Margaret atwood



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cerca delle sigarette, poi accende un fiammifero con l'unghia del pollice.

L'orecchio di lei contro l'incavo della sua spalla.

Lui dice: Allora, dov'ero rimasto?

Ai tessitori di tappeti. Ai bambini ciechi.

Oh, sì. Ricordo.

Dice: La ricchezza di Sakiel-Norn si fondava sugli schiavi, e soprattutto

sugli schiavi bambini che tessevano i suoi famosi tappeti. Ma parlarne por-

tava sfortuna. Gli Snilfard sostenevano che le loro ricchezze non dipende-

vano dagli schiavi, ma dalla propria virtù e dal buonsenso - cioè, dagli a-

deguati sacrifici che venivano fatti agli dei.

C'erano molti dei. Gli dei tornano sempre utili, giustificano quasi tutto, e

quelli di Sakiel-Norn non facevano eccezione. Erano tutti carnivori; a loro

piacevano i sacrifici di animali, ma ciò che apprezzavano più di ogni altra

cosa era il sangue umano. Al tempo della fondazione della città, così era

entrato nella leggenda molto tempo prima, si diceva che nove padri devoti

avessero offerto in sacrificio le proprie figlie, perché fossero seppellite

come guardie sacre sotto le sue nove porte.

A ognuno dei quattro punti cardinali c'erano due di queste porte, una per

uscire e una per entrare: andarsene dalla stessa via per cui si era arrivati si-

gnificava una rapida morte. La porta del nono ingresso era una lastra di

marmo orizzontale in cima a un'altura nel centro della città; si apriva senza

muoversi, e oscillava tra la vita e la morte, tra la carne e lo spirito. Era la

porta attraverso cui gli dei erano venuti e se n'erano andati: loro non ave-

vano bisogno di due ingressi, perché a differenza dei mortali potevano tro-

varsi contemporaneamente sui due lati della porta. I profeti di Sakiel-Norn

avevano un detto: Qual è il reale alito di un uomo - quello che viene espi-

rato o quello che viene inspirato? Tale era la natura degli dei.

Il nono ingresso era anche l'altare su cui veniva versato il sangue del sa-

crificio. Bambini maschi erano offerti al Dio dei Tre Soli, che era il dio del

giorno, delle luci chiare, dei palazzi, delle feste, delle fornaci, delle guerre,

dell'alcol, delle entrate e delle parole; bambine erano offerte alla Dea delle

Cinque Lune, patrona della notte, delle nebbie e delle ombre, della care-

stia, delle caverne, della nascita, delle uscite e dei silenzi. Ai bambini ve-

niva spaccata la testa sull'altare con un bastone, quindi venivano gettati

nella bocca del dio, che portava a una fornace ardente. Alle bambine ta-

gliavano la gola e il loro sangue veniva fatto sgorgare per riempire le cin-

que lune calanti, in modo che non svanissero, scomparendo per sempre.

Nove fanciulle erano sacrificate ogni anno, in onore delle nove fanciulle

seppellite alle porte della città. Le vittime erano note come «le vergini del-

la Dea», e venivano loro offerti preghiere, fiori e incenso, perché interce-

dessero a favore dei vivi. Gli ultimi tre mesi dell'anno erano chiamati «me-

si senza faccia»; erano i mesi in cui non crescevano messi, e si diceva che

la Dea digiunasse. In questo periodo erano il Dio dei Tre Soli nella sua te-

nuta da guerra e le fornaci a spadroneggiare, e le madri dei bambini maschi

li vestivano da femmina per proteggerli.

Secondo la legge le più nobili famiglie Snilfard dovevano offrire almeno

una delle loro figlie. Era un insulto alla Dea offrire chiunque avesse un di-

fetto fisico o fosse imperfetto, e con il passare del tempo gli Snilfard co-

minciarono a mutilare le loro fanciulle, in modo che fossero risparmiate:

tagliavano loro un dito o il lobo di un orecchio, o qualche altra piccola par-

te del corpo. Ben presto la mutilazione divenne soltanto simbolica: un ta-

tuaggio blu di forma allungata nel punto di incontro delle clavicole. Per

una donna possedere uno di questi segni di casta se non era una Snilfard

era un reato capitale, ma i proprietari di bordelli, sempre avidi di fare affa-

ri, li applicavano con l'inchiostro a quelle delle loro prostitute più giovani

che sapevano fare sfoggio di alterigia. La cosa piaceva ai clienti che vole-

vano avere l'impressione di violentare qualche principessa Snilfard di san-

gue blu.


