3.2.3. La collina in regione "Sussambrino"
Lungo la strada provinciale, alla destra di chi va dai Becchi a Castelnuovo, proprio di fronte al bivio per Buttigliera, sul pendio di una collina coltivata a vigneti si vede biancheggiare la casa del Sussambrino.
La cascina
Nel 1830 Giuseppe Bosco, appena diciottenne, prende in affitto questo podere in collaborazione con Giuseppe Febbraro e si trasferisce nella cascina, portando con sé mamma Margherita e il fratello Giovanni. Torna così la serenità familiare ed un briciolo di sicurezza economica in più, anche se il lavoro si raddoppia. La madre e il figlio minore, infatti, alternano la loro residenza tra questa abitazione e i Becchi, secondo le necessità dei lavori agricoli.
Giovanni, che dopo la morte di don Calosso si è iscritto alle scuole comunali di Castelnuovo e le frequenta a partire dalla metà di dicembre 1830, si vede facilitato per la riduzione delle distanze. La strada da percorrere a piedi quattro volte al giorno rimane tuttavia faticosa, soprattutto nel periodo invernale per le nevi e il gelo intenso. Margherita, per aiutarlo, gli trova alloggio in Castelnuovo.
In questo luogo i Bosco rimangono nove anni. Nel frattempo Giuseppe sposa Maria Calosso (9 maggio1833). Dal matrimonio nascono Margherita (1834, vive solo due mesi e mezzo), Filomena (1835-1926) e Rosa Domenica (1838-1878). Altri sette figli nasceranno nella nuova casa dei Becchi, tra 1841 e 1856.
Giovanni, che dal 1831 si è traferito a Chieri per frequentarvi la scuola pubblica prima e il seminario poi, ritorna durante le vacanze estivo-autunnali al Sussambrino. Fattosi ormai robusto giovanotto, presta un valido aiuto nel podere, sfruttando però ogni momento libero per i suoi studi. Il busto in bronzo collocato sul muro del rustico ricorda questi anni laboriosi e felici.
Don Bosco ci descrive come trascorreva il periodo delle vacanze durante gli studi seminaristici:
“Un grande pericolo pei chierici sogliono essere le vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo. Io impiegava il tempo a leggere, a scrivere; ma, non sapendo ancora a trar partito dalle mie giornate, ne perdeva molte senza frutto. Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti, bocce o pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava, cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Ancora presentemente avvi nella casa mia di Murialdo uno scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie che ricordano i capi d'opera di quelle mie vacanze. Mi occupava pure a segare l'erba nei parti, a mietere il frumento nel campo; a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a spillare il vino e simili. Mi occupava de' miei soliti giovanetti, ma ciò poteva solamente fare ne' giorni festivi. Trovai però un gran conforto a fare catechismo a molti miei compagni, che trovavansi ai sedici ed anche ai diciassette anni digiuni affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel leggere e nello scrivere con assai buon successo, poiché il desiderio, anzi la smania d'imparare mi traeva giovanetti di tutte le età. La scuola era gratuita, ma metteva per condizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni, per non sottoporsi a queste condizioni, cessarono. La qual cosa tornò di buon esempio e di incoraggiamento agli altri.
Ho pure cominciato a fare prediche e discorsi col permesso e coll'assistenza del mio prevosto” (MO 96).
Della permanenza di don Bosco al Sussambrino vogliamo ancora ricordare il dialogo tra mamma Margherita e il figlio la vigilia dell'ingresso di questi in seminario:
“La sera antecente alla partenza Ella mi chiamò a sé e mi fece questo memorando discorso: Gioanni mio, tu hai vestito l'abito sacerdotale, io ne provo tutta la consolazione, che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l'abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare questo abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato ne' suoi doveri. Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e se diventerai sacerdote raccomanda e propaga mai sempre la divozione di Maria.
Nel terminare queste parole mia madre era commossa, io piangeva. Madre, le risposi, vi ringrazio di tutto quello che avete detto e fatto per me; queste vostre parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita” (MO 90).
I vigneti e la fontana della Renenta
Sul pendio esposto al sole esistevano - e in parte restano ancora - rigogliosi vigneti. C'era anche la vigna dell'amico Giuseppe Turco, al quale Giovanni, mentre custodivano le uve al tempo della vendemmia, rivelò lo scopo del suo impegno nello studio: diventare sacerdote a favore dei giovani poveri e abbandonati. A lui raccontò anche un sogno fatto al Sussambrino. Gli era parso di vedere la valle sottostante tramutata in una grande città con turbe di ragazzi schiamazzanti nelle strade e nelle piazze. Come nel sogno dei nove anni, un Personaggio maestoso e una Signora gli avevano indicato il modo di trasformare quei ragazzacci in buoni cristiani (cf MB 1, 424-425).
Ai piedi della collina, proprio sulla strada, esiste ancora un arco in mattoni che copre un'antica vasca in cui si raccoglie l'acqua di una polla sorgiva. È la fontana detta della Renenta, dal nome del pendio che dal Sussambrino va verso i Becchi. Il piano stradale attuale è sopraelevato rispetto all'antico e passa ad una certa distanza. Durante il periodo di siccità rimaneva l'unico punto di rifornimento idrico per i contadini della zona. Possiamo pensare che anche Giovannino Bosco si sia dissetato più di una volta a questa fonte, e vi abbia portato il bestiame.
La vigna di Giuseppe Turco, tanto cara a don Bosco, era vicinissima alla fontana ed egli in seguito dirà: “I miei studi li ho fatti nella vigna di Giuseppe Turco alla Renenta” (MB 1, 424).
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