Modello Amàrantos



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JIM

Alkol



Dedicato a chi si spacca per un fottuto salario
e non esce dal fango perché ha il cuore troppo grande
dedicato a chi ha ucciso i pregiudizi a proprie spese
e galleggia tra sogni azzurri e realtà bastarde
a chi ride dondolando tra una città e l'altra
a chi muore suicida ogni notte e rinasce solo di rado

33 Centimetri

Arrivai a casa con gli occhi bruciati, la schiena curva e sudata e i polmoni di catrame. Accesi radio 3. Mi distesi sul divano. Un altro giorno si era consumato nel grigiore, insieme ad una piccola parte di me. Nella tv i colori rimbalzavano senza alcuna armonia. Piccoli rospi zoppi che esplodevano sotto un litro di sangue giallo. Nella mia testa il vuoto cercava di pressare i pensieri in angolo buio, ma non era semplice. Assurde paranoie fuoriuscivano da ogni anfratto. Così liquide e viscide da non poter essere imprigionate con le sole parole. Mi lacrimava il fegato.

Sonnecchiai per qualche minuto, forse per qualche ora, poi me ne andai al bar per un caffè. Ero distrutto. Più del solito. Mentre camminavo lungo il viale di asfalto cosparso di neve fredda il buio mi strinse in una morsa orribile fino a farmi sputare tristezza. L'inverno non finisce mai.

Il bar era vuoto. I lampadari cadevano a terra e si intrecciavano con le enormi piastrelle quadrate. La fiamma del caminetto saliva a crocifisso verso i tubi neri, imprigionata da un vetro sporco.

Chiamai il barista. Era cupo e vestito di stracci pesanti e arrugginiti

- Fammi Un caffè. Corretto grappa. Anzi fammi solo una grappa.

L'alcol come al solito mi scavalcò con la sua fottuta arroganza. Finii per bermi una riga di grappe, senza troppi complimenti. Non stavo per niente bene.

Non vidi nessuno quella sera, neppure i soliti vecchi stronzi pieni di storie stronze. Nessuno. La grappa scendeva sul mio esofago cantando uno stonato bruciore di piacere. Mortale.

Pagai il conto e me ne andai, con il teschio gonfio e gli occhi grassi e lucidi. Non mi restava altro che tornare a casa. A bere.
Lungo il viale incrociai solo una macchina, con a bordo una figa. Era Pam. Da qualche tempo quella tipa abitava in una vecchia casa gialla non troppo distante da me, insieme alla sua amica Grace. Non che fossero lesbiche o giù di lì, erano solo due tipe che si dividevano l’affitto. Pam aveva tutte le carte in regola. Volto angelico, vita stretta, fianchi posati e tette immani. Pura bellezza. Bellezza e arroganza. Lei non era altro che la sua stessa fottuta bellezza. Grace era meno appariscente di Pam ma mi ispirava il cuore. Era meno perfetta. Ma era proprio l'armonia della la sua imperfezione a renderla speciale. Il suo sguardo era dolce e magnetico. Ispirava fiducia e calore. Peccato che mi odiasse.

Rientrai in casa pensando a Grace e fui costretto a bere un intera cassa di birra. Ero una merda. Ma mi piacevo.

Con immane sforzo mi trascinai sul letto. Impostai la sveglia a mezzogiorno. Avevo deciso di disertare il lavoro. Se fossi andato a lavorare il giorno dopo non avrei fatto altro che meditare il suicidio. Non ne sarebbe valsa la pena.
Alle due lavai i piatti e me ne andai al bar. Mi sentivo ancora più coglione del giorno precedente. Il sonno non mi aveva di sicuro aiutato. Ogni tanto mi fuoriuscivano dal cranio fastidiosi flash degli incubi che mi avevano assalito durante la notte. Sangue e budella. Larve che si riproducevano nelle mie vene dilatate. Pezzi del mio corpo sparsi ovunque. Morti risorti che mi succhiavano il membro corroso dall’acido solforico. Infinite urla strazianti di dolori oltre la concezione sensibile.

Non c’era nessuno. Poi comparve Pam, la figa stronza. Quella che se la tirava a tal punto da far affogare la sua bellezza estetica in un mare di antipatia viscosa. Vestita con una mogliettina attillata e delle braghe talmente sottili da far intravedere il taglio della patata. Fuori c’erano 10 gradi, sotto lo zero.

Non mi salutò neppure e si sedette nell’angolo opposto del locale. Eravamo gli unici due clienti, a quell’ora di un lunedì. Ordinai una Sambuca doppia e restai a fissare la roia mentre sfogliava un giornale di annunci. Bella vulva, niente da dire. Una stronza. Di merda. Una devasta cappelle...

Grace era una donna. Grace era fantastica. Peccato che mi odiasse. Idilliaca sinfonia di capelli intrecciati d’oro e labbra di ciliegia. Soave e leggera danzava nuda nei miei pensieri. Peccato che si facesse sfondare il buco del culo da un imbecille foderato di sesterzi.

Ordinai la terza Sambuca. Doppia. Pam era ancora là che succhiava da mezz’ora uno stracazzo di the ai frutti di mare o vattelapesca. Mi lanciò un’occhiata tagliente.

Era un pomeriggio di merda. Per me e per lei. La vacca ha voglia.

Lo sentivo nell’aria che la sua figa slabbrata stava trasudando piacere.

Mi alzai in piedi e le andai incontro con la faccia da duro. Ubriaco.

- Posso sedermi qua?

- Perché no… - rispose la troia con voce da troia

Ormai ne ero quasi certo. Voleva scopare. Non voleva scopare me, come persona. Voleva me in quanto membro. Anche perché non aveva scelta. Il barista aveva ottanta anni. Praticamente c’ero solo io. Anzi, forse avrebbe potuto snobbarmi per affidarsi alle sue dita veloci. No, in quel giorno non le sarebbero bastate. Forse stava aspettando qualcuno. Per scopare. Di lunedì pomeriggio? No.

Voleva il mio fallo. Ed io volevo veramente la sua figa slabbrata?

Cazzo se la volevo. O no. Forse no.

Non so più che cazzo voglio. Voglio scopare. Però cazzo non voglio scopare Pam. È la migliore amica di Grace. Se scopo con Pam la mia probabilità di fottere con Grace diminuirà ulteriormente. Ed è già molto bassa. Lei dirà tipo “quel coglione che mi sta dietro si fotte la mia migliore amica. Oltre ad essere un ubriacone è anche un puttaniere del cazzo”. Però lei non si farebbe sicuramente alcun problema se si trovasse in una situazione analoga. Non ci penserebbe due volte se fornicare o no con un mio socio. Probabilmente lo ha anche già fatto. Però se mi faccio amica Pam, donandole un po’ di uccello, magari riesco ad avvicinarmi a Grace…

Mentre ‘sto fottio di pensieri mi brulicava nel mappamondo la lupa attaccò discorso

- Ma tu non lavori?

- Sì, lavoro, ma non oggi. E te cosa fai di bello?

E qui iniziò un discorso inzuppato di stronzate, con qualche rapido flash di cultura spicciola.

- Ma allora sei un appassionato di cinema?

- Diciamo che mi piacce guardare i bei film, ascoltare musica, bere… mi piacciono tutte quelle attività che non richiedono un particolare sforzo. Tutta roba per cui non è necessario chissà quale peculiarità psico fisica. E te?

- A me piace leggere. Leggere e scopare. Ah, ah.

Santiddio.

- Te leggi?

- Solo se non ho più film da guardare

- E cosa leggi?

- Tutto ciò che non sia noioso. Odio i mattoni da 1000 pagine. È come guardare un film muto di 8 ore. Per quanto bello sia ti si squadrano le palle. Poi da coglione continuo a comprare volumi grossi come un menhir i e li lascio sempre a metà. E li compro magari solo perché mi sta simpatico il tizio che li scrive.

- Ma non sei curioso di sapere come vanno a finire?

- No.


- Sei strano. Io invece se leggo una storia che mi piace devo leggerla fino in fondo, altrimenti non la inizio neanche. Certe storie mi prendono troppo, come i romanzi di Ken Follet. Quelli sono fantastici…

- A me sta sul cazzo.

- Ken Follet?

- Sì, mi sta proprio sul cazzo.

- Ma che libri hai letto di Ken Follet?

- Nessuno.

- E come fai a dire che ti sta sul cazzo se non hai mai letto niente di suo?

- Mi sta sul cazzo e basta. Io non leggo il libro di uno che mi sta sul cazzo. È il solito discorso della merda. Puoi dirmi che è buona finché vuoi, ma io non la mangio. Cazzo.

