Margaret atwood



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non poteva monopolizzare le riunioni e che con il denaro non si poteva

comprare tutto, e che loro avevano voluto quella frase malgrado lui. Poi

vennero fatti altri discorsi, e vennero dette preghiere - molti discorsi e mol-

te preghiere, perché i ministri di ogni chiesa della città dovevano essere

rappresentati. Sebbene non ci fossero cattolici nel comitato organizzatore,

perfino a un prete cattolico fu concesso di fare un intervento. Mio padre

insistette su questo punto: un soldato cattolico morto era morto esattamen-

te come un morto protestante.

Reenie disse che era un modo di vedere le cose.

«E l'altro modo qual è?» chiese Laura.

Mio padre depose la prima corona. Io e Laura stavamo a guardare, mano

nella mano; Reenie piangeva. Il Royal Canadian Regiment aveva inviato

una delegazione fin dalle Caserme Wolsely di London, e il Maggiore M.K.

Greene depose una corona. Poi ne furono deposte altre da quasi tutte le as-

sociazioni possibili e immaginabili - la Legione, seguita dai Lions, i Kin-

smen, il Rotary Club, gli Oddfellows, l'Orange Order, i Cavalieri di Co-

lombo, la Camera di Commercio e, tra gli altri, lo I.O.D.E. - e per ultima la

signora Wilmer Sullivan delle Madri dei Caduti, che aveva perso tre figli.

Fu cantato Rimani con me, quindi fu suonata La ritirata, in modo un po'

tremolante, da un trombettiere della banda degli scout. Seguirono due mi-

nuti di silenzio e una salva di fucili fatta esplodere dalla Milizia. Infine ci

fu La sveglia.

Mio padre stava a capo chino, ma tremava visibilmente, difficile dire se

per il dolore o per la rabbia. Indossava l'uniforme sotto un cappotto pesan-

te, e si appoggiava al suo bastone con le mani infilate nei guanti di cuoio.

C'era anche Callie Fitzsimmons, ma si teneva in disparte. Non era il tipo

di occasione in cui l'artista potesse farsi avanti e fare un inchino, ci aveva

detto. Indossava un decoroso cappotto nero e una normale gonna invece di

uno dei suoi vestiti, e un cappello che le nascondeva gran parte del viso,

ma si sussurrò comunque sul suo conto.

Poi in cucina Reenie fece la cioccolata calda per me e Laura, per riscal-

darci, perché ci eravamo congelate a stare sotto la pioggerella. Ne fu offer-

ta una tazza anche alla signora Hillcoate, che disse che non l'avrebbe rifiu-

tata.


«Perché è chiamato Monumento ai Caduti?» chiese Laura.

«Perché serve a ricordare i caduti in guerra» disse Reenie.

«Perché?» chiese Laura. «A che scopo? A loro fa piacere?»

«Non è per loro, è piuttosto per noi» disse Reenie. «Lo capirai quando

sarai più grande». A Laura dicevano sempre così, e lei non ci faceva caso.

Voleva capire subito. Rovesciò la sua cioccolata.

«Posso averne dell'altra? Cos'è il Supremo Sacrificio?»

«I soldati hanno dato la loro vita per noi altri. Spero bene che tu non fac-

cia l'esagerata, perché se te la dò mi aspetto che la finisca».

«Perché hanno dato le loro vite? Volevano farlo?»

«No, ma lo hanno fatto comunque. Per questo è un sacrificio» disse Re-

enie. «Adesso basta. Ecco la tua cioccolata».

«Hanno dato la loro vita a Dio, perché è questo che vuole Dio. Come

Gesù, che è morto per i nostri peccati» disse la signora Hillcoate, che era

battista e si considerava la massima autorità in materia.

Una settimana più tardi Laura e io stavamo camminando lungo il sentie-

ro accanto al Louveteau, sotto la gola. C'era foschia quel giorno, saliva dal

fiume, vorticava come latte scremato nell'aria, gocciolava dai rami nudi dei

cespugli. I sassi del sentiero erano scivolosi.

