Albalisa samperi centro mara meoni di siena



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MARIA TERESA BATTAGLINO
Passo ora la parola a Rabea Abdelkrim, femminista algerina, attiva sui temi delle lotte e i diritti, che attualmente lavora a Dakar all’interno di esperienze per lo sviluppo dell’economia delle donne.

Quando qualche anno fa un gruppo di donne del progetto italiano Produrre e Riprodurre a cui appartenevo ha cominciato a interrogarsi rispetto ai nuovi arrivi, nel nostro Paese, di altre donne e al cambiamento che questo induceva nel nostro stare al mondo, Rabea è stata la prima -tra quelle che stavano avventurandosi per fare un salto di qualità nella politica delle donne- a dire: "se non fate economia non si va avanti", e a sollecitarci per interrogarci a nostra volta sulle nostre economie

Questo è un nodo che ancora permane complesso e difficile, perché su questo terreno ancora non c'è intesa. Il Nord e il Sud, le classi -anche se sono temi più così di moda-, i nostri bisogni e le nostre differenze credo che richiedono ancora dei momenti ulteriori di riflessione e di analisi. Per questo noi abbiamo voluto dislocare almeno un po' questo Nord in cui si svolgono le nostre iniziative portando, con i nostri pochi mezzi, questa voce del Sud di una donna che l’ha percorso sul terreno dell’economia, dell’imprenditoria e della politica dei diritti .


RABEHA ABDELKRIM

DAKAR, SENEGAL
Dopo gli interventi che mi hanno preceduta, credo che il mio compito qui sia cercare di affrontare la questione: "quale impresa vogliamo?". Una questione che ci rimanda immediatamente ad altre due: "quale sviluppo vogliamo?" e "quale economia vogliamo?". Cercherò dunque di condividere con voi una riflessione su queste questioni che ci uniscono, anche se siamo in contesti differenti.

Credo che sia importante partire da ciò che si conosce meglio. Inizierò dunque a parlare del contesto economico dell'Africa sub-sahariana. Questa si risolve in una lunga serie di parametri negativi: le donne non hanno lavoro, i bambini non sono scolarizzati, i problemi sanitari non vengono affrontati, le politiche di aggiustamento strutturale impongono un prezzo molto alto da pagare alla gente, prima di tutto alle donne. Io milito in una associazione di donne africane, e noi consideriamo la violenza economica che deriva da queste politiche di aggiustamento strutturale alla stregua delle numerose altre violenze che le donne sono costrette a subire. Parlo di questo per cercare di analizzare il contesto economico in cui ci muoviamo. A partire da lì possiamo comprendere e le diverse strategie di risposta. Perché si ha l'impressione che le donne africane dovrebbero essere semplicemente a terra, ma non è così: fanno moltissime cose!

Bisogna mettere in discussione gli indicatori che vengono usati per leggere la realtà economica.A partire da quegli indicatori, il contributo delle donne è sempre presentato con un segno negativo: le donne sono analfabete, fanno molti figli, hanno il problema dell'AIDS, il paludismo… E pertanto, ho voglia di dire, le donne danzano! Danzano realmente e a livello metaforico: si muovono, e se l'Africa non è sparita dal mappamondo è perché le donne si muovono, lavorano, vendono, e se ci sono cambiamenti in Africa è grazie a loro. Persino la Banca Mondiale riconosce attualmente che le donne sono più che un potenziale, che sono un nuovo attore economico, delle attrici portatrici di cambiamento.

Ma il problema è allora come produrre , cercando dei cammini alternativi, cercando di deviare da questo percorso imposto, questi modelli imposti dall'economia di mercato.

Tuttavia le lotte delle donne del nord e del sud sono riuscite a incidere sul modo di calcolare la produzione mondiale, facendo in modo che il lavoro invisibile delle donne possa essere stimato.

Attualmente, dopo anni di lotte e dopo tanto lavoro di sensibilizzazione, abbiamo delle cifre. Nei rapporti delle Nazioni Unite gli esperti stimano la produzione invisibile in 11 miliardi di dollari, il 70% della produzione mondiale contabilizzata, calcolata in 16 miliardi. All'interno di questa cifra colossale, le donne che lavorano gratis o che sono sottopagate per le attività che svolgono, rappresentano più della metà del totale. Il loro lavoro invisibile nutre -come il corpo della madre- l'intero sistema economico "formale".

