3.4.2. L'Oratorio di don Bosco al Rifugio (via Cottolengo, n. 26)
Quando don Bosco fu presentato dal teologo Borel alla marchesa Barolo, questa si rese subito conto delle doti di cui il giovane prete era fornito. Per indurlo ad accettare l'incarico di direttore spirituale dell'Ospedaletto, non solo gli concesse di essere liberamente visitato da tutti i giovani che sarebbero venuti a lui per imparare il catechismo, ma acconsentì che radunasse il suo Oratorio festivo presso il nuovo edificio non ancora terminato dell'Ospedaletto di santa Filomena.
Nei giorni immediatamente precedenti al 20 ottobre 1844, don Bosco trasferì la sua abitazione al Rifugio. La camera a lui destinata si trovava sopra il vestibolo della prima porta d'entrata al Rifugio, accanto a quelle del teologo Borel e di don Sebastiano Pacchiotti (1806-1884), altro cappellano delle opere Barolo, che pure lo aiuterà nell'assistenza religiosa degli oratoriani.
“La camera che è destinata per Lei - gli aveva detto il teologo Borel - può per qualche tempo servire a raccogliere i giovanetti che intervenivano a S. Francesco d'Assisi. Quando poi potremo andare nell'edifizio preparato pei preti accanto all'Ospedaletto, allora studieremo località migliore” (MO 128-129). Così la domenica 20 ottobre, avvenne il trasferimento dell'Oratorio al Rifugio. Don Bosco lo descrive nelle sue Memorie, raccontandoci anche i disagi delle domeniche successive:
“Un po' dopo il mezzodì ecco una turba di giovanetti di varia età e diversa condizione correre giù in Valdocco in cerca dell'Oratorio novello.
Dov'è l'Oratorio? dov'è D. Bosco? si andava da ogni parte chiedendo. Niuno sapeva dirne parola, perché niuno in quel vicinato aveva udito a parlare né di D. Bosco né dell'Oratorio. I postulanti, credendosi burlati, alzavano la voce e le pretese. Gli altri, credendosi insultati, opponevano minacce e percosse. Le cose cominciavano a prendere severo aspetto quando io e il T. Borrelli, udendo gli schiamazzi, uscimmo di casa. Al nostro comparire cessò ogni rumore, ogni alterco. Corsero in folla intorno a noi, dimandando dove fosse l'Oratorio.
Fu detto che il vero Oratorio non era ancora ultimato, che per intanto venissero in mia camera, che, essendo spaziosa, avrebbeci servito assai bene. Di fatto per quella domenica le cose andarono abbastanza bene. Ma la domenica successiva, agli antichi allievi aggiungendosene parecchi del vicinato, non sapeva più ove collocarli. Camera, corridoio, scala, tutto era ingombro di fanciulli. Al giorno dei Santi col T. Borrelli essendomi messo a confessare, tutti volevano confessarsi, ma che fare? Eravamo due confessori, erano oltre dugento fanciulli. Uno voleva accendere il fuoco, l'altro si adoperava di spegnerlo. Costui portava legna, qell'altro acqua, secchia, molle, palette, brocca, catinella, sedie, scarpe, libri ed ogni altro oggetto era messo sossopra, mentre volevano ordinare ed aggiustare le cose. Non è più possibile andare avanti, disse il caro Teologo, uopo è provvedere qualche locale più opportuno. Tuttavia si passarono sei giorni festivi in quello stretto locale, che era la camera superiore al vestibolo della prima porta di entrata al Rifugio” (MO 131-132).
In questa situazione, infatti, rimasero per tutte le domeniche di novembre: al mattino i ragazzi partecipavano alla Messa in san Francesco d'Assisi e al pomeriggio si radunavano nella stanza di don Bosco per il catechismo, le confessioni e le altre iniziative possibili.
Era però necessario un maggior spazio se si voleva continuare l'attività. L'arcivescovo Fransoni, interpellato in proposito, domandò innanzitutto se quei ragazzi non potevano recarsi nelle loro parrocchie. “Sono giovanetti per lo più stranieri - risposero don Bosco e il Borel - i quali passano a Torino soltanto una parte dell'anno. Non sanno nemmeno a quale parocchia appartengano. Di essi molti sono mal messi, parlano dialetti poco intelliggibili, quindi intendono poco e poco sono dagli altri intesi. Alcuni poi sono già grandicelli e non osano associarsi in classe coi piccoli”. Il prelato decise allora che era “necessario un luogo a parte, adatto per loro” (MO 132), approvò, incoraggiò a continuare e benedisse l'iniziativa, dicendosi disponibile ad appoggiarla. Sappiamo che questa promessa fu mantenuta.
La marchesa Barolo, compresa l'urgenza, permise che due spaziose stanze dell'Ospedaletto, che si stava costruendo presso il Rifugio, fossero trasformate temporaneamente in cappella.
3.4.3. L'Oratorio di don Bosco all'Ospedaletto di santa Filomena (via Cottolengo, n. 24)
Gli ambienti concessi dalla marchesa si trovavano nella parte già ultimata dell'Ospedaletto di santa Filomena, al terzo piano, dove ella aveva intenzione di radunare in comunità i sacerdoti che assistevano spiritualmente le sue varie opere. L'edificio si trova a metà del vicolo che dal portone di via Cottolengo n. 22 porta al monastero delle Maddalene. Una porticina, oggi murata, ma ancora visibile, serviva da accesso indipendente alla scala che conduce al terzo piano.
“Là era il sito scelto dalla Divina Provvidenza per la prima chiesa dell'Oratorio. Esso cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales per due ragioni: 1a perché la marchesa Barolo aveva in animo di fondare una Congregazione di preti sotto a questo titolo, e con questa intenzione aveva fatto eseguire il dipinto di questo Santo che tuttora si rimira all'entrata del medesimo locale; 2a perché la parte di quel nostro ministero esigendo grande calma e mansuetudine, ci eravamo messi sotto alla protezione di questo Santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo imitare nella sua straordinaria mansuetudine e nel guadagno delle anime. Altra ragione era quella di metterci sotto alla protezione di questo santo, affinché ci aiutasse dal cielo ad imitarlo nel combattere gli errori contro alla religione, specialmente il protestantesimo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella città di Torino” (MO 132-133).
La cappellina venne benedetta il giorno dell'Immacolata, 8 dicembre 1844. Era un giorno freddissimo, nevicava abbondantemente e, ricorda don Bosco, “parecchi giovanetti fecero la loro confessione e comunione, ed io compii quella sacra funzione con un tributo di lagrime di consolazione, perché vedeva in modo, che parevami stabile, l'Opera dell'Oratorio collo scopo di trattenere la gioventù più abbandonata e pericolante dopo aver adempiuti i doveri religiosi in chiesa” (MO 133).
Presso l'Ospedaletto, che intanto stava per essere terminato, l'oratorio domenicale, tra inverno e primavera, prese un ottimo avvio. Lo schema seguito era quello già sperimentato al Convitto, con qualche miglioria: Confessioni e Comunione di primo mattino; seguiva la Messa con breve spiegazione del Vangelo adatta alla capacità di comprensione e al linguaggio dei ragazzi; nel pomeriggio, catechismo, canto di lodi sacre, breve istruzione, litanie della Madonna e benedizione. Nel resto del tempo i giovani venivano impegnati in giochi diversi nel piccolo viale sottostante. In queste attività don Bosco e il Borel lavoravano insieme, aiutati anche da don Pacchiotti.
Si continuò così per sette mesi. Verso la fine del maggio 1845 la marchesa Barolo, “sebbene vedesse di buon occhio ogni opera di carità”, cominciò a far pressioni perché si cercasse un'altra sistemazione, dovendosi presto aprire il suo Ospedaletto (cf MO 135). L'inaugurazione avvenne il 10 agosto e probabilmente in quel periodo i cappellani della Barolo si trasferirono nelle stanze per loro preparate al terzo piano, presso quella che era stata la cappellina provvisoria dell'Oratorio.
Oggi l'Ospedaletto funziona come ambulatorio medico e come casa di riposo per signore anziane. Nella cappella interna, al primo piano, sono conservati con venerazione il calice usato da don Bosco per la celebrazione quotidiana della Messa e l'inginocchiatoio sul quale faceva la preparazione e il ringraziamento.
Gli ambienti del terzo piano in cui fu collocata la primitiva cappella di san Francesco di Sales e dove abitò don Bosco, oggi sono trasformati in camerette per le suore dell'Ospedaletto.
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