All'improvviso Laura finì nel fiume. Fortunatamente non eravamo pro-

prio accanto al corso principale, perciò non fu portata via dalle acque. Gri-

dai, corsi a valle e l'afferrai per il cappotto; i suoi vestiti non erano ancora

impregnati d'acqua, ma era comunque molto pesante, e quasi caddi a mia

volta. Riuscii a trascinarla fino a una sporgenza piatta; poi la tirai fuori.

Era fradicia come una pecora zuppa, e anch'io ero piuttosto bagnata. La

scossi. Tremava e piangeva.

«L'hai fatto apposta!» dissi. «Ti ho visto! Saresti potuta annegare!» Lau-

ra soffocava e singhiozzava. L'abbracciai. «Perché l'hai fatto?»

«Così Dio avrebbe fatto rivivere la mamma» piagnucolò.

«Dio non vuole che tu muoia» dissi. «Lo farebbe infuriare! Se voleva,

poteva comunque far vivere la mamma, senza che tu ti annegassi». Questo

era l'unico modo di parlare a Laura quando assumeva certi atteggiamenti:

bisognava fingere di sapere qualcosa su Dio di cui lei era all'oscuro.

Si pulì il naso con il dorso della mano. «E tu come lo sai?»

«Perché guarda - ha lasciato che ti salvassi! Vedi? Se voleva che tu mo-

rissi, allora sarei caduta anch'io. Saremmo morte entrambe! E adesso an-

diamo, devi asciugarti. Non dirò niente a Reenie. Dirò che è stato un inci-

dente, dirò che sei scivolata. Ma non fare mai più una cosa simile. Okay?»

Laura non disse niente, ma mi permise di condurla a casa. Ci fu un'infi-

nità di schiocchi di lingua spaventati, di tremolii e rimproveri, e una tazza

di brodo di manzo e un bagno bollente e una borsa dell'acqua calda per

Laura, il cui incidente venne ascritto alla sua nota goffaggine; le fu detto di

guardare dove camminava. Mio padre mi disse Ben fatto; mi chiesi cosa

mi avrebbe detto se l'avessi lasciata andare. Reenie osservò che era un be-

ne che avessimo almeno un cervello in due, ma tanto per cominciare cosa

stavamo facendo laggiù? E con la nebbia, per giunta. Disse che avrei dovu-

to avere più buonsenso.

Quella notte giacqui sveglia per ore, le braccia avvolte intorno al corpo,

stringendomi forte. Avevo i piedi di ghiaccio, mi battevano i denti. Non

potevo togliermi di mente l'immagine di Laura nelle gelide acque nere del

Louveteau - come i suoi capelli si erano sparpagliati come fumo in un ven-

to turbinoso, come il suo viso bagnato era stato percorso da uno scintillio

argenteo, come mi aveva guardata quando l'avevo afferrata per il cappotto.

Com'era stato duro tenerla. Com'ero stata sul punto di lasciarla andare.

Miss Violence

Invece di andare a scuola, io e Laura venimmo provviste di una sequela

di precettori, sia uomini che donne. Non li ritenevamo necessari, e face-

vamo del nostro meglio per scoraggiarli. Li fissavamo con i nostri sguardi

azzurro chiaro, oppure fingevamo di essere sorde o stupide; non li guarda-

vamo mai negli occhi, soltanto sulla fronte. Spesso occorreva più di quanto

si possa credere per sbarazzarsi di loro: di solito sopportavano molto da

noi, perché la vita non li aveva certo trattati bene e avevano bisogno della

paga. Non avevamo nulla contro di loro in quanto individui; semplice-

mente non volevamo esserne oppresse.

Anche quando non avevamo lezione, dovevamo comunque rimanere ad

Avilion, in casa o nei giardini. Ma chi era lì a controllarci? I precettori era-

no facili da eludere, non conoscevano i nostri passaggi segreti, e Reenie

non poteva starci appresso ogni minuto, come osservava spesso lei stessa.

Ogni volta che potevamo fuggivamo da Avilion e giravamo per la città,

nonostante la convinzione di Reenie che il mondo fosse pieno di criminali,

anarchici e loschi orientali con pipe d'oppio, baffi sottili come corde attor-

cigliate e lunghe unghie appuntite, nonché di drogati e di gente dedita alla

tratta delle bianche, in attesa di rapirci e tenerci prigioniere per chiedere un

riscatto a nostro padre.

Uno dei molti fratelli di Reenie aveva qualcosa a che fare con le riviste

da pochi soldi, del tipo truculento, scadente che si compra nei drugstore, e

con quelle ancora peggiori, che ci si procura soltanto sotto banco. Qual era

il suo lavoro? Distribuzione, lo chiamava Reenie. Importazione clandestina

nel Paese, credo ora. In ogni caso a volte ne dava delle rimanenze a Ree-

nie, e nonostante i suoi sforzi per nascondercele prima o poi ci mettevamo

le mani. Alcune contenevano storie d'amore, e sebbene Reenie le divoras-

se, noi non sapevamo che farcene. Preferivamo - o meglio io preferivo, e

Laura si aggregava - quelle con storie ambientate in altri paesi o perfino su

altri pianeti. Astronavi venute dal futuro, dove le donne indossavano gonne

cortissime fatte di stoffa luccicante e tutto brillava; asteroidi con piante

parlanti percorsi da mostri con occhi e zanne enormi; paesi antichissimi

abitati da piccole fanciulle con gli occhi di topazio e la pelle opalina, vesti-

te con pantaloni di mussola e piccoli reggiseni di metallo, come due imbuti

uniti da una catenella. Eroi in costumi rigidi, con gli elmetti alati irti di

punte.


Stupidaggini, le chiamava Reenie. Come nessun'altra cosa al mondo.

Ma è proprio per quello che mi piacevano.

I criminali e i tipi coinvolti nella tratta delle bianche erano nelle riviste

poliziesche, con le loro copertine disseminate di pistole e zuppe di sangue.

Qui ogni volta ingenue eredi di immense fortune venivano messe fuori

combattimento con l'etere, legate con della corda da bucato - molta più di

quanta ne servisse - e rinchiuse in cabine di panfili, o in cripte di chiese

abbandonate, o in umide cantine di castelli. Laura e io credevamo nell'esi-

stenza di simili individui, ma non ne avevamo troppa paura. Perché sape-

vamo cosa aspettarci. Avevano grandi auto scure, e indossavano cappotti e

guanti spessi e cappelli flosci di feltro nero, e saremmo state in grado di

individuarli all'istante e scappare.

Ma non ne vedemmo mai neanche uno. Le uniche forze ostili che incon-

travamo erano i figli degli operai della fabbrica, quelli più giovani, che non

sapevano ancora che eravamo ritenute intoccabili. Ci seguivano a gruppetti

di due o tre, silenziosi e curiosi, o gridando insulti; ogni tanto ci tiravano

delle pietre, sebbene non ci colpissero mai. Più di tutto eravamo vulnerabi-

li ai loro attacchi quando bighellonavamo lungo lo stretto sentiero che co-

steggiava il Louveteau, con lo strapiombo sopra le nostre teste - avrebbero

potuto tirarci qualcosa - o nei vicoletti secondari, che imparammo a evita-

re.

Percorrevamo Erie Street, esaminando le vetrine dei negozi: quello che



vendeva articoli a poco prezzo era il nostro preferito. Oppure sbirciavamo

dalla rete di recinzione della scuola elementare, che era per i bambini co-

muni - i figli degli operai - con il suo cortile cosparso di cenere e le sue al-

te porte intagliate con su scritto Maschi e Femmine. Durante l'intervallo

facevano un gran baccano, e i bambini non erano puliti, soprattutto dopo

che si erano azzuffati o erano stati spinti nella cenere. Eravamo felici di

non dover frequentare quella scuola. (Lo eravamo davvero? O d'altra parte

ci sentivamo escluse? Forse tutte e due le cose).

Per questi giri ci mettevamo dei cappelli. Avevamo idea che fossero una

protezione; ci rendevano, in un certo senso, invisibili. Una signora non u-

sciva mai senza cappello, diceva Reenie. Diceva anche senza guanti, ma di

questi non ci preoccupavamo sempre. Di quel periodo mi ricordo i cappelli

di paglia: non paglia chiara, di un colore bruciato. E il caldo umido di giu-

gno, l'aria sonnolenta piena di polline. Lo scintillio blu del cielo. L'indo-

lenza, il vagare senza meta.

Come mi piacerebbe riaverli, quei pomeriggi senza scopo - la noia, la

mancanza di un fine, le possibilità soltanto abbozzate. E in un certo senso

li ho di nuovo; soltanto che ora, qualunque cosa verrà dopo, non durerà a

lungo.

La precettrice che avevamo a quel tempo durò più della maggior parte



degli altri. Era una donna di quarantun anni con un guardaroba di cardigan

di cachemire scoloriti che suggerivano un'esistenza precedente più prospe-

rosa, e un rotolo di capelli da topo appuntati dietro la testa. Si chiamava si-

gnorina Goreham - signorina Violet Goreham. A sua insaputa la sopran-

nominai Miss Violence, perché il suo nome mi pareva una combinazione

talmente improbabile, dopodiché riuscivo a stento a guardarla senza ridac-

chiare. Tuttavia il nomignolo le restò incollato; lo insegnai a Laura, e poi

Reenie naturalmente lo venne a sapere. Ci disse che eravamo cattive a

prendere in giro a quel modo la signorina Goreham; la poverina aveva su-

bito un rovescio di fortuna e meritava la nostra compassione, perché era

una donna sola. Cosa voleva dire? Una donna senza marito. La signorina

Goreham era stata destinata a una santa vita da nubile, disse Reenie con

una sfumatura di disprezzo.

«Ma neanche tu hai un marito» disse Laura.

«È differente» ribatté Reenie. «Non ho ancora trovato un uomo a cui va-

lesse la pena di stirare i pantaloni, ma ne ho respinti abbastanza. Ho avuto

le mie proposte».

«Forse anche Miss Violence ne ha» dissi, giusto per il gusto di contrad-

dirla. Mi stavo avvicinando a quell'età.

«No» disse Reenie, «non ne ha».

«Come fai a saperlo?» chiese Laura.

«Si vede dall'aspetto» disse Reenie. «Se avesse ricevuto anche una sola

proposta, perfino se l'uomo avesse avuto tre teste e la coda, lo avrebbe ac-

chiappato veloce come un serpente».

Con Miss Violence andavamo d'accordo perché ci faceva fare quello che

volevamo. Resasi ben presto conto di non avere abbastanza polso per te-

nerci a bada, aveva saggiamente deciso di non prendersi la briga di provar-

ci. Facevamo lezione di mattina, nella biblioteca, che un tempo era stata

del nonno Benjamin e adesso era di nostro padre, e Miss Violence non fa-

ceva altro che mettercela a disposizione. Gli scaffali erano pieni di pesanti

libri con il dorso di pelle e il titolo stampato in oro scuro, e dubito che il

nonno Benjamin li avesse mai letti: rappresentavano soltanto l'idea che la

nonna Adelia aveva di ciò che avrebbe dovuto leggere.

Sceglievo i libri che mi interessavano: Il racconto di due città di Charles

Dickens; le storie di Macaulay; La conquista del Messico e La conquista

del Perù, illustrate. Leggevo anche poesia, e di tanto in tanto Miss Violen-

ce faceva un tiepido tentativo di insegnarci qualcosa facendomi leggere ad

alta voce. A Xanadu Kubla Khan ordinò di costruire un grandioso tempio

del piacere. Nei campi di Fiandra ondeggiano i papaveri, tra le croci, fila

dopo fila.

«Non procedere a sbalzi» diceva Miss Violence. «I versi dovrebbero

scorrere. Fai finta di essere una fontana». Sebbene goffa e inelegante, ave-

va un elevato grado di sensibilità e una lunga lista di cose che voleva che

fingessimo di essere: alberi in fiore, farfalle, brezze gentili. Tutto tranne

che bambine dalle ginocchia sporche che si mettevano le dita nel naso: sul-

le questioni di igiene personale era meticolosa.

«Non masticare le matite colorate, cara» diceva a Laura. «Non sei un ro-

ditore. Guarda, hai la bocca tutta verde. Ti fa male ai denti».

Leggevo Evangeline di Henry Wadsworth Longfellow; leggevo i Sonetti

dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning. Come ti amo? Lasciami

contare i modi. «Bello» sospirava Miss Violence. Di Elizabeth Barrett

Browning era entusiasta, o entusiasta quanto glielo permetteva la sua natu-

ra; anche di E. Pauline Johnson, la principessa mohawk.

Oh, il fiume scorre più veloce adesso;

I mulinelli vorticano attorno alla mia prua.

Turbinate! Turbinate!

Come le increspature si arricciano

In tanti irruenti gorghi vorticosi!

«Travolgente, cara» diceva Miss Violence.

Oppure leggevo Alfred, lord Tennyson, un uomo la cui maestà era se-

conda solo a quella di Dio, secondo il giudizio di Miss Violence.

Del muschio più nero i vasi di fiori

Avevano spesse incrostazioni, tutti:

I chiodi arrugginiti cadevano dai nodi

Che fissavano il pero al muro sormontato dal timpano...

Ella disse soltanto: «La mia vita è triste,

Lui non viene» disse;

Disse: «Sono stanca, stanca,

Vorrei essere morta!»

«Perché lo voleva?» chiese Laura, che di solito non mostrava grande in-

teresse nelle mie recitazioni.

«Era amore, cara» disse Miss Violence. «Amore senza limiti. Ma non

era corrisposto».

«Perché?»

Miss Violence sospirò. «È una poesia, cara» disse. «Lord Tennyson l'ha

scritta e suppongo che sapesse quello che faceva. Una poesia non ragiona

sul perché. "Bellezza è verità, verità è bellezza - questo a voi, sopra la ter-

ra, di sapere è dato, questo e non altro a voi è dato sapere"».

Laura la guardò con disprezzo, e tornò a colorare. Girai pagina: avevo

già scorso l'intera poesia, e avevo scoperto che non vi succedeva nient'al-

tro.

Frangiti, frangiti, frangiti,



Sulle tue fredde pietre grige, oh Mare!

Quanto vorrei che la mia lingua potesse dare voce

Ai pensieri che nascono dentro di me.

«Un amore, cara» disse Miss Violence. Le piaceva l'amore senza limiti,

ma le piaceva ugualmente la malinconia disperata.

C'era un libro sottile rilegato in pelle color tabacco, che era appartenuto

alla nonna Adelia: il Rubåiyåt di Omar Khayyåm, di Edward Fitzgerald.

(In realtà non era stato scritto da Edward Fitzgerald, eppure si diceva che

fosse lui l'autore. Come spiegarlo? Non ci provai). A volte Miss Violence

leggeva dei brani da questo libro, per mostrarmi come andava declamata la

poesia:

Un libro di poesie sotto i rami dell'albero,



Una brocca di vino, un po' di pane - e Tu

Accanto a me che canto nel deserto -

Oh, il deserto sarebbe un vero Paradiso!

Pronunciava l'«Oh» con il fiato mozzo, come se qualcuno le avesse dato

un calcio nel petto; lo stesso il «Tu». Pensavo che fosse troppo chiasso da

fare su un picnic, e mi chiedevo cosa avessero spalmato sul pane. «Natu-

ralmente non si tratta di vino reale, cara» disse Miss Violence. «Allude alla

comunione».

Oh, volesse un Angelo alato prima che sia troppo tardi

Arrestare il Rotolo non ancora dispiegato del Fato,

E far sì che il severo Archivista

Registri in altro modo, o piuttosto annientarlo.

Ah, Amore! Potessimo Io e Te cospirare con Lui

Per afferrare tutto il triste Schema delle Cose,

Non dovremmo infrangerlo - per poi

Rimodellarlo più vicino al desiderio del cuore!

«Com'è vero» disse Miss Violence con un sospiro. Ma lei sospirava su

tutto. Si adattò molto bene ad Avilion - con i suoi antiquati splendori vitto-

riani, la sua aria di decadenza estetica, di grazia passata, di debole rimpian-

to. I suoi atteggiamenti e perfino i suoi cachemire scoloriti si intonavano

alla carta da parati.