Non è dunque un sogno, una utopia pensare che le donne possono realmente incidere e finanche sovvertire il sistema mondiale, l' "economia-mondo". Perché anche la nozione di debito -sia esso riferito all'Africa, sia esso riferito alle donne- deve essere riformulata a partire da questo lavoro e da questa produzione invisibili, e se teniamo in conto queste cifre, forse dovremmo dedurre che è l'economia mondiale che deve rimborsare le donne e l'Africa. Credo che alla luce di queste considerazioni dovremmo proporre una alleanza tra i due "continenti neri": il "continente nero donne" e il "continente Africa", entrambi usati come corpo materno che nutre, da sfruttare

Che cosa fanno le donne nel loro lavoro invisibile? Vi porto delle cifre relative all'Africa Occidentale: la creazione di impiego è legata per il 70.% al settore della economia informale o "popolare". E' difficile calcolare in cifre il contributo delle donne, all'interno di questo settore, ma possiamo farcene una idea. Dopo le politiche di aggiustamento strutturale e la svalutazione brutale che ha ridotto alla metà il potere di acquisto della popolazione da un giorno all'altro , c'è stata una immissione massiva delle donne nel lavoro. Le donne spiegano questo fenomeno dicendo che gli uomini, in questa ristrutturazione brutale del mercato del lavoro, non sono capaci di adattarsi perché sanno fare una sola cosa,, mentre le donne hanno saputo utilizzare le esperienze e i saper fare domestici per proporli sul mercato e nutrire la famiglia. Le donne prendono inoltre a carico tutto lo sviluppo locale: il risanamento dei luoghi, le abitazioni, etc. Anche questo è un fenomeno tutto da analizzare, perché anche in questo caso le donne restano invisibili. Si sa che delle cose "si fanno", ma non si nominano le operatrici, le attrici, quelle che risolvono questo problemi.

Io colgo dunque una ambiguità in questo muoversi delle donne Le donne funzionano come infermiere: fanno le riparazioni indispensabili perché le popolazioni continuino a vivere. Tutto quello che prima faceva lo stato, attualmente pesa sulle spalle delle donne. Le donne si muovono, e questo è formidabile, ma dobbiamo tener presente questa contraddizione: esse rimpiazzano le strutture pubbliche, svolgono un lavoro -il lavoro comunitario, per esempio- che spetterebbe allo stato, alle istituzioni locali.

Ma l'aspetto principale da sottolineare è che le donne africane producono anche qualcosa di immateriale e di molto particolare: le relazione sociali. Il lavoro associativo, la solidarietà, il lavoro comunitario, è una loro opera quotidiana, totalmente integrata alle altre loro attività domestiche ed extradomestiche. Io credo che a questo proposito noi donne di tutto il mondo che cerchiamo di elaborare un altro modo di essere e di vivere insieme abbiamo un apprendistato importante da fare tra le donne più povere della terra, a partire da questa loro ricchezza, che è tanto più importante e necessaria al nord, dove l'economia mondo sta distruggendo rapidamente il tessuto sociale, le relazioni.



Quando ci poniamo le domande da cui siamo partite: quale impresa vogliamo, quale sviluppo, quale accompagnamento, credo che dobbiamo affrontarle radicalmente a partire dalla questione dell'appoggio, e chiederci "chi appoggia chi?" Dobbiamo ricollocarci in una diversa prospettiva sud-nord e pluralizzare le entrate per metterci un un'ottica di scambi reciproci di saperi diversi. Dobbiamo riflettere in termini di attori e di attrici che hanno posizioni differenti; degli attori coinvolti in una riflessione su che tipo di sviluppo e che tipo di relazione bisogna costruire per arrestare l'emorragia provocata dal sistema capitalistico e da una forma di economia che poggia sulla speculazione e non sulla produzione. Credo che questa è la provocazione che possiamo lanciare. Anche per i partners istituzionali e per le ONG con cui lavoriamo, è necessario -e forse più gratificante- riflettere globalmente sul senso e la direzione dei loro interventi, piuttosto che affidarsi a indicatori per impegnare il denaro pubblico in un lavoro tecnico-burocratico .La riflessione delle donne è una delle maniere di trasformare la politica, non nello stile della rivendicazione, ma in quello del lavoro comune tra donne che hanno desiderio di cambiare. E' una riflessione che va nel senso della coazione, di una azione comune tra attrici che hanno un obiettivo comune di cambiamento .Allora la questione dell'assistenzialismo sarebbe affrontata in modo diretto, non ideologico. Si tratterebbe di promuovere un rapporto di scambio reciproco a partire da visioni differenti. Spesso i progetti falliscono perché le relazioni non sono pensate. La soluzione è possibile, è quasi davanti a noi. Dovremmo affrontarla con l'ottimismo della volontà.


