Margaret atwood



Yüklə 2,13 Mb.
səhifə47/50
tarix26.10.2017
ölçüsü2,13 Mb.
#14331
1   ...   42   43   44   45   46   47   48   49   50

anche più libertà, sebbene fosse una libertà che non mi serviva più gran-

ché.


Presi un raffreddore che si trasformò in bronchite - tutti presero il raf-

freddore quell'inverno. Impiegai mesi a liberarmene. Trascorsi un sacco di

tempo a letto, triste. Non facevo che tossire. Non andavo più a vedere i ci-

negiornali - i discorsi, le battaglie, i bombardamenti e la devastazione, le

vittorie, perfino le occupazioni. Tempi esaltanti, o almeno così ci veniva

detto, ma io avevo perso ogni interesse.

La fine della guerra si approssimava. Sempre più. Poi successe. Ricor-

davo il silenzio dopo la fine della guerra precedente, seguito dal suono del-

le campane. Era stato a novembre, allora, con il ghiaccio nelle pozzanghe-

re, mentre adesso era primavera. Ci furono parate. Ci furono proclami. Si

batté la grancassa.

Non fu così facile, tuttavia, la fine della guerra. La guerra è un gran fuo-

co; le sue ceneri vengono trasportate lontano, e si posano lentamente.

Il Diana Sweets

Oggi ho camminato fino al Jubilee Bridge, poi fino al negozio di ciam-

belle, dove ho mangiato quasi un terzo di una frittella alle arance. Un gran

pezzo di farina e grasso, che si sono propagati attraverso le mie arterie co-

me limo.


Poi sono andata in bagno. Nello scompartimento di mezzo c'era qualcu-

no, perciò ho aspettato, evitando lo specchio. L'età assottiglia la pelle; si

vedono le vene, i tendini. Inoltre, appesantisce. È duro tornare come si era

prima, quando si era senza pelle.

Alla fine la porta si è aperta ed è uscita una ragazza - una ragazza piutto-

sto scura, in abiti squallidi, gli occhi cerchiati di fuliggine. Ha emesso un

urletto, poi una risata. «Scusi» ha detto, «non l'avevo vista, mi ha fatto ve-

nire la pelle d'oca». Aveva l'accento straniero, ma era di qui: era della na-

zionalità dei giovani. Sono io la straniera adesso.

Il messaggio più nuovo era scritto in pennarello dorato: Non puoi arri-

vare in Paradiso senza Gzsù. I glossatori si erano già messi all'opera: Gesù

era stato cancellato con un segnacelo, e sopra era stato scritto Morte, in ne-

ro.

E sotto, in verde: Il Paradiso è in un granello di polvere. Blake.



E sotto ancora, in arancione: Il Paradiso è sul pianeta Xenor. Laura

Chase.


Un'altra citazione sbagliata.

Ufficialmente la guerra finì la prima settimana di maggio - la guerra in

Europa, cioè. Che è l'unica parte di essa che avrebbe interessato Laura.

Una settimana più tardi telefonò. Scelse la mattina per telefonare, un'ora

dopo colazione, quando doveva essere sicura che Richard non sarebbe sta-

to in casa. Non riconobbi la voce, avevo rinunciato ad aspettarla. Sulle

prime pensai che fosse la ragazza del parrucchiere.

«Sono io» disse.

«Dove sei?» chiesi cautamente. Devi ricordare che a quel tempo era u-

n'entità sconosciuta per me - forse dal dubbio equilibrio psichico.

«Qui» rispose. «In città». Non mi avrebbe detto dove era alloggiata, ma

mi nominò un angolo di strada dove sarei potuta passare a prenderla, più

tardi nel pomeriggio. In quel caso avremmo preso il tè, dissi. Il Diana

Sweets, era lì che intendevo portarla. Era un posto sicuro, appartato, fre-

quentato soprattutto da donne; mi conoscevano là. Dissi che sarei andata in

macchina.

«Oh, hai una macchina adesso?»

«Più o meno». La descrissi.

«Sembra piuttosto un cocchio» disse allegramente.

Laura era all'angolo tra King e Spadina Street, proprio dove aveva detto

che sarebbe stata. Non era il più rispettabile dei quartieri, ma ciò non sem-

brava disturbarla. Suonai il clacson, lei fece un cenno e poi si avvicinò e

montò. Mi sporsi e la baciai sulla guancia. Mi sentii subito una traditrice.

«Non posso credere che tu sia davvero qui» le dissi.

«Ma ci sono».

Tutt'a un tratto fui sul punto di piangere; lei sembrava indifferente. Ma

la sua guancia mi era parsa molto fredda. Fredda e sottile.

«Spero solo che non ne abbia fatto parola a Richard» disse. «Sul fatto

che sono qui. O a Winifred» aggiunse, «perché è la stessa cosa».

«Non lo farei» dissi. Non replicò nulla.

Siccome stavo guidando, non potevo guardarla direttamente. Per quello

dovetti aspettare finché non ebbi parcheggiato la macchina, poi finché non

camminammo fino al Diana Sweets, e poi finché non ci fummo sedute una

di fronte all'altra. Alla fine riuscii a vederla tutta, apertamente.

Era e non era la Laura che ricordavo. Era più vecchia, naturalmente - lo

eravamo entrambe - ma c'era dell'altro. Era vestita con cura, quasi in modo

austero, in uno chemisier di un blu spento con un corpino a pieghe e picco-

li bottoni sul davanti; aveva i capelli tirati indietro in un severo chignon.

Appariva contratta, crollata su se stessa, svuotata di colore, ma al tempo

stesso traslucida, - come se piccoli guizzi di luce venissero spinti fuori del-

la sua pelle dall'interno, come se spine di luce si proiettassero fuori da lei

in una pungente foschia, come un cardo selvatico tenuto contro il sole. È

un effetto difficile da descrivere. (Né dovresti tenerne gran conto: i miei

occhi si stavano già guastando, anche se ancora non lo sapevo. La luce in-

distinta attorno a Laura poteva essere semplicemente un difetto visivo).

Ordinammo. Volle caffè piuttosto che tè. Sarebbe stato un caffè cattivo,

l'avvertii - non si poteva avere del buon caffè in un posto simile, per via

della guerra. Ma disse: «Sono abituata al caffè cattivo».

Cadde il silenzio. Non sapevo, quasi da dove cominciare. Non ero anco-

ra pronta a chiederle come mai fosse tornata a Toronto. Dov'era stata tutto

quel tempo? chiesi. Cosa aveva fatto?

«All'inizio sono stata ad Avilion» rispose.

«Ma era tutto chiuso!» Lo era stato per tutta la durata della guerra. Non

ci eravamo tornati per anni. «Come hai fatto a entrare?»

«Oh, lo sai» disse. «Siamo sempre riuscite a entrare, quando volevamo».

Ricordai lo scivolo del carbone, la discutibile serratura di una delle porte

della cantina. Ma era stata riparata molto tempo prima. «Hai rotto una fi-

nestra?»


«Non è stato necessario. Reenie aveva tenuto una chiave» disse. «Ma

non dirlo a nessuno».

«La caldaia sarà stata spenta. Avrai avuto freddo» dissi.

«Infatti» fece. «In compenso c'erano un sacco di topi».

I nostri caffè arrivarono. Sapevano di briciole di pane abbrustolito e di

cicoria tostata, cosa che non doveva stupire, visto che era quanto ci mette-

vano dentro. «Vuoi della torta o qualcosa del genere?» dissi. «La torta qui

non è male». Era così magra, mi pareva che potesse prendere un dolce.

«No, grazie».

«Poi cos'hai fatto?»

«Poi ho compiuto ventun anni, perciò ho avuto un po' di soldi, da parte

di papà. E così sono andata a Halifax».

«Halifax? Perché Halifax?»

«È là che arrivavano le navi».

Non approfondii la questione. C'era una ragione dietro, c'era sempre con

Laura; era una ragione che ero riluttante a sentire. «Ma cosa facevi?»

«Di tutto un po'» disse. «Mi rendevo utile». Il che è tutto quello che a-

vrebbe detto sull'argomento. Supposi che si trattasse di una qualche mensa

dei poveri, o roba del genere. Pulire i bagni in un ospedale, quel tipo di co-

se. «Non hai ricevuto le mie lettere? Dalla Clinica Bella Vista? Reenie ha

detto di no».

«No» risposi. «Non ho mai ricevuto nessuna lettera».

«Suppongo che le abbiano sottratte. E non ti permettevano di chiamarmi,

o di venirmi a trovare?»

«Dicevano che ti avrebbe fatto male».

Fece una risatina. «Avrebbe fatto male a te» disse. «Davvero, non saresti

dovuta stare là, in quella casa. Non saresti dovuta stare con lui. È un vero

demonio».

«So che l'hai sempre pensata così, ma che altro potevo fare?» chiesi.

«Non mi avrebbe mai concesso il divorzio. E io non ho un soldo».

«Non è una buona scusa».

«Forse non per te. Tu hai il conto vincolato che ti ha lasciato papà, ma io

non ho niente del genere. E poi come avrei fatto con Aimee?»

«Potevi portarla con te».

«Più facile a dirsi che a farsi. Avrebbe potuto non voler venire. È piutto-

sto attaccata a Richard, a dire la verità, se proprio vuoi saperlo».

«E come mai?» domandò.

«La coccola. Le dà tutto».

«Ti ho scritto da Halifax» disse Laura, cambiando argomento.

«Non ho mai avuto neanche quelle lettere».

«Suppongo che Richard legga la tua posta» osservò.

«Credo di sì» dissi. La conversazione stava prendendo una piega che

non avevo previsto. Avevo immaginato che mi sarebbe toccato consolare

Laura, compatirla, sentire una storia triste, e invece mi stava facendo la

predica. Com'è facile scivolare di nuovo nei nostri vecchi ruoli.

«Cosa ti ha detto di me?» chiese ora. «Del mettermi in quel posto?»

Eccolo, dunque, chiaro e tondo. Eravamo al punto cruciale: o Laura era

stata pazza, o Richard aveva mentito. Non potevo credere a tutte e due le

cose. «Mi ha raccontato una storia» dissi evasivamente.

«Che genere di storia? Non preoccuparti, non rimarrò turbata. Voglio so-

lo saperlo».

«Ha detto che eri - be', mentalmente disturbata».

«Naturalmente. È quello che mi aspettavo. Cos'altro?»

«Ha detto che pensavi di essere incinta, ma che era solo un'al-

lucinazione».

«Ero incinta» disse Laura. «È questo il punto - è per questo che mi han-

no tolto di mezzo tanto in fretta. Lui e Winifred erano morti di paura. La

vergogna, lo scandalo - puoi immaginare quali conseguenze hanno pensato

che potesse avere sulle ghiotte opportunità di lui».

«Sì, posso capirlo». Potevo capirlo anche allora - le telefonate in gran

segreto da parte del dottore, il panico, l'affrettato conciliabolo tra loro due,

il piano improvvisato. Poi l'altra versione dei fatti, quella falsa, architettata

solo per me. Di norma ero abbastanza docile, ma probabilmente avevano

capito che doveva pur esserci un limite. Devono avere avuto paura di cosa

avrei potuto fare, una volta che l'avessero varcato.

«Comunque, non ho avuto il bambino. Questa è una delle cose che han-

no fatto, alla clinica».

«Una delle cose?» mi sentivo piuttosto stupida.

«Oltre ai loro discorsi sconclusionati, voglio dire, e alle pillole e alle

macchine. Fanno aborti» disse. «Ti tramortiscono con l'etere, come il den-

tista. Poi ti tirano fuori il bambino. Poi ti dicono che ti sei inventata tutto.

Poi, quando li accusi di questo, dicono che sei un pericolo per te e per gli

altri».

Era così calma, così credibile. «Laura» dissi, «sei sicura? Sul bambino,



voglio dire. Sei sicura che ce ne fosse davvero uno?»

«Certo che sono sicura» disse. «Perché avrei dovuto inventarmi una cosa

simile?»

C'era ancora spazio per il dubbio, ma questa volta credetti a Laura.

«Com'è successo?» sussurrai. «Chi era il padre?» Una cosa del genere ri-

chiedeva il sussurro.

«Se non lo sai già, non credo che te lo dirò» rispose.

Supposi che dovesse trattarsi di Alex Thomas. Alex era l'unico uomo

verso cui Laura avesse dimostrato un qualsiasi interesse - oltre a nostro

padre, cioè, e a Dio. Odiavo ammettere una simile possibilità, ma non c'era

davvero altra scelta. Dovevano essersi incontrati al tempo in cui lei saltava

le lezioni, quando frequentava la prima scuola a Toronto, e poi più tardi,

quando non studiava più; quando si pensava che tirasse su il morale a de-

crepiti miserabili all'ospedale, con indosso il suo piccolo grembiule lezioso

e ipocrita, e non faceva che mentire tutto il tempo. Non c'è dubbio che a lui

il grembiule doveva avere procurato un brivido a buon mercato, era il tipo

di tocco eccentrico che gli sarebbe andato a genio. Forse è per quello che

era scappata - per incontrare Thomas. Quanti anni aveva allora - quindici,

sedici? Come aveva potuto fare una cosa del genere, lui?

«Ne eri innamorata?» chiesi.

«Innamorata?» fece Laura. «Di chi?»

«Di... lo sai» non riuscii a dirlo.

«Oh, no» rispose Laura, «per niente. È stato orribile, ma dovevo farlo.

Dovevo fare il sacrificio. Dovevo accollarmi il dolore e soffrirlo sulla mia

pelle. È quello che avevo promesso a Dio. Sapevo che se lo avessi fatto,

avrei salvato Alex».

«Cosa vuoi dire, per l'amor del cielo?» La mia ritrovata fiducia nella sua

sanità mentale si stava sgretolando: eravamo tornate nel regno della follia

metafisica. «Salvare Alex da cosa?»

«Dalla cattura. Gli avrebbero sparato. Callie Fitzsimmons sapeva dov'e-

ra, e lo ha detto a Richard».

«Non posso crederci».

«Callie era una spia» disse Laura. È quello che diceva Richard - diceva

che Callie lo teneva informato. «Ricordi quando lei era in prigione, e Ri-

chard l'ha fatta uscire? È per questo che l'ha fatto. Glielo doveva».

Trovai quella ricostruzione dei fatti assolutamente mozzafiato. Anche

mostruosa, sebbene ci fosse una vaga, una vaghissima possibilità che fosse

vera. Ma in questo caso Callie doveva avere mentito. Come avrebbe potuto

sapere dov'era Alex? Si era spostato talmente spesso.

Però, avrebbe potuto tenersi in contatto con Callie. Avrebbe potuto farlo.

Lei era una delle persone di cui avrebbe potuto fidarsi.

«Io sono stata ai patti» disse Laura, «e ha funzionato. Dio non imbroglia.

Ma poi Alex è partito per la guerra. Dopo che era tornato dalla Spagna,

voglio dire. È quello che disse Callie - che disse a me».

Non riuscivo a raccapezzarmi. Mi sentivo piuttosto confusa. «Laura»

dissi, «perché sei venuta qui?»

«Perché la guerra è finita» disse Laura in tono paziente, «e Alex tornerà

presto. Se non fossi qui, non saprebbe dove trovarmi. Non saprebbe della

Clinica Bella Vista, non saprebbe che sono andata a Halifax. L'unico mio

indirizzo che avrà è il tuo. In qualche modo mi farà avere un messaggio».

Aveva la fiducia corazzata e irritante del vero credente.

Avevo voglia di scuoterla. Chiusi gli occhi per un momento. Vidi lo sta-

gno di Avilion, la ninfa di pietra che vi immergeva le dita del piede: vidi il

sole ardente che brillava sulle foglie verdi simili a gomma, il giorno del

funerale di nostra madre. Mi faceva male lo stomaco per le troppe torte e il

troppo zucchero. Laura era seduta sulla sporgenza rocciosa accanto a me,

canticchiando tra sé e sé con aria compiaciuta, certa della convinzione che

tutto fosse davvero a posto e che gli angeli fossero dalla sua parte, perché

aveva stretto qualche strambo patto segreto con Dio.

Le dita mi prudevano per il dispetto. Sapevo che cosa era successo subi-

to dopo. L'avevo spinta giù.

Ora arrivo alla parte che non cessa di ossessionarmi. A quel punto avrei

dovuto mordermi la lingua, tenere la bocca chiusa. Per amore avrei dovuto

mentire, o dire qualcos'altro: qualsiasi cosa tranne la verità. Mai interrom-

pere un sonnambulo, diceva Reenie. Lo choc potrebbe ucciderlo.