Laura non leggeva molto. Invece copiava le figure, oppure colorava con

i pastelli le illustrazioni in bianco e nero degli spessi ed eruditi libri di

viaggio o di storia. (Miss Violence glielo permetteva, presumendo che nes-

sun altro se ne sarebbe accorto). Laura aveva idee strane ma molto precise

su quali colori ci volessero: faceva un albero blu o rosso, faceva il cielo ro-

sa o verde. Se c'era l'immagine di qualcuno che non le andava a genio, gli

faceva la faccia viola o grigio scura per cancellarne i lineamenti.

Le piaceva disegnare le piramidi, da un libro sull'Egitto; le piaceva colo-

rare gli idoli egizi. Anche le statue assire con i corpi di leoni alati e le teste

di aquila o uomo. Erano in un volume di Sir Henry Layard, che le aveva

scoperte tra le rovine di Ninive e le aveva spedite in Inghilterra; si diceva

che rappresentassero gli angeli descritti nel libro di Ezechiele. Miss Vio-

lence non considerava queste figure molto belle - le statue sembravano pa-

gane, e anche assetate di sangue - ma Laura non si faceva scoraggiare. Di

fronte alle critiche si limitava ad accoccolarsi ancora di più sulla pagina e a

colorare come se la sua stessa vita dipendesse da ciò.

«Schiena dritta, cara» diceva Miss Violence. «Fai finta che la tua spina

dorsale sia un albero che cresce verso il sole». Ma Laura non era interessa-

ta a questo tipo di finzioni.

«Non voglio essere un albero» diceva.

«Meglio un albero che una gobba, cara» sospirava Miss Violence, «e se

non fai attenzione alla tua posizione, è questo che diverrai».

Il più delle volte Miss Violence sedeva alla finestra intenta a leggere

romanzi sentimentali presi in prestito dalla biblioteca pubblica. Le piaceva

anche sfogliare gli album di pelle decorata della nonna Adelia, con i loro

raffinati inviti goffrati incollati con cura, i loro menù dati da stampare al

giornale e i successivi ritagli - i tè di beneficenza, le conferenze edificanti

illustrate da diapositive - gli arditi, amabili viaggiatori che avevano visitato

Parigi e la Grecia e perfino l'India, i seguaci di Swedenborg, i fabiani, i

vegetariani, tutti i vari promotori dell'automiglioramento, e una volta ogni

tanto qualcosa di veramente eccentrico - un missionario venuto dall'Africa,

o dal Sahara, o dalla Nuova Guinea, che descriveva come i nativi praticas-

sero la stregoneria o nascondessero le loro donne dietro elaborate masche-

re di legno o decorassero i crani dei loro antenati con pittura rossa e gusci

di conchiglie di ciprea. Tutte le testimonianze di carta ingiallita di quella

vita lussuosa, ambiziosa e spietata ormai scomparsa, che Miss Violence

esaminava centimetro per centimetro, quasi ricordandola, sorridendo per

un delicato piacere riflesso.

Aveva un pacchetto di stelle di carta luccicante, dorate e argentate, che

attaccava ai nostri lavori. A volte ci portava a raccogliere fiori di campo,

che schiacciavamo tra due fogli di carta assorbente infilati sotto un libro

pesante. A poco a poco ci affezionammo a lei, anche se non piangemmo

quando se ne andò. Lei però pianse - a dirotto, in maniera inelegante, come

faceva ogni cosa.

Compii tredici anni. Stavo crescendo, con manifestazioni di cui non a-

vevo colpa, anche se sembravano infastidire mio padre come se di una col-

pa si trattassero. Cominciò a interessarsi a come mi atteggiavo, a come

parlavo, al mio comportamento in generale. I miei vestiti dovevano essere

più semplici possibile: camicette bianche e gonne a pieghe scure, e scuri

abiti di velluto per andare in chiesa. Abiti che sembravano uniformi - che

sembravano vestiti alla marinara, ma non lo erano. Dovevo tenere le spalle

dritte, senza assumere posizioni sguaiate. Non dovevo stare seduta in ma-

niera scomposta, masticare gomme, muovermi con irrequietezza o chiac-

chierare. I valori su cui insisteva erano quelli dell'esercito: ordine, obbe-


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