- Mi piace come ragioni…

E tu invece mi stai ancora più sul cazzo di prima. Se mi fossi limitato a salutarti, come ho sempre fatto, sarebbe stato molto meglio. Però che tette. Santiddio. Ho l’uccello che canta.


In preda ad un incontrollabile erezione ordinai un’altra Sambuca ed un altro merdoso the ai crisantemi blu.

- Allora, Pam, hai deciso? Andiamo da me a guardare ‘sto film del Berlanga?

- Sinceramente non mi ispira molto questo Berlanga, da come me lo hai descritto… se vuoi andiamo da me. Ho parecchi bei film anch’io

- Hai anche qualcosa da bere?

- Ho anche Sambuca, se vuoi.

- Non chiedo altro. Mi faccio segnare tutto sul conto poi andiamo…

Ottimo. Fanculo anche al Berlanga. Mi sorbirò una mezz’ora di un film di merda, perché sicuramente ‘sta troia avrà solo film di merda, ma poi… ma poi…

Una parte di me, quella romantica, sperava di trovare a casa di Pam anche la splendida Grace. Così, tanto per provare ad attaccar bottone per l’ennesima volta. La mia parte fallica invece puntava tutto sul fatto di trovare la casa più vuota del mio cervello per poter penetrare in pace quella stupida macchina da monta. Meditai un attimo su queste mie congetture e mi accorsi che le mie due personalità si completavano magnificamente. In entrambi i casi avrei avuto qualcosa da guadagnare. Ancora una volta l’evolversi degli eventi mi aveva tagliato fuori. Solo il fato avrebbe potuto decidere il mio destino. A me sarebbe andato bene tutto. Per la mia mente bacata fottere una troia o incontrare la donna dei miei sogni, magari solo per essere insultato, viaggiavano praticamente sulla stessa lunghezza d’onda.


Pam parcheggiò la sua auto di merda sul prato davanti al casolare. Una station wagon nera nuova di palla, con i sedili in pelle riscaldati. Niente a che vedere con la mia mitica Prinz verde del 68, con i sedili in tela bucati. Là intorno sembrava tutto deserto. Non c’era anima viva nel raggio di duecento metri. La roia dalle tette strabordanti dimenò il suo culo fino davanti al portone di ingresso, per poi aprirlo con ottocento giri di chiave. Io non feci neanche tempo a richiuderlo alle mie spalle che la vacca mi cacciò la lingua in bocca ed iniziò a darsi un gran da fare nel tastarmi gli arnesi del mestiere.

Evidentemente Grace non è in casa - pensai - Va beh, ci darò dentro di spatola. Al limite a lavoro finito mi dileguerò nel nulla e dirò alla sgualfara di tenere la bocca chiusa su tutta questa storia. Alla fine voglio Grace, non questa roia. Pero, come dice il mio amico Bey, l’uccello non ha occhi. E poi, una figa così, quando mai mi ricapiterà di scoparmela? Senza pagare, s’intende. Pagando ne ho sbattute anche di meglio. Però, ha il culo duro come una negra…

Eravamo ancora in fase di slinguazzamento nell’atrio di quella lugubre casa, quando defecai questa riga di paranoie. Tutti vestiti. Eccetto il mio arnese. Non avevo esitato ad estrarlo e Pam di conseguenza no aveva esitato a stringerselo in mano per valutarne l’effettiva qualità e consistenza. Se ero in perfetta forma eretta estraevo sempre subito il cappellano, anche in occasioni molto meno scontate. Era una tecnica infallibile. Ad una donna potevo anche non piacere per mille motivi estetici, ma il sacrestano no, lui era sempre gradito. Quando la tipa non ci stava a quel punto non avevo più niente da perdere. Zac. Estraevo il sacrestano. Al massimo scappava. La maggior parte delle volte però lo stringeva tra le mani con la passera inzuppata di voglia. Peccato però che quando ero veramente sbronzo non mi tirava. Così il cappellano diventava un chierichetto e finiva la sua serata appoggiato sopra il bancone di un bar, con le sembianze di una lumaca morta.

Pam mi prese letteralmente per i coglioni e mi trascinò giù in uno scantinato.

Cazzo, questa è proprio una super stra porca - pensai mentre discendevo una scaletta di ferro, tirato per il guinzaglio.
Quello fu solo l’inizio. Pam si sfilò i quattro stracci che tentavano di coprire le sue forme e poi mi spogliò con tale violenza da strapparmi un paio di bottoni della camicia. Stronza.