«Laura, detesto dovertelo dire» dissi, «ma qualunque cosa tu abbia fatto,

non ha salvato Alex. Alex è morto. È rimasto ucciso in guerra, sei mesi fa.

In Olanda».

La luce attorno a lei si affievolì. Divenne molto pallida. Era come guar-

dare della cera che si raffreddasse.

«Come lo sai?»

«Ho ricevuto il telegramma» dissi. «Lo hanno mandato a me. Mi aveva

indicato come parente più prossima». A quel punto avrei potuto ancora

cambiare rotta; avrei potuto dire: Ci deve essere stato un errore, doveva

essere destinato a te. Ma non lo dissi. Invece dissi: «È stato molto indi-

screto da parte sua. Non avrebbe dovuto farlo, pensando a Richard. Ma

non aveva famiglia, ed eravamo stati amanti, capisci - in segreto, per pa-

recchio tempo -, e chi altri aveva?»

Laura non disse niente. Si limitò a guardarmi. Mi guardava attraverso. Il

Signore sa cosa vedeva. Una nave che stava affondando, una città in

fiamme, un coltello nella schiena. Riconobbi lo sguardo, però: era lo

sguardo che aveva il giorno in cui era quasi affogata nel Louveteau, pro-

prio mentre stava andando sotto - terrorizzato, freddo, rapito. Scintillante

come acciaio.

Dopo un momento si alzò, si sporse sul tavolo e prese la mia borsa, rapi-

damente e quasi con delicatezza, come se contenesse qualcosa di fragile.

Poi si girò e uscì dal ristorante. Non mi mossi per fermarla. Fui colta di

sorpresa, e quando mi alzai anch'io dalla mia sedia Laura era sparita.

Ci fu un po' di confusione riguardo al pagamento del conto - non avevo

altro denaro oltre a quello che era nella borsa, che mia sorella - spiegai -

aveva preso per sbaglio. Promisi di rimborsarli il giorno seguente. Dopo

avere sistemato la questione corsi quasi nel punto in cui avevo parcheggia-

to la macchina. Non c'era più. Anche le chiavi erano nella borsa. Non ero

al corrente che Laura avesse imparato a guidare.

Camminai per parecchi isolati, architettando delle storie. Non potevo di-

re a Richard e a Winifred cosa era successo davvero alla mia macchina: sa-

rebbe stato usato come un'ennesima prova contro Laura. No, avrei detto

che avevo avuto un guasto e che la macchina era stata rimorchiata in un

garage, che mi avevano chiamato un taxi e io ci ero salita e soltanto quan-

do ero arrivata a casa mi ero accorta di avere lasciato per sbaglio la borsa

nella macchina. Nulla di cui preoccuparsi, avrei detto. Tutto sarebbe stato

sistemato subito, in mattinata.

Poi chiamai davvero un taxi. La signora Murgatroyd sarebbe stata in ca-

sa per farmi entrare e pagarmi il taxi.

Richard non venne a casa per cena. Era in questo o quel circolo, a man-

giare una cena orribile, a fare un discorso. Stava andando forte ormai, era

in vista della meta. Questa meta - ora lo so - non era semplicemente la ric-

chezza o il potere. Ciò che voleva era rispetto - rispetto, nonostante fosse

un nuovo ricco. Lo desiderava ardentemente, ne aveva sete; desiderava e-

sercitare rispetto, maneggiarlo non solo come un martello ma anche come

uno scettro. Tali desideri in sé non sono spregevoli.

Quel particolare circolo era riservato agli uomini; altrimenti sarei stata

là, seduta in disparte, per applaudire alla fine. In simili occasioni davo la

serata libera alla bambinaia di Aimee e mi incaricavo io di metterla a letto.

Le facevo fare il bagno, le leggevo qualcosa, poi le rimboccavo le coperte.

Quella particolare sera fu insolitamente lenta a addormentarsi: doveva aver

capito che c'era qualcosa che mi preoccupava. Rimasi seduta accanto a lei

tenendole la mano, accarezzandole la fronte e guardando fuori della fine-

stra, finché non si assopì.

Dov'era andata Laura, dove alloggiava, cosa aveva fatto della mia mac-

china? Come potevo raggiungerla, cosa potevo dire per aggiustare le cose?

Una cetonia sbatacchiava contro la finestra, attirata dalla luce. Urtava sul

vetro come un pollice cieco. Sembrava arrabbiata, e frustrata, e anche indi-

fesa.


La scarpata

Oggi il mio cervello mi ha riservato un vuoto improvviso; un ab-

bacinamento, come quelli causati dalla neve. Non era il nome di qualcuno

a essere scomparso - almeno questo è normale -, ma una parola, che si era

capovolta e svuotata di significato come un bicchiere di carta soffiato via

dal vento.

Questa parola è scarpata. Ma perché mi era venuta in mente? Scarpata,

scarpata, ripetevo, forse anche ad alta voce, ma non mi appariva nessuna

immagine. Era un oggetto, un'attività, uno stato mentale, un difetto fisico?

Niente. Vertigine. Vacillavo sull'orlo, cercavo di prendere aria. Alla fine

ho fatto ricorso al dizionario. Scarpata, fortificazione verticale, oppure ri-

pida scogliera.

All'inizio era il verbo, credevamo una volta. Dio sapeva che cosa incon-

sistente sarebbe stata la parola? Che cosa esile, che poteva essere cancella-

ta per caso?

Forse è questo che accadde a Laura - che la spinse letteralmente oltre il

limite. Le parole su cui aveva contato, costruendoci sopra la sua casa di

carte, credendole solide, erano volate via e le avevano mostrato i loro nu-

clei vuoti, quindi erano schizzate via da lei come altrettanta carta straccia.

Dio. Fiducia. Sacrificio. Giustizia.

Fede. Speranza. Amore.

Senza contare sorella. Be', sì. Quella non poteva mancare.

La mattina dopo il mio tè con Laura al Diana Sweets, rimasi incollata al

telefono. Le ore passavano: nessuna notizia. Avevo un appuntamento per il

pranzo con Winifred e due membri del comitato, all'Arcadian Court. Con

Winifred era sempre meglio attenersi ai piani concordati - altrimenti si in-

curiosiva - e così andai.

Ci fu raccontata l'ultima impresa di Winifred, un cabaret a sostegno dei

militari feriti. Ci sarebbero stati canti e balli, e alcune delle ragazze stava-

no mettendo su un numero di can-can, perciò dovevamo tutte rimboccarci

le maniche e darci dentro, per vendere i biglietti. Anche Winifred avrebbe

scalciato in aria in sottoveste arricciata e calze nere? Sperai sinceramente

di no. A quel punto era fin troppo scheletrica.

«Sei un po' pallida, Iris» disse Winifred, inclinando la testa da un lato.

«Davvero?» feci in tono affabile. Ultimamente mi diceva spesso che non

ero in forma. Quello che intendeva era che non stavo facendo tutto il pos-

sibile per appoggiare Richard, per sospingerlo lungo il cammino verso la

gloria.


«Sì, un po' appassita. Richard ti sta stancando? Ne ha di energia da bru-

ciare, quell'uomo!» Era di ottimo umore. I suoi piani - i suoi piani per Ri-

chard - dovevano andare bene, nonostante la mia rilassatezza.

Ma non potevo rivolgerle troppa attenzione; ero troppo in ansia per Lau-

ra. Cosa avrei fatto se non si fosse presentata al più presto? Non potevo

certo dichiarare che la macchina mi era stata rubata: non volevo che fosse

arrestata. Non lo avrebbe voluto neanche Richard. Non era nell'interesse di

nessuno.


Tornai a casa, dove la signora Murgatroyd mi riferì che Laura era passa-

ta durante la mia assenza. Non aveva neanche suonato il campanello - la

signora Murgatroyd si era imbattuta per caso in lei nell'ingresso. Era stato

un colpo, vedere la signorina Laura in carne e ossa dopo tutti quegli anni,

come vedere un fantasma. No, non aveva lasciato indirizzo. Però aveva

detto qualcosa. Dica a Iris che le parlerò più tardi. Qualcosa del genere.

Aveva lasciato le chiavi di casa nel vassoio della posta; aveva detto di a-

verle prese per sbaglio. Una strana cosa da prendere per sbaglio, osservò la


Yüklə 2,13 Mb.

Dostları ilə paylaş:
1   ...   42   43   44   45   46   47   48   49   50




Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©muhaz.org 2024
rəhbərliyinə müraciət

gir | qeydiyyatdan keç
    Ana səhifə


yükləyin