BIANCA POMERANZI

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI
Il mio intervento si allaccia al quadro della economia mondiale tracciato da Rabeha e alla sua domanda su come ci possiamo muovere per fare in modo che l' economia sociale, l'economia del terzo settore - erroneamente detta informale- possa realmente cambiare l’equilibrio mondiale del pensiero unico cioè l’economia neo-liberista.Il liberismo che si è accelerato negli ultimi dieci anni con la globalizzazione, da venti anni miete vite umane attraverso gli aggiustamenti strutturali, perché questi sono i responsabili dei tagli alle spese sociali: nei paesi del sud del mondo, lo sono stati negli anni ’80, in Europa lo sono diventati in questi ultimi anni, e lo abbiamo sperimentato con l’Euro. Ma questa stessa situazione, come diceva Rabea, ha favorito lo svelamento del protagonismo delle donne in molte parti del mondo. Questo svelamento è ormai scritto in molti documenti delle Nazioni Unite, quella cifra di sedici miliardi di dollari è pubblicata nel Rapporto sullo Sviluppo Umano del 1995 che ha preceduto la conferenza di Pechino e che ha messo in luce il rapporto fra lavoro pagato e lavoro non pagato. Direi che questa consapevolezza raggiunta è frutto di venti anni di lotte di economiste e di militanti femministe, in particolare le militanti di quello che una volta in Italia si chiamava Salario per il Lavoro Domestico e che adesso è un movimento internazionale Salario per il Lavoro delle Donne.

Mi riallaccio allo schema che efficacemente ha tracciato Rabea per rispondere in particolare a una delle sue domande: quale economia? Penso a un’economia che tiene conto del fattore umano, che assume la centralità degli esseri umani e che nelle carte internazionali viene chiamata appunto l’economia dello sviluppo umano. Grandi teorici, come l’economista Martin Assen, sostengono questo pensiero alternativo dell’economia ma con una grande difficoltà perché in realtà tutti pensano lo sviluppo come lo sviluppo delle grandi infrastrutture, delle grandi banche, dei grandi mercati , e la posizione marginale di tutto il resto e in particolare di gran parte del lavoro delle donne è assolutamente sancita a livello mondiale.

Le Nazioni Unite hanno dei bellissimi propositi che però non diventano realtà. Per fare diventare realtà le intenzioni delle Nazioni Unite bisogna rovesciare il discorso sullo sviluppo, operare una rivoluzione e far ritornare la cooperazione a quello che il termine rimanda, ma che non è mai stato attuato. La cooperazione Nord-Sud è stata vista sempre come un dono del Nord a un bisogno del Sud, mai come una collaborazione di due soggetti che vanno insieme verso uno sviluppo complessivo. Adesso è inalienabile la necessità di guardare a uno sviluppo complessivo .Ma l’entropia, il burocratismo, il centralismo, il pensiero unico di questa economia rendono la vita molto difficile a chi cerca di dare corpo allo sviluppo umano. Io faccio parte di un gruppo che cerca di rendere effettivo il discorso del partenariato tra Nord e Sud all’interno della cooperazione promossa dal Ministero degli Esteri , e che cerca di affrontare anche in termini internazionali il discorso del terzo settore, cambiando le tipologie di cooperazione. Finalmente si sta cominciando a parlare di una cooperazione decentrata, che non avvenga tra gli esperti del Nord e i beneficiari del Sud, ma tra operatori che stanno dentro le istituzioni, operatori che lavorano in istituzioni decentrate come i Comuni o le amministrazioni locali, e soggetti che si muovono nelle realtà locali, in realtà economiche e istituzionali, nel settore privato, nella società civile ; una cooperazione che promuova anