Modello Amàrantos



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- Jim, anche te qua a questo torneo!

- Lo sai, dott. Carrozziere, dove c’è festa io ci sono sempre…

- Eh, Anche Il carrozziere c’è sempre dove c’è da bere! - rispose lui. Era un tipo un po’ particolare. E parlava sempre in terza persona. Il carrozziere qua, Il carrozziere di là e su e giù. Forse era un po’ eccentrico. Anche senza tanti forse. Era un pazzo ubriacone. Con i soldi però. I soldi.

- Cosa bevete ragazzi? - Urlò il vecchio Il carrozziere.

- Qua Il carrozziere paga da bere per tutti! - Urlò ancora lui, ovviamente.

Nel giro di mezz’ora il bancone ottagonale si riempì per metà di birre offerte da Il carrozziere. C’erano tre lati del chiosco pieni di birre. Non avevo mai visto una cosa simile. Presupponendo e approssimando che una birra piccola, bella lasca occupi circa 10x10 cm, ossia 100 cmq, in 8 lati del chiosco ce ne stavano a bizzeffe. Mentre bevevo calcolai che un lato è di circa un metro - un metro e mezzo, quindi 125 cm e largo 50, dato che sembra fatto con i pannelli da cantiere che sono larghi proprio 50 cm, quindi per otto lati sono 8x50x125. Dopo un po’ realizzai un 50.000 centimetri quadri. Presupponendo uno scarto di buchi tra una birra e l’altra del 20 per cento, con un conseguente spazio effettivo ridotto a 40.000 cmq, il conto diventa elementare. 40.000 diviso 100 ossia 400 birre. Giuda stronzo. E c’erano. Al massimo avrebbero potuto essere 300, anche 200 forse, ma forse no, non meno di sicuro.
Quando Il Carrozziere se ne andò ormai era notte fonda. Non so perché ma decisi di incamminarmi verso il lago. Mi fermai a mezzo metro dall’acqua e feci una pisciata clamorosa. Nel frattempo arrivarono due tipi. Uno di loro urlò un paio di bestemmie e poi lo sentii pisciare ad una decina di metri da me. Io nel frattempo ero ancora in esecuzione. L’altro deficiente invece mi si affiancò come fosse ad un semaforo e si mise anche lui ad orinare. Si girò verso di me e mi disse:

- ehi, socio, sei bello pieno anche tu questa sera!

- ma…- evitai la risposta retorica

- però, ma cos’hai, venti centimetri di uccello?

finii di pisciare e mi guardai il pisello - a me sembra molto più piccolo

- perché ce l’hai mollo…

- beh, a me non viene duro di sicuro a guardare i froci come te…

Mi immutandai immediatamente il cazzo e mi girai di scatto per parare un pugno in faccia che non mi arrivò.

Il deficiente al posto di incazzarsi si mise a ridere e mi portò al chiosco per offrirmi una birra insieme al suo amico. In quel momento pensai: o è frocio sul serio ed ha visto che sono ubriaco o la sua idiozia supera la media. La seconda ipotesi si valorizzò quando fece un commento positivo sulle tette della ragazza chiosco. I due ricchioni deficienti finita la birra se ne andarono. Io me ne feci offrire un’altra da una ragazza grassa e poi me ne andai anch’io. La tecnica delle ragazze grasse è sempre stata una delle mie preferite. Sono grasse e non le caga nessuno. Pensano loro. Chi vuole una ragazza grassa, quindi una ragazza che non stimola l’occhio, vuol dire che va ben oltre all’aspetto esteriore. Questo lo credono loro. Io attacco bottone sempre con le ragazze grasse perché sperano in un po’ di cazzo e così mi pagano da bere, poi sul più bello me ne vado, non sempre però, dipende da quanto ubriaco sono. Altra gente invece, come il mio soma dottor Hide si scopa le ragazze obese perché è pervertito e fa bene.

Me ne andai verso il baracchino dove facevano polenta e pastin, con la speranza che qualche ubriacone dello staff abbia dimenticato qualche sorta di bevanda alcolica in giro. Speranza non troppo vana. Infatti succedeva sempre che in queste manifestazioni qualche melcico di organizzatore si alcolizzasse al punto di andarsene e lasciare tutto aperto. Idioti. Io, anche se bevo come uno stronzo non mi sarei mai permesso di abbandonare il campo di battaglia, piuttosto sarei rimasto lì a dormire, ma non mi sarei arreso.