Eravamo nudi, uno di fronte all’altra senza dire niente. In uno scantinato buio e gelido. Le balzai sopra come una fiera feroce in calore, ma sorprendentemente mi respinse.

- No, no, prima devi metterti queste…

Rimasi scioccato. Un paio di manette da sbirro. Questa è fuori.

Io probabilmente ero ancora più fuori di lei, sicuramente più sbronzo, infatti mi lasciai ammanettare caviglie e polsi e mi feci appendere ad un gancio come un salame. Quando accese la luce mi resi conto finalmente di dove fossi finito. Quella cantina era stata allestita come una stanza da sadomaso, con tutte le varie porcate che si vedono solo nei sexy shop più forniti. Anche il gancio da salami dov’ero appeso non era di sicuro un’improvvisazione. Anzi. Provai per un attimo a liberarmi, ma sembrava più solido del mio membro.

La sensazione di essere chiuso in una gabbia non mi andava per nulla a genio. E ancora meno a genio mi andava il fatto di essere trattato come un insaccato. Però era un’esperienza che andava fatta. Pam si procurò un paio di falli sintetici, si distese a terra con le gambe sforbiciate e iniziò ad infilarseli davanti ai miei occhi. Cazzo se avevo ragione. Era proprio slabbrata. Però senza l’ombra di un pelo. Ho sempre odiato i peli pubici perché mi si incastravano dappertutto, anche tra i denti. Infatti dopo un sano cunnilingus a qualche potta incolta mi capitava di sputare fili crespi anche a distanza di ore, magari mentre stavo sorseggiando una buona Sambuca e tutto ciò mi faceva schifo.

- Dai, Pam, vieni qua a succhiare le lunghe pene del vecchio Jim…

Pam non disse niente. Era da un pezzo che non diceva più niente e sinceramente iniziava a preoccuparmi. Sembrava che non stesse neppure godendo eppure si stava smandrillando con due colossi di lattice, uno sarà stato lungo almeno 30 centimetri.

Si alzò in piedi, con il pisello finto più piccolo ancora infilato nel culo e mi venne incontro con tutte quelle meravigliose tette che si ritrovava. Il sacrestano mi stava scoppiando. Non potevo neanche toccarmelo. Stavo impazzendo. Forse finalmente inizierà a succhiarmelo, sperai vanamente.

- Satiddio! ma che cazzo…

Pam prese uno strano laccio con una specie di palla in mezzo e mi imbavagliò con violenza. Lo strinse così forte da farmi quasi male.

Adesso sta esagerando questa puttana…

Poi tornò dove se ne stava prima, sempre con il minore infilato nel retto ed il maggiore nella figa. Ed iniziò a strapazzarli da far impressione. Miagolò perfino i primi gemiti di piacere. Io me ne stavo là a guardare, impotente, ma con il cazzo duro come una putrella da carpenteria. La scena durò parecchio tempo, troppo di sicuro.
Provai a liberarmi da quelle fottute manette, ma così facendo non feci altro che farmi un male della madonna su tutte le giunture. Fanculo. La situazione stava precipitando in un abisso infinito. L’uccello smise perfino di tirarmi e l’alcol mi abbandonò quasi del tutto. Odiavo tornare troppo sobrio, soprattutto quando mi trovavo incatenato nello scantinato di una qualche pazza ninfomane con un vibratore da 30 centimetri nella vulva. E uno da venti nel culo.

Sorprendentemente la roia si sfilò tutti quegli arnesi dai suoi buchi dilatati e sempre senza dire niente raccattò una specie di frustino. Poi con una forza disumana iniziò a colpirmi

- Nn vf nn mm cz!

Con quell’arnese in bocca non riuscii neppure a bestemmiare il mio dolore. Mi sgangherò lo stomaco e le cosce, probabilmente nel tentativo di sfregiarmi l’uccello. Fortunatamente non aveva una buona mira questa stronza.

- Fg rtm cs pr m!

Non riuscivo neanche ad urlare. Un male boia. Mi contorcevo come un verme per proteggere i miei nobili attributi, ma nel frattempo incassavo colpi ovunque. Un dolore straziante. Il sangue iniziava a scorrere a fiumi. Un lampo di genio improvviso mi consigliò di fingermi svenuto. Forse così la puttana si sarebbe sentita in dovere di fermarsi...

Da finto morto incassai ancora un paio di frustate, ovviamente le più dolorose. Una mi tagliò un sopracciglio e l’altra mi ferì al collo. La mia tecnica però fu efficace, infatti quelli furono gli ultimi due colpi di frusta che incassai.

