ogni tanto mi coglievo a sperare

di essere rapita dagli uomini della tratta delle bianche, anche se non crede-

vo alla loro esistenza. Almeno sarebbe stato un cambiamento.

Il tavolo della vendita gastronomica era coperto da un tendone, e tova-

glioli da tè o pezzi di carta oleata proteggevano la mercanzia dalle mosche.

Reenie aveva contribuito con alcuni pasticci, una preparazione che a dire il

vero non era mai stata il suo forte. I suoi pasticci avevano ripieni collosi e

poco cotti, e croste spesse ma molli, che facevano pensare ad alghe mar-

roncine o a grandi funghi lividi. In tempi migliori si vendevano abbastanza

bene - venivano considerati oggetti rituali, non cibo in quanto tale - ma

quel giorno non andavano granché. Il denaro scarseggiava, e in cambio la

gente voleva qualcosa di veramente commestibile.

Mentre stavo dietro il tavolo, Reenie mi metteva al corrente sottovoce

delle ultime novità. Quattro uomini erano già stati gettati nel fiume, quan-

do il cielo era ancora di un bianco abbagliante, e non proprio per diverti-

mento. C'erano state discussioni che avevano a che fare con la politica,

disse Reenie; erano volate parole grosse. Oltre alle solite bravate sul fiu-

me, erano scoppiate zuffe. Elwood Murray era stato messo fuori combat-

timento. Era l'editore del settimanale locale, che aveva ereditato da due

generazioni di Murray anch'essi nei giornali: ne scriveva la maggior parte,

e faceva anche le fotografie. Fortunatamente non era stato buttato in acqua,

cosa che avrebbe rovinato la sua macchina fotografica, costata un bel muc-

chio di soldi anche se di seconda mano, come Reenie era venuta a sapere.

Gli usciva il sangue dal naso, e ora sedeva sotto un albero con un bicchiere

di limonata e due donne che gli si affaccendavano intorno con fazzoletti

bagnati; potevo vederlo da dove mi trovavo.

Era per motivi politici, quell'atterramento? Reenie non lo sapeva, ma alla

gente non piaceva che stesse ad ascoltare cosa diceva. In tempi prosperi

Elwood Murray era considerato un cretino, e forse quello che Reenie

chiamava un invertito - be', non era sposato, e a quell'età doveva pur signi-

ficare qualcosa -, ma era tollerato e perfino apprezzato, entro i limiti della

decenza, finché riportava tutti i nomi in occasione degli avvenimenti mon-

dani e li scriveva in modo corretto. Ma quelli non erano tempi prosperi, ed

Elwood Murray era troppo ficcanaso per passarla liscia. Nessuno vuole

che ogni bazzecola sul proprio conto venga scritta sui giornali, diceva Re-

enie. Nessuno con un po' di buonsenso lo vorrebbe.

Individuai mio padre, che camminava tra gli operai partecipanti al picnic

con la sua andatura sbilenca. Annuiva nel suo modo brusco a questo o a

quello, un gesto in cui la testa sembrava indietreggiare sul collo piuttosto

che spingersi in avanti. La benda nera sull'occhio si girava di qua e di là;

da lontano sembrava un foro nella testa. I baffi gli si ripiegavano come u-

n'unica zanna scura e obliqua sulla bocca, che di tanto in tanto si serrava in

qualcosa che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso. Le mani erano

nascoste nelle tasche.

Accanto a mio padre c'era un uomo più giovane, un po' più alto di lui,

ma a differenza di lui privo di rughe o angoli. Levigato era la parola che

faceva venire in mente. Portava un panama elegante e un abito di lino che

sembrava emettere luce, tanto era fresco e pulito. Veniva ovviamente da

fuori città.

«Chi è quel tipo con papà?» chiesi a Reenie.

Reenie guardò senza darlo a vedere, poi fece una breve risata. «È il si-

gnor Royal Classic in carne e ossa. Certo che ha un bel coraggio.»

«Avevo pensato che fosse lui» dissi.

Il signor Royal Classic era Richard Griffen, della Royal Classic Knitwe-

ar di Toronto. I nostri operai - gli operai di papà - si riferivano a lui in tono

di scherno come a Royal Classic Shitwear, perché il signor Griffen non era

soltanto il principale concorrente di papà, era anche per così dire un avver-

sario. Aveva attaccato mio padre sulla stampa tacciandolo di essere troppo

morbido sui disoccupati, sull'opera assistenziale e sui sinistroidi in genera-

le. Anche sui sindacati, cosa gratuita perché Port Ticonderoga non ospitava

nessun sindacato e le opinioni sfavorevoli di mio padre al riguardo non e-

rano certo un segreto. Ma ora per qualche ragione mio padre aveva invitato

Richard Griffen a cena ad Avilion, dopo il picnic, e anche con pochissimo

preavviso. Solo quattro giorni.

Reenie aveva l'impressione che il signor Griffen le fosse stato affibbiato

di punto in bianco. Com'era risaputo, bisognava fare più bella figura con i

propri nemici che con i propri amici, e per lei quattro giorni non erano ab-

bastanza per i preparativi di un simile avvenimento, soprattutto conside-

rando che ad Avilion non c'era stata una di quelle che si potevano definire

cene eleganti dai tempi della nonna Adelia. È vero, Callie Fitzsimmons a

volte portava degli amici per il fine settimana, ma era diverso, perché era-

no soltanto artisti e dovevano essere grati per qualunque cosa fosse loro of-

fetta. A volte venivano trovati in cucina di notte, a fare scorrerie nella di-

spensa, a prepararsi panini con gli avanzi. Pozzi senza fondo, li chiamava

Reenie.


«Comunque è un arricchito» disse Reenie in tono sprezzante, squadran-

do Richard Griffen. «Guarda che pantaloni stravaganti». Era implacabile

con chiunque criticasse mio padre (cioè con tutti tranne che con se stessa),

e sprezzante nei confronti di chi si faceva strada nel mondo e si comporta-

va al di sopra del proprio livello, o di ciò che lei considerava tale; ed era un

fatto noto che i Griffen erano feccia, o almeno lo era il nonno. Aveva mes-

so in piedi la sua attività imbrogliando gli ebrei, diceva Reenie in tono am-

biguo - era una specie di prodezza questa, secondo la sua modesta opinio-

ne? -, ma come avesse fatto esattamente non sapeva dirlo. (Onestamente,

Reenie poteva aver inventato queste accuse sui Griffen. A volte attribuiva

alle persone le storie che secondo lei dovevano avere avuto).

Dietro a mio padre e al signor Griffen, accanto a Callie Fitzsimmons,

camminava quella che presi per la moglie del signor Griffen - una donna

piuttosto giovane, magra, elegante, che si trascinava dietro della mussola

trasparente arancione chiaro simile al fumo che si alza da un'acquosa mi-

nestra di pomodoro. Il suo cappello a larghe tese era verde, come pure le

scarpe aperte con i tacchi alti e una specie di sciarpa sottile che portava at-

torno al collo. Era vestita con eccessiva eleganza per il picnic. Mentre la

osservavo si fermò, sollevò un piede e si girò a guardare al di sopra della

spalla per vedere se le si fosse attaccato qualcosa al tacco. Speravo di sì.

Eppure, pensai a quanto sarebbe stato bello avere abiti così eleganti, abiti

da arricchiti così favolosi, invece dei vestiti decorosi, demodé e trasandati

che a quel tempo costituivano il nostro stile dettato dal bisogno.

«Dov'è Laura?» chiese Reenie improvvisamente in allarme.

«Non ne ho idea» dissi. Avevo preso l'abitudine di parlarle in tono bru-

sco, soprattutto quando mi comandava a bacchetta. Non sei mia madre era

diventata la mia risposta più fulminante.

«Dovresti avere abbastanza buonsenso da non perderla di vista» disse

Reenie. «Potrebbe esserci chiunque in giro». Chiunque era uno dei suoi

spauracchi. Non si poteva mai sapere quali intrusioni, quali furti e gaffe

potesse commettere quel chiunque.

Trovai Laura seduta sull'erba sotto un albero, intenta a parlare con un

giovanotto - un uomo, non un ragazzo -, un uomo dalla carnagione scura

con un cappello chiaro. Il suo stile era indefinibile - non era un operaio

della fabbrica, ma neanche qualcos'altro, o almeno non qualcos'altro di

preciso. Niente cravatta, ma in fondo era un picnic. Una camicia blu, un

po' consumata ai bordi. Un abbigliamento improvvisato, un atteggiamento

da proletario. Molti giovanotti lo ostentavano a quei tempi - molti studenti

universitari. D'inverno portavano maglie lavorate ai ferri a strisce orizzon-

tali.


«Ciao» disse Laura. «Dove te n'eri andata? Questa è mia sorella Iris,

questo è Alex».

«Signor...?» dissi. Come mai Laura era passata così in fretta al nome di

battesimo?

«Alex Thomas» disse il giovanotto. Era educato ma cauto. Si alzò in

fretta e tese la mano, e io la strinsi. Poi mi ritrovai seduta accanto a loro.


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