Era buio. C’erano solo un paio di lampadine marce ad illuminare un prato grande come un campo da calcio. Non c’era più nessuno in giro. Nessuno. Festa finita. E sono l’ultimo come al solito. Pensai. Dei rumori ed un fischio catturarono le mie orecchie. Mi girai. Era iniziata un’altra partita là infondo al campo. Non C’era nessuno che la guardava. Non c’era nessuno ai chioschi. Solo io e due squadre di ubriachi. Neanche male. Mi rivoltai ed entrai nella baracca del pastin. Deserto. Mi sedetti su una panchina e bevvi una mezza birra avanzata da chissà chi. Mi sembrava buona. Sicuramente era svampita da almeno un paio d’ore. Presi un mozzicone abbondante di una sigaretta che giaceva sola e sconsolata tra il fango. Si leggeva ancora la marca: una cazzo di lettera cerchiata. Lucky Strike. Buone. La fumai come fosse bomba d’olio d’erba.

- Jim, Jim, sapevo che eri qua anche te!

- Heilà socio! Tutto bene? La figa? Ti piace la figa? Hai visto, giocano? C’è chi vince e c’è chi perde…

Iniziai a sputare parole come se ne avessi troppe in corpo. Provai a guardare quel tipo in faccia ma non mi ricordava nessuno. Forse era qualcuno ed il nessuno ero io. Ricordo che non era biondo.

- il tuo soma è cotto come al solito! È fuori! È fuori?

- Sì, sì, è fatto così, cosa vuoi farci, è uno psicopatico!

- È da un’ora che dorme, abbiamo provato a svegliarlo, ma è devastato...

- Ciao! - mi disse una tipa giovane ma non figa, altrimenti mi ricorderei di lei.

- Ciao, babusca

- Non ti ricordi di me, eravamo a scuola insieme e siamo andati una volta fare vxcds al sdgdssdg e c’era dsgfdsdsarop e poi reihjpq nwasasdfk e ancora vgfioxcppoa

- Sì, sì, quelli erano bei tempi, altro adesso che fsdsdew e ertrtrtsadfdfd

Non ci stavo più ne con la testa ne con il corpo. Ero accecato al mille per 0,00001. Dondolavo la testa come una marionetta e muovevo le braccia come un burattino.


- Ma, allora, il mio socio dov’è? - chiesi al terzo tentativo di movimento mandibolare.

- È là, disteso e non da segni di vita…

- Mio socio quello che va a cavallo, per caso, Eddie?

Stavo iniziando a coordinare le parole con sobria eleganza, degna di un nobile lord inglese.

- No, il professore!

- Il professore?

- Sì, il professore, il dottore, il maniaco, quello schizofrenico!

- Ma dove cazzo è?

- Disteso su un tavolo là dietro…

Capii che si trattava del dottor Hide e a tal punto non salutai neppure e volai dondolando dietro al baracchino della mutua.

- Santiddio dottore! Io sono qua che mi sto facendo succhiare il cazzo da una troia vecchia e obesa e te sei lì che dormi come un coglione? - urlai mimando inutilmente un rapporto orale.

Il dottor alle mie parole si girò. Non era di certo uno che si svegliava a parole del tipo: - dai, svegliati, tutto bene? ehi, ehi, come stai?. Ci voleva ben altro per scuoterlo ed infatti gli tirai anche una scarpata nel culo.

- Jim, Jim! - Si girò il mio dottore di fiducia con gli occhi ancora chiusi.

- Ho imbastito una sbronza così perfida questa sera che probabilmente mi sono smerdato anche le mutande. Puttanavacca puttanabaldracca.

Mentre mi diceva tutto questo agitava poderosamente la mano destra al cielo e scuoteva la testa insieme ai suoi capelli da frocio, mentre il reso del suo corpo rimaneva immobile lungo il tavolino.

- dottore, vieni a bere qualcosa con me o resti qua a marcire insieme al budello di Giuda?

- puttanavacca puttanabaldracca

- ok, io vado a bere, se vuoi venire bene, altrimenti puoi restare qua a barboneggiare come un finferlo

- ok, Jim, ok Jim, andiamo a degustare un decalitro di vino…

Il dottore provò a rialzarsi, ma quando il suo busto si inclinò di circa 46° la sua struttura brachiale portante cedette sotto la pressione delle scoregge di bestia doppia e la sua testa piena di grilli ubriachi si sfracellò sul tavolino da sagra.

- dottore, dottore, ma santiddio, sei sempre uguale!

Gli scossi la testa un paio di volte, ma rassegnato mi incamminai senza una meta, rintronato da 4 luci fioche, un arbitro cornuto che fischiava ed un ammasso di giocatori che bestemmiavano in campo.

Insultando la madre, la figlia e la sorella dell’arbitro, con termini che non oso neppure riportare. Troia, roia, puttana, bocchinara, zoccola, devastatrice di cazzi, succhia cappelle, pompinara, sgualfara, meretrice, sgualdrina, babusca, vacca, baldracca, prostituta, pornoattrice, lesbica, luia, tempestata dai cazzi bubbonici. Mentre passeggiavo per un qualche posto che portava ad un qualche chiosco della birra iniziai a pensare al dottor Hide. Non che fossi frocio, ma mi faceva crepare da ridere certe volte. Ricordo che una notte entrò a casa mia insieme al Maestro di Guccini, Eddie ed una troia, non di professione ma di passione. Nessuno se la scopò. Restammo fino alle sei di mattina ad alcolizzarci. Il dottore girava nudo completo per la casa, ogni tanto usciva, pisciava, guardava le stelle, poi ritornava a bere e a scrivere minchiate sul computer come sta facendo in questo istante il sottoscritto. Eddie era il padrone degli spigoli. Era così tronfio di branca menta che sbatteva con la testa e con il corpo dappertutto. Il Maestro di Guccini invece era chiamato così perché una volta si trovò faccia a faccia con il vero comunista Guccini e gli disse con arroganza frasi del tipo: - non sei altro che un mio discepolo - tuo nonno, ovvero il sottoscritto, ha ancora molto da insegnarti… Quella notte però, il sublime insegnante era disteso per terra a leccare gli avanzi oleosi di una scatoletta di tonno che avevo rovesciato per terra. Poi c’era la puttana. La puttana girava, brutta, ma lo faceva far tirare, visto che era proprio vacca, ti infilava la lingua in bocca ed infine rideva. Aveva un alito marcio da cipolla.

Probabilmente lo aveva succhiato a qualcuno di putrefatto, tipo tutti quelli che erano nella stanza insieme a me. Mi venne un senso di vomito solo al pensiero di leccare qualcosa che aveva appena leccato lo sperma di un altro, ossia mangiare letteralmente la sborrata di un uomo. Anche alcune donne sburrano, ma quella è un’altra storia.

Mentre mi facevo queste seghe mentali, evitando di eiacularmi in bocca, possibilmente, mi ritrovai già bello e fetido accatastato sull’esagono o pentagono o equilatero, non capivo più un cazzo, sostanzialmente ero ancora in un qualche chiosco della birra.

- Bellissima creatura, dolcissima e innocente ragazzina, per caso, verresti qui a succhiare gentilmente la verga arrugginita di questo povero vecchio?

- e tu saresti un vecchio? - Rispose la vergine creatura - vergine nelle orecchie, forse - che gestiva sola ed indifesa un chiosco di birra in una notte perversa. No. Cazzo. C’è un energumeno là sotto che sta cambiando il fusto di birra.

- no, no, il vecchio è qua dietro su una sedia a rotelle…ah ah! Ormai a quell’ora iniziai a diventare pure deficiente, ma non riuscivo a fermarmi

- pensavi che fossi io, ma col cazzo che te lo lascio succhiare, una ninfomane come te mi strapperebbe la cappella a morsi per poi usarla come portachiavi…

Andai avanti così per un bel pezzo, alla fine ricordo solo che bevetti a sbaffo ancora parecchie birre, pagate non so da chi o segnate sul mio conto immaginario di mille sesterzi.

- bellissima fanciulla vuoi sposarmi?

- la troia uscì dal chiosco e le baciai la mano, qualcuno applaudì, forse uno solo, visto che eravamo probabilmente in quattro: io, la troia, io e l’obeso che cambiava i fusti birra.

- Jim , Jim, Jim, Jim...-

Alzai gli occhi e vidi una sagoma umana. Era bella, sottile e lucente, piena di capelli e con il naso lungo, peccato che aveva la voce da uomo. Mi resi conto di essermi addormentato al fottuto chiosco con la mia ultima birra in mano. Avevo dormito in piedi con la birra in mano, cazzo. E mi ero accorto solo in quel momento. Beh, pensai, come potevo accorgermene prima se stavo dormendo. C’era il sole, non che ne sentissi la mancanza, ma a vederlo così mi fece un effetto indelebile per i successivi dieci secondi. Era giallo ed intorno a me non c’era nient’altro di giallo, a meno che qualcuno non si fosse pisciato nelle mutande.

- Ma gli altri, dove sono? - chiesi al tipo smilzo che probabilmente era un mio amico.

- Adesso abbiamo la partita

- Bene, e la mi tenda?

- Ozzy te l’ha montata, ma adesso gioca alla partita insieme agli altri

- ok. Saiudi

Barcollai vistosamente fino all’accampamento, provai ad infilarmi nella prima tenda che vidi, ma un tizio mi prese per il collo e con bestemmie miste a cattiveria mi buttò in una tenda più familiare. Probabilmente anche quello era un mio amico, visto sapeva qual era la mia tenda. Belli ed eleganti i miei amici.

- Dai, Jim, sveglia, svegliati Jim! - disse un tipo

- Come?


- Non mi riconosci più?

- Sì, ma, io ero nella mia tenda…

- Ma cosa dici, è un’ora che sono qua ed è un’ora che ti vedo... Ti ho lasciato qua due minuti da solo e ti sei addormentato con la birra in mano…

- Ma che ore sono?

- sono le due di pomeriggio

- quindi te sei qua dall’una?

- evidentemente si, più o meno quasi…

- ma dove mi hai trovato?

- ti ho trovato qua, che molestavi una ragazza…

- ah. Oggi allora è domenica?

- Sì, è domenica

- Ma non è sempre domenica…- Risposi. Poi alzai lo sguardo e vidi che era l’ing. Palestra.

- No. Non lo è.

- Però è domenica e devo andare a lavorare.

- E vuoi andare a lavorare in queste condizioni?

- No, portami a casa

- Ok, finisco la birra e ti porto a casa.

- Non ti dispiace portarmi a casa, vero?

- no, no, tanto devo andare in palestra alle tre, quindi adesso è meglio che me ne torni tra i paesi alti.

- Va beh, se insisti portami a casa

- Sei fortunato, hai trovato il tuo salvatore

- hai ragione, Giuda bestia

- Ma che atrofizzato che sei oggi!

- Non è colpa mia, è colpa del Trudheim

- Il Trudheim, la montagna?

- Sì, non vedi come è tronfia e boriosa. Arrogante ed infima.

- Mah, a me sembra sempre uguale

- Sembra, sembra, l’apparenza. In realtà è diversa, è più arrogante oggi. Non vedi come è alta?

- A me sembra sempre alta uguale...