Cazzo sono ancora vivo. Non credevo che nel mio corpo ci fosse tutto quel sangue. Non sento più neanche tanto dolore. E se fossi morto. Non posso accertarmene. Se mi muovo sono fottuto.

Mentre filosofeggiavo sul mio potenziale decesso quella merdosa puttana iniziò la leccare le mie ferite come un cane. Tornai a sentire dolori talmente acuti da farmi lacrimare l’unica palpebra che riuscivo a muovere.

Cazzo sono vivo. Non lo sarò per molto però se non trovo al più presto una soluzione. Forse mi conviene fare il morto fino a quando questa slabbrata non si deciderà a liberarmi. E se mi lasciasse qua a marcire? E adesso che cazzo vuole fare?

Ad un certo punto non sentii più le sue leccate. Non che mi mancassero, ma se la zoccola non leccava voleva dire che le mie probabilità di essere massacrato stavano aumentando. Attraverso la fessura del mio occhio sano intravidi la sagoma sinuosa della mia presumibile assassina che arraffava il suo macchinario da 30 centimetri di potenza penetrante.

Bene, non prende ne il frustino, ne qualsiasi altra stronzata pericolosa. Speriamo che se lo infili talmente dentro da maciullarsi le budella. No, cazzo! Dove minchia sta andando la troia? Se ne va? No, fanculo, viene verso di me... mi sta aggirando...

Quando sentii la capocchia bagnata di quell’arnese varcare la soglia delle mie chiappe la mia collera superò di gran lunga l’umana concezione. La mia mandibola sbriciolò il bavaglio le mie braccia sanguinanti creparono il gancio sul soffitto. Per un istante fui Hulk, Kenshiro e Rambo tutti insieme.

La mia potenza incontrollabile colpì la vacca sulla testa. Un colpo secco, due mani ammanettate, quattro calcinacci di intonaco ed un gancio di ruggine si schiantarono contro la tempia destra della troia, che precipitò a terra lasciando rimbalzare a terra il fallo di plastica.

Santiddio. L’ho ammazzata. Giaceva a terra, nuda e inerte. Con un gancio di ferro vecchio piantato nel teschio. Non respirava. Il suo cuore non batteva. Non ero un dottore, ma quegli indizi mi fecero fortemente sospettare che la vacca fosse morta. Tre centimetri di ferro erano bastati per ucciderne trenta di gomma.

Ero salvo. Sanguinante come una bistecca di roast beef, ma ero ancora vivo. Il mio culo era salvo. La troia era crepata. Cos’era una puttana in confronto al mio culo vergine? Niente. Ero felice come il giorno della mia prima comunione.


Raccattai in giro quattro stracci, dell’alcol denaturato e dello scotch da pacchi. Con tutta quella roba mi tappezzai provvisoriamente le ferite più vistose, soffocando anche un paio di urli. Alcol e scotch. Al solo pensiero mi venne voglia di bere. Purtroppo però prima di poter concedermi una sana sbronza dovevo sbarazzarmi di un cadavere e ramazzare la stanza. Il tutto prima che arrivasse qualcuno, tipo Grace per esempio. Magari era già rientrata e se ne stava di sopra a guardarsi la TV. O magari era sempre stata là. Non potevo saperlo. Infondo eccetto le schioccate del frustino l’unico rumore pesante fu il mio colpo mortale. Dovevo assolutamente risolvere la questione al più presto ed in silenzio.

Mi rivestii rapidamente, poi sistemai provvisoriamente il corpo sopra un tavolo, ovviamente dopo aver tastato un po’ quei magnifici seni. Poi le cavai quel gancio dal teschio e me lo infilai in tasca. Ne fuoriuscì un piccolo rigagnolo di sangue che dovetti otturare con il nastro isolante. Infine mi misi a lucidare il pavimento inzuppato del mio stesso sugo con la stessa roba che avevo utilizzato per medicarmi. Cazzo. Solo il mio sugo. La troia invece era morta spinando dalla testa solo un misero goccio di sangue perverso. Non che avessi voglia di pulire anche la sua merda, ma se fosse crepata in un modo più atroce e succoso non mi sarebbe dispiaciuto. Infondo se lo sarebbe meritato. Puttana malvagia.

In pochi minuti la stanza fu come nuova, io invece iniziavo ad accusare dolori sempre più taglienti ed iniziai a sentirmi sempre più vecchio. Dovevo andarmene al più presto o probabilmente non ce l’avrei più fatta. La forze stavano iniziavano ad abbandonarmi.

Eccomi. In un fottuto scantinato. Gobbo dal dolore. Con i vestiti che trasudavano porpora. Con le tasche piene di stracci inzuppati di sugo da asporto e circa cinquanta chili di carne da eliminare.

Mi inginocchiai un attimo per riflettere. L’unica mia via di fuga era una finestrella a filo del soffitto che dava su una bocca di lupo. Uscire da dov’ero entrato mi odorava di cazzata. Una cazzata. Ogni cosa che avrei provato a fare da quel momento in poi avrebbe potuto essere una potenziale cazzata.

Che cazzo faccio? E se chiamassi i cartabinieri? Avevo le mie attenuanti. Mi sarei beccato solo qualche anno. O forse no. Però se mi avessero beccato durante un folle tentativo di eliminazione del corpo sarebbe stato peggio. Mi avrebbero dato l’ergastolo.


Panico.

La mia sudorazione iniziò ad aumentare notevolmente, facendomi bruciare le ferite più che mai. Il mio sprazzo di ira euforica se n’era andato. Ero nella merda. Il mio cuore iniziò ad accelerare e mi venne perfino il fiatone. Non riuscivo più a ragionare ed iniziai ad andare avanti e indietro per la stanza, bestemmiando sottovoce.

Sono fottuto, sono fottuto. O mi sbrigo a trovare una soluzione o sono morto.
- Jim, mi dispiace

- Brutta troia, sei viva!

Dalla felicità mi svanirono perfino tutti i dolori. La vacca aveva aperto gli occhi e se ne stava là distesa, nuda, a piagnucolare.

- Al posto di piangere è meglio che ti rivesti e te ne vai in ospedale. Hai un buco sul cranio.

Non sapevo che cazzo dire. Dallo shock tremavo come una foglia di ganja. Pam mi ascoltò bimburlandosi di lacrime da coccodrillo, poi si tastò la testa e fece per togliersi la pezza.

- È meglio che non tocchi niente, ti ho appena tolto una verga di ferro dalla testa. Dal buco si vedeva il tuo cervello bacato.

La sgualfara si levò persino in piedi per guardarsi allo specchio. Evidentemente era troppo puttana per poter morire a causa di una semplice lesione celebrale.

- Fanculo, roia del cazzo. Io me ne vado. A mai più.


Mi lasciai alle spalle quella ninfomane piagnucolante e risalii la scala di ferro più velocemente possibile, ovviamente nei limiti delle mie capacità psicofisiche. Mentre mi incamminavo verso casa mi balenò in mente perfino di tornarmene indietro e conciarla per le feste, ma ci ripensai dopo aver valutato la gravità di quel buco che aveva sul mappamondo. Forse era una cosa seria. Magari l’avrebbe uccisa lentamente. Meglio così. Sperai solo che restasse in vita almeno il tempo che mi sarebbe bastato per seppellire tra le mie stronzate celebrali tutta questa storia ed esserne virtualmente fuori.

Dopo dieci minuti di triste pellegrinaggio sotto un cielo polare, arrivai a casa. Erano le otto di sera. Mi spogliai e rimpinzai per bene la lavatrice. In quattro e quattr’otto mi medicai decentemente con disinfettante indolore, cerotti, garze e cicatrene in abbondanza. Un paio di ferite sarebbero state da suturare, ma non avevo nessuna intenzione di andare all’ospedale, per un milione di motivi più che validi. Alla fine mi decisi e recuperai un ago e del filo da pesca per improvvisarmi in qualche cucitura artigianale. Avevo anche parecchi anestetici, molto buoni. Così mi scolai rapidamente una mezza bottiglia di gin liscio e procedetti con l’operazione. Sette punti. Forse ne sarebbero serviti altri, ma iniziavo ad essere troppo sbronzo per conservare una necessaria discreta precisione. Comunque non mi vennero male e soprattutto non mi fecero male. Mi sistemai malconcio sul divano con una coperta a quadri e sigarette e birra a gittata minima. Accesi il lettore divx e l’arte di Berlanga iniziò a decodificarsi sulla televisione. Iniziavo a sentirmi leggermente più rilassato.

Domani mattina telefonerò al loculo e manderò a fanculo un altro giorno lavorativo. Ah Eh.


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