Nello stesso tempo, gli Snilfard presero ad adottare trovatelle - per lo più

la prole delle schiave femmine e dei loro padroni - e a usarle per sostituire

le loro figlie legittime. Era un inganno, ma le famiglie nobili erano potenti,

perciò la cosa andò avanti e le autorità chiudevano un occhio.

Poi le famiglie nobili divennero ancora più pigre. Non vollero più preoc-

cuparsi di allevare le fanciulle nel loro nucleo familiare, ma si limitarono a

passarle al Tempio della Dea, pagando bene per il loro mantenimento. Dal

momento che le fanciulle portavano il nome di famiglia, ai nobili andava il

merito del sacrificio. Era come possedere un cavallo da corsa. Questa pra-

tica era una versione svilita di quella originale improntata a più nobili idea-

li, ma a quel tempo a Sakiel-Norn tutto era in vendita.

Le fanciulle consacrate venivano chiuse nell'area cintata del tempio, nu-

trite con quanto c'era di meglio perché si mantenessero floride e sane, e ri-

gorosamente ammaestrate per il grande giorno - perché fossero capaci di

compiere il loro dovere con decoro e senza patemi d'animo. In teoria, il sa-

crificio ideale avrebbe dovuto essere come una danza: solenne e lirica, ar-

moniosa e aggraziata. Non erano animali, da massacrare in maniera bruta-

le; dovevano essere loro stesse a donare liberamente la propria vita. Molte

credevano a quanto veniva loro detto: che il benessere dell'intero regno di-

pendesse dal loro altruismo. Trascorrevano lunghe ore in preghiera, en-

trando nella giusta disposizione d'animo; veniva loro insegnato a cammi-

nare a occhi bassi, a sorridere con gentile malinconia e a intonare le can-

zoni della Dea, che parlavano dell'assenza e del silenzio, dell'amore inap-

pagato e del rimpianto inespresso, e della mancanza di parole - canzoni

sull'impossibilità di cantare.

Passò altro tempo. Ora solo pochi prendevano ancora sul serio gli dei, e

chiunque fosse eccessivamente pio od osservante era considerato pazzo. I

cittadini continuavano a compiere gli antichi rituali perché l'avevano sem-

pre fatto, ma la città non aveva un reale interesse in simili pratiche.

Nonostante il loro isolamento, alcune fanciulle si rendevano conto di

venir assassinate per rispetto formale a un concetto ormai sorpassato. Al-

cune alla vista del coltello cercavano di fuggire. Altre si mettevano a urlare

quando venivano prese per i capelli e rovesciate sull'altare, e altre ancora

maledicevano lo stesso Re, che in quelle occasioni fungeva da Sommo Sa-

cerdote. Una lo aveva perfino morso. Queste manifestazioni ricorrenti di

panico e furia non piacevano alla popolazione, perché si diceva che sareb-

bero state seguite dalla più terribile delle sfortune. E magari sarebbe acca-

duto, se la Dea fosse davvero esistita. In ogni modo, simili accessi poteva-

no rovinare i festeggiamenti: a tutti piacevano i sacrifici, perfino agli Ygni-

rod, perfino agli schiavi, perché veniva loro concessa una giornata di ripo-

so ed erano liberi di ubriacarsi.

Perciò sorse la consuetudine di tagliare la lingua alle fanciulle tre mesi

prima del sacrificio. Non era una mutilazione, dissero i preti, ma un mi-

glioramento - cosa poteva esserci di più adatto per le servitrici della Dea

del Silenzio?

Dunque, senza lingua e gonfia di parole che non avrebbe potuto mai più

pronunciare, ogni fanciulla veniva condotta in processione al suono di una

musica solenne, avvolta in veli e ornata di ghirlande di fiori, su per i gradi-

ni della nona porta della città. Oggi si potrebbe descriverla come una sposa

viziata del bel mondo.

Lei si tira su a sedere. Questo è davvero gratuito, dice. Continui a darmi

addosso. Semplicemente ti piace l'idea di uccidere quelle povere ragazze

nei loro veli da sposa. Scommetto che erano bionde.

Non ce l'ho con te, dice lui. Non precisamente. A ogni modo non sto in-

ventando nulla, ha tutto un solido fondamento storico. Gli ittiti...

Non ne dubito, ma stai comunque tutto il tempo a leccarti le labbra. Sei

vendicativo - no, sei geloso, anche se Dio solo sa perché. Non mi importa

degli ittiti, della storia e di tutto il resto - è solo una scusa.

Aspetta un momento. Tu eri d'accordo sulle vergini sacrificali, le hai in-

serite nel menù. Io non faccio che attenermi agli ordini. Su cos'hai da ridire

- sugli abiti? Troppi veli?

Non litighiamo, dice lei. Sente di stare per piangere, serra le mani per

frenarsi.

Non volevo turbarti. Su, andiamo.

Lei respinge il suo braccio. Certo che volevi turbarmi. Ti piace sapere di

poterlo fare.

Pensavo che ti divertisse. Ascoltare mentre mi esibisco. Mentre faccio

giochi di prestigio con gli aggettivi. Mentre faccio il buffone per te.

Lei si tira giù la gonna, ci infila dentro la camicetta. Fanciulle morte in

veli nuziali, perché dovrebbero divertirmi? Con la lingua tagliata. Devi

prendermi per un mostro.

Lo eliminerò. Lo cambierò. Riscriverò la storia per te. Va bene?

Non puoi, dice lei. Sei andato troppo avanti ormai. Non ne puoi cancel-

lare neanche mezza riga. Me ne vado. Ora è in ginocchio, pronta ad alzarsi.

C'è un'infinità di tempo. Stenditi. Le afferra il polso.

No. Andiamo. Guarda dov'è il sole. Staranno per tornare. Potrei avere

dei guai, anche se credo che per te questi non siano affatto guai: non con-

tano. A te non importa - tutto quello che vuoi è una veloce, una veloce...

Avanti, sputalo.

Sai cosa intendo, dice lei con voce stanca.

Non è vero. Mi dispiace. Sono io il mostro, mi sono fatto prendere la

mano. Comunque, è solo una storia.

Lei si appoggia la fronte contro le ginocchia. Dopo un minuto dice: Cosa

farò? Dopo - quando tu non ci sarai più?

Ce la farai, dice lui. Vivrai. Vieni, ti spolvero.

Non viene via, non con una semplice spolverata.

Allacciamo i tuoi bottoni, fa lui. Non essere triste.

The Colonel Henry Parkman High School Home

and School and Alumni Association Bulletin,

Port Ticonderoga, maggio 1998

PRESTO CONSEGNATO

IL PREMIO LAURA CHASE ALLA MEMORIA

DI MYRA STURGESS, VICEPRESIDENTE

DELLA ALUMNI ASSOCIATION

La Colonel Henry Parkman High School è stata dotata di un

nuovo premio di considerevole valore da un generoso lascito della

defunta signora Winifred Griffen Prior di Toronto, di cui si ricor-

derà il fratello, il noto Richard E. Griffen, dal momento che pas-

sava spesso le vacanze qui a Port Ticonderoga e amava andare in

barca sul nostro fiume. Si tratta del Premio di Scrittura Creativa

Laura Chase alla Memoria, di un valore di duecento dollari, da

destinare a uno studente dell'ultimo anno per il miglior racconto

breve. Questo verrà giudicato da tre membri della Alumni Asso-

ciation, che ne valuteranno i pregi letterari nonché morali. Il no-

stro direttore signor Eph Evans dichiara: «Siamo grati alla signora

Prior per essersi ricordata di noi, tra le sue numerose altre opere di

beneficenza».

Il premio, che nella sua prima edizione verrà conferito a giu-

gno, in occasione della cerimonia per la consegna dei diplomi, è

intitolato così in onore della nota scrittrice locale Laura Chase. La

sorella di questa, signora Iris Griffen della famiglia Chase, che

tanto ha fatto per la nostra città ai suoi albori, ha gentilmente ac-

consentito a consegnare il premio al fortunato vincitore, e sono

ormai rimaste solo poche settimane, perciò dite ai vostri ragazzi di

rimboccarsi le maniche della creatività e di sbrigarsi!

La Alumni Association offrirà un tè nella palestra im-

mediatamente dopo la cerimonia per la consegna dei diplomi. È

possibile acquistare i biglietti presso Myra Sturgess, alla Ginger-

bread House. Tutti i proventi saranno destinati all'acquisto di divi-

se da football, di cui c'è di sicuro un gran bisogno! Chiunque vo-

glia cucinare qualcosa per l'occasione sarà il benvenuto, con la

preghiera di segnalare con cura i cibi contenenti noci.

III

La consegna del premio



Questa mattina mi sono svegliata con una sensazione di timore. Dappri-

ma non sono riuscita a capire perché, ma poi mi sono ricordata. Oggi era il

giorno della cerimonia.

Il sole era alto, la stanza già troppo calda. La luce vi filtrava attraverso le

tende a rete, rimanendo sospesa in aria, sedimento sul fondo di uno stagno.

Mi sentivo la testa spappolata. Ancora in camicia da notte, bagnata per

qualche spavento che avevo spinto da parte come fogliame, mi sono tirata

su e sono scesa dal mio letto scompigliato, quindi mi sono costretta a ese-

guire tutti i rituali dell'alba - le cerimonie che compiamo per farci apparire

sani e accettabili all'altra gente. I capelli vanno sistemati dopo che una

qualche apparizione notturna li ha fatti rizzare, l'espressione di stupefatta

incredulità lavata via dagli occhi. I denti spazzolati, quello che ne rimane.

Dio solo sa quali ossi ho rosicchiato durante la notte.

Poi sono entrata nella doccia, aggrappandomi alla sbarra di sostegno che

Myra mi ha costretto a far istallare, attenta a non lasciar cadere il sapone:

ho paura di scivolare. Eppure, il corpo deve essere annaffiato, per togliersi

dalla pelle l'odore dell'oscurità notturna. Ho il sospetto di avere un odore

che non riesco più ad avvertire - un tanfo di carne stantia e di pipì torbida,

invecchiata.

Asciugata, aspersa di lozione e incipriata, spruzzata come muffa, ero in

un certo senso restaurata. Soltanto, c'era ancora la sensazione di assenza di

peso, o piuttosto di essere sul punto di cadere da uno strapiombo. Ogni

volta che allungo un piede lo metto giù in maniera precaria, come se il pa-

vimento potesse cedere sotto di me. Soltanto la tensione superficiale mi

mantiene sul posto.

Mettermi i vestiti mi ha aiutato. Non sono al meglio senza impalcatura.

(Ma cosa ne è stato dei miei veri vestiti? Questi pastelli informi e queste

scarpe ortopediche appartengono sicuramente a qualcun altro. Ma sono

miei; peggio, adesso mi donano).

Poi è stata la volta delle scale. Ho il terrore di ruzzolare giù - di rom-

permi il collo, di giacere scomposta con gli indumenti intimi in bella mo-

stra, quindi di sciogliermi in una pozza in putrefazione prima che a qual-

cuno venga in mente di venirmi a cercare. Sarebbe un modo talmente sgra-

ziato di morire. Ho affrontato un gradino alla volta, stringendo la ringhie-

ra; poi ho percorso il corridoio fino alla cucina, con le dita della mano sini-

stra a sfiorare il muro come i baffi di un gatto. (Ci vedo ancora abbastanza.

E posso ancora camminare. Siate felici per le piccole fortune, diceva Ree-

nie. Perché dovremmo esserlo? chiedeva Laura. Se sono così piccole...)

Non ho voluto niente per colazione. Ho bevuto un bicchiere d'acqua e ho

passato il tempo a crogiolarmi nell'ansia. Alle nove e mezzo Walter è ve-

nuto a prendermi. «Fa abbastanza caldo per te?» ha domandato, il suo e-

sordio usuale. In inverno è abbastanza freddo. Umido e asciutto sono per

la primavera e l'autunno.

«Come stai oggi, Walter?» gli ho chiesto, come sempre.

«Mi tengo fuori dei guai» ha detto lui, come sempre.

«È il massimo che ci si possa aspettare da noi tutti» ho replicato. Ha esi-

bito la sua versione di un sorriso - una sottile fessura nel viso, come fango

che si vada seccando - mi ha aperto lo sportello della macchina e mi ha fat-

to accomodare nel sedile del passeggero. «Gran giorno oggi, eh?» ha fatto.

«Allacciamoci la cintura, o potrebbero arrestarmi». Ha detto allacciamoci

la cintura come se fosse uno scherzo; ha abbastanza anni per ricordare

vecchi tempi più spensierati. Doveva essere stato il tipo di giovanotto che

guidava con un gomito fuori del finestrino e una mano sul ginocchio della

ragazza. È sbalorditivo pensare che in realtà quella ragazza era Myra.

Ha allontanato delicatamente la macchina dal marciapiede e siamo parti-

ti in silenzio. È un uomo grosso, Walter - squadrato come un plinto, con un

collo che non è tanto un collo quanto una spalla in più; trasuda un odore

non sgradevole di stivali di cuoio consumati e benzina. Dalla sua camicia a

quadretti e dal berretto da baseball ho dedotto che non intendeva assistere

alla cerimonia della consegna dei diplomi. Lui non legge libri, il che mette

tutti e due più a nostro agio: per quanto lo riguarda, Laura è mia sorella ed

è un peccato che sia morta, tutto qui.

Avrei dovuto sposare qualcuno come Walter. Che ci sa fare con le mani.

No: non avrei dovuto sposare nessuno. Così avrei evitato un sacco di

guai.

Walter ha fermato la macchina davanti al liceo. È un edificio moderno



costruito dopo la guerra, ha cinquant'anni ma per me è come se fosse nuo-

vo: non riesco ad abituarmi alla sua piattezza, al tono insipido. Sembra una

cassa da imballaggio. Ragazzi e genitori sciamavano sul marciapiede e sul

prato e attraversavano le porte principali, vestiti di tutti i possibili colori

estivi. Myra ci stava aspettando, lanciando urletti dai gradini, in un abito a

grandi rose rosse. Le donne con un sedere tanto grosso non dovrebbero in-

dossare tessuti stampati a fiori così grandi. Andrebbe spezzata una lancia a

favore dei busti, non che ne desideri il ritorno. Si era fatta sistemare i ca-

pelli, una massa di fitti riccioli grigi dall'aria ben cotta, come la parrucca di

un avvocato inglese.

«Sei in ritardo» ha detto a Walter.

«Non è vero» ha ribattuto lui. «Se lo sono, vuol dire che tutti gli altri so-

no in anticipo, ecco. Non c'è motivo che lei debba ciondolare con le mani

in mano». Hanno l'abitudine di parlare di me in terza persona, come se fos-

si una bambina o un cane.

Walter ha passato il mio braccio in consegna a Myra, quindi io e lei ab-

biamo salito i gradini d'ingresso insieme, come in una corsa a tre gambe.

Sentivo ciò che doveva sentire la mano di Myra: un fragile radio ricoperto

mollemente di porridge e spago. Avrei dovuto portare il bastone, ma non

mi vedevo a trascinarmelo dietro sul palcoscenico. Qualcuno ci avrebbe si-

curamente inciampato.

Myra mi ha portato dietro le quinte e mi ha domandato se volessi andare

al bagno delle signore - è brava a ricordarsi queste cose -, poi mi ha fatto

sedere nello spogliatoio. «Ora rimani qui» ha detto. Quindi è andata via di

corsa, facendo ballonzolare il sedere, per assicurarsi che fosse tutto in or-

dine.


Le luci attorno allo specchio dello spogliatoio erano piccole lampadine

rotonde, come nei teatri; gettavano una luce lusinghiera, ma io non ero lu-

singata: avevo un'aria malata, la pelle da cui era colato via il sangue, come

carne macerata nell'acqua. Era paura, o stavo davvero male? Non mi senti-

vo certamente al massimo.

Ho trovato il pettine, ho fatto un tentativo meccanico di usarlo. Myra

continua a minacciarmi di portarmi dalla «sua ragazza», in quello che si

ostina a chiamare salone di bellezza - il nome ufficiale è Hair Port, con U-

nisex come invitante aggiunta - ma io continuo a resistere. Almeno, posso

ancora dire di avere i miei capelli, anche se si arricciano verso l'alto quasi

fossi stata fulminata. Sotto si intravede il cuoio capelluto, il rosa grigiastro

delle zampe dei topi. Se mai fossi sorpresa da un forte vento, tutti i miei

capelli verrebbero soffiati via come la lanugine dei denti di leone, lascian-

do soltanto il minuscolo moncone butterato della testa calva.

Myra mi aveva lasciato uno dei suoi speciali dolci al cioccolato preparati

per il tè della Alumni Association - una fetta di stucco ricoperta di poltiglia

al cioccolato - e un bricco di plastica con il tappo a vite pieno del suo tipi-

co caffè dall'aspetto di acido di batteria. Non ho potuto né bere né mangia-

re, ma perché mai Dio avrebbe fatto le toilette? Ho lasciato qualche bricio-

la marrone, tanto per dare un tocco di autenticità.

Poi Myra è entrata con aria affaccendata, mi ha raccolta con un cuc-

chiaino e mi ha condotta fuori, dove mi è stata stretta la mano dal direttore

e mi sono sentita dire quanto fosse stato bello da parte mia avere partecipa-

to; poi sono stata passata al vicedirettore, al presidente della Alumni Asso-

ciation, al capo del dipartimento di inglese - una donna con un tailleur pan-

talone -, al rappresentante della Camera di Commercio Giovanile e final-

mente al membro locale del Parlamento, riluttante come sono costoro a la-

sciarsi scappare un'occasione. Non avevo visto tanti denti puliti in bella

mostra dal periodo in cui Richard si era dato alla politica.

Myra mi ha accompagnata fino alla mia sedia, quindi ha sussurrato: «Sa-

rò qui dietro le quinte». L'orchestra della scuola ha attaccato a suonare tra

cigolii e bemolli, e abbiamo intonato Oh, Canada!, di cui non riesco mai a

ricordare le parole perché continuano a cambiarle. Oggi se ne canta una

parte in francese, cosa che un tempo sarebbe suonata inaudita. Infine ci

siamo seduti, dopo avere dichiarato solennemente il nostro orgoglio collet-

tivo per qualcosa che non sappiamo pronunciare.

Poi il cappellano della scuola ha levato una preghiera, facendo una pa-

ternale a Dio sulle molte sfide senza precedenti a cui sono esposti i giovani

d'oggi. Dio deve avere già sentito questo genere di cose, da cui probabil-

mente è annoiato quanto tutti noi. Gli altri sono intervenuti a turno: il ven-

tesimo secolo che finisce, il vecchio da gettare via, l'avvento del nuovo da

festeggiare, i cittadini del futuro, a voi con deboli mani e via di questo pas-

so. Ho lasciato vagare la mia mente; sapevo che l'unica cosa che ci si a-

spettava da me era che non mi coprissi di disonore. Mi sembrava di essere

di nuovo accanto al podio o a qualche interminabile cena, seduta vicino a

Richard, con la bocca ben chiusa. Se mi veniva chiesto, cosa che accadeva

di rado, di solito dicevo che il mio hobby era il giardinaggio. Al massimo

una mezza verità, ma abbastanza noiosa da risultare accettabile.

Poi è venuto il momento che gli studenti ricevessero i loro diplomi. So-

no saliti uno dietro l'altro, solenni e raggianti, di tante taglie differenti, tutti

belli come solo i giovani sanno essere. Perfino quelli brutti erano belli,

perfino quelli scontrosi, quelli grassi, perfino quelli pieni di brufoli. Nes-


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