Non succede niente



Vivevo in un paese di vecchi. Ed i più vecchi spesso erano i giovani. Quando non lavoravano bevevano tutti e quando non bevevano viceversa. Durante la settimana in giro non c’era un cane. Solo le solite mosche da osteria. Il venerdì sera c’era il macello. Tutti si sbronzavano in culo alle mogli e alle fidanzate, poi il sabato e la domenica fischiettavano allegramente insieme alle loro donne e gli unici sballati restavamo sempre io e qualche mio socio. C’era ormai una routine consolidata a livello globale e nessuno si accorgeva di tutto ciò. Il venerdì di solito andavo al lavoro in macchina, così ritornando mi fermavo al discount per comprarmi una cassa di birra ed una bottiglia di whisky per pochi sgangherati spiccioli, invecchiato per tre miseri anni in botti di poliuretano espanso. Se andavo al lavoro in autobus invece, a causa dei tempi corti, potevo solo fermarmi in un supermercato dove il whisky costava almeno il triplo. Però in autobus risparmiavo alla grande. Abbonamento saltuario. Poi dormivo. Alla mattina mi distendevo sul sedile da 5 di dietro, fino a che non si intasava di gente, altrimenti mi incastravo in una posizione canonica sulla coppia di sedili rialzati di fronte alla porta, con l’unico svantaggio di beccarmi il gelo d’inverno. Al ritorno, se non ero così preso male da dormire ancora mi leggevo qualche libro, poi in una fermata strategica scendevo, cambiavo di autobus e finivo dritto in qualche bar: cicca, ombra da qualche cents ed in tempo zero uscivo per riprendere l’autobus di prima che nel frattempo aveva fatto un giro un po’ del cazzo per raccattare gente. In pratica l’autobus me la faceva passare alla grande, ma per colpa del whisky o per colpa della sbronza di whisky lo perdevo un giorno sì e l’altro no. Così al lavoro ci andavo con la mia prinz del 68. Durante la mezz’ora di tragitto mi facevo un paio di lattine da 50 cl e quando arrivavo a casa mi passava anche la fame. Restavo chiuso dentro anche fino a mezzanotte a bere birra e ad ascoltare radio 3, ossia un cocktail a base di musica classica e minchiate annacquate di cultura, il tutto remixato da mammelloni troppo sapienti per non essere esauriti. Poi uscivo. Mi piaceva arrivare in piazza stravolto e vedere le facce ancora più stravolte di tutta questa gente che aveva finito i 5 lavorativi. Tutti si lamentavano. Troppe ore in fabbrica. Troppo poche. Il caporeparto è uno stronzo, i sindacati non mi aiutano, avanzavo 12 sesterzi e 24 centesimi da Natale… Io non mi lamentavo troppo di quell’ultimo lavoro che facevo. Piuttosto mi lamentavo del fatto che non dormivo mai un cazzo durante la settimana. Se bevevo era finita. 4 di mattina come ridere. Se non bevevo non riuscivo a dormire, quindi tanto valeva bere.
Era venerdì, ero lì al solito bar. Mi sedevo là ad ascoltare, mostrando un minimo interesse, ma filtrando le informazioni con il buco del culo. Non me ne fregava proprio un gran cazzo. L’unica cosa positiva di questa menata era che spesso ci scappava il giro di birre o di amari offerto da uno dei tanti. E la gente si compiaceva. Io non pagavo mai un cazzo a nessuno se non mi andava di farlo. Non mi andava di fare il figo in giro. Poi quando ero sbronzo il mio portafogli si apriva coma una figa bagnata e la notte me ne tornavo pulito senza l’ombra di un quattrino.
Era un altro fottuto venerdì. Normalmente di venerdì sono in forma strasmagliante grazie al forzato ramadan del giovedì sera. Quella mattina invece si stava preannunciando drammatica: avevo la testa folgorata per colpa di un dannato festino improvvisato la sera precedente ed accusavo inoltre fiammate allo stomaco probabilmente dovute allo stesso motivo. In un primo momento non riuscii ad inquadrare bene la situazione. Fissai per una decina di secondi l’orologio appeso al muro e ciò nonostante non riuscii a focalizzare che cazzo di ore fossero state. Mi alzai ciondolante e debilitato come un malato di AIDS e presi in mano il telefono per guardare nuovamente l’ora. Non fui in grado di premere due bottoni in croce e buttai per terra quella merda di cellulare. Nel frattempo mi si impresse in un flash il cerchio rosso con le lancette che avevo visto ormai un minuto prima. Le dieci. Alzai gli occhi verso quel quadrante del quale non sentivo neppure il forte ticchettio. Cazzo. Sono le dieci.

Un minuto mi bastò per infilarmi barcollante i jeans sporchi e la prima maglia che vidi sulla sedia. Rovescia. Me la tolsi e indossai un altro maglione blu, più pesante ma non troppo. Non c’era tempo per fare un cazzo, nemmeno per togliermi l’alito di fogna intasata, ma lo feci lo stesso. O almeno ci provai ingoiando mezzo tubetto di mentadent. Il tappo del barattolo finì per terra, forse in mezzo al piscio (ho l’uccello storto e la mattina non ho la forza nemmeno per raddrizzarlo quando vado al cesso). Provai stupidamente a cercarlo, ma senza gli occhiali fu un’impresa impossibile. Dopo un paio di minuti passati a lisciare le piastrelle con i palmi delle mani mi accorsi di quanto grande fosse la stronzata che stavo facendo: ma non per questo smisi di cercare il merdoso tappo del mentadent tarocco che sbiancava i denti in 3 minuti. Lo usavo da 90 anni ed avevo gli incisivi color rovere. Finalmente lo trovai dentro la vasca da bagno ed in quel momento mi sentii così merdoso come l’uomo più merdoso della merdosità umana. Per un attimo ripresi possesso delle mie capacità intellettuali e mi affrettai alla ricerca dei soliti oggetti sparsi. Dove cazzo erano le chiavi. Dove cazzo avevo messo i soldi. Sempre che ne avessi avuti ancora. Dovevo prendere una cosa che ovviamente non mi ricordo più. Probabilmente era solo una fisima mentale e non dovevo prendere nulla. Avevo ancora una sigaretta nella giacca.

Forse la giacca è ancora fuori all’aria o no. Bevo un succo all’arancia perché alla mattina è buona cosa assimilare vitamine e sali minerali. Le chiavi sono in questa tasca. No. Ecco le chiavi della macchina. No. Sono chiavi di merda. Vaffanculo. Ecco le chiavi della macchina. Sono proprio queste. Bene. Ecco la mia splendida macchina. Fottuta Prinz di merda. Prego satana che vada in moto altrimenti la sfascio a suon di bestemmie e feroci articolazioni del mio bicipite destro.

Ero incazzato a livello di pelle ma felice all’interno. Molto all’interno. Era venerdì, pensai appoggiando il succo gastrico sulla capote verde, facendomi stupidamente scivolare le chiavi di mano.

Quella cosa che dovevo prendere forse era… non importa. Non è tardi, di più.

Raccolsi le chiavi, misi in moto, alzai il volume del grammofono ed uscii dal piazzale come un vecchio sulla sua sedia a rotelle. La neve frusciava leggermente, quasi, quasi sembrava che stessi guidando su un prato verde. Verde ma bianco. Mi immaginai felice e contento, con i capelli in ordine, la camicia colorata e i fiorellini da hippy disegnati sulla macchina. Alla fine invece ero sostanzialmente incazzato, con i capelli lunghi e sudici, indossavo un maglione orrendo e giravo a bordo di una prinz verde maculata di letame.

Varcai il primo svincolo a 22 chilometri orari, più o meno, forse più meno che più. Seconda, terza, poi ancora seconda, poi ancora terza, ma questa volta costante, a bassi giri, per consentire un minimo riscaldamento al povero motore. Forse era una stronzata, tante volte la tiravo da fredda ibernata e non mi aveva mai rotto i coglioni. Anzi me li rompeva quando era troppo calda, così in salita la temperatura dell’H2O andava su a 100 milioni di dollari. Non ho mai avuto concetti troppo chiari per quel che riguardava il funzionamento delle macchine, e quella mattina certamente non mi posi quei problemi. Scartai la cannuccia dello stramaledetto brick di succo esotico d’arancia tropicale con papaia e sperma di facocero. La incastrai nel posacenere che era a sua volta incastrato alla sinistra del cruscotto. Nel fare questa semplice e goliardica operazione mi saltò all’occhio un mozzicone di sigaro fino. Non un vero e proprio sigaro, ma uno di quegli affari tipo moods, ma non era di quella marca, comunque il concetto penso sia chiaro. Lo presi tra i denti come il cazzetto di un cinese e lo pipai tra un sorso e l’altro di bevanda dietetica ipocalorica, ad alto apporto di vitamine e sali minerali. Però la vita. Che belle soddisfazioni. Fare contemporaneamente un pompino ad un cinese e bere succo linfatico decongestionante. Allo stop preferii non fermarmi e scivolare lentamente verso sinistra, senza dare troppo nell’occhio; spesso questo sistema mi dava grandi soddisfazioni. Praticamente mi affiancai all’auto che arrivava a circa 90 all’ora, ovviamente suonando il clacson come fosse una trombetta da stadio, e mi intrufolai fra essa ed il furgone che avanzava imponente nel verso contrario. Succhiai l’ultima goccia di elisir e buttai il cartone di dietro, sapendo che si sarebbe lentamente incamminato fin sotto il mio sedile.

Il dottor Iguana Pop continuava a cantare e se ne sbatteva anche quando mi finiva la cenere puzzolente sopra l’autoradio, che a dir la verità mi era costata un occhio della testa di un ciclope. Aveva l’iper mp3, il pcpds, il lettore cd dvd divuics, fad, loud, wlafg e una serie di sigle del cazzo che facevano scena e piacevano ai giovani. Ovviamente costava di più della macchina. Sinceramente di tutte quelle minchiate l’unica cosa che utilizzavo era un bottone per cambiare da radio a CD. E comunque ogni tanto si inchiodava e mi costringeva ad ascoltare i CD solo quando erano strisciati e la radio solo quando attraversavo una galleria. Il resto del tempo cantavo io.

Per un attimo pensai proprio a che bottone premere sulla radio, così solo perché ne aveva tanti ed era un peccato lasciarli a marcire. Martellai qualche pulsante diverse volte, ma non notai alcun miglioramento, se non l’espulsione del frontalino durante una curva, che da stronzo si infilò quasi sotto i pedali.

Parcheggiai alla buona, la macchina infatti rimase col culo in mezzo alla strada. Dopo aver inconsciamente sbattuto la portiera sputai l’ultimo residuo di finto sigaro che avevo in bocca da mezz’ora (ovviamente spento ed impestato di saliva lumacosa) e sgambettai verso il mio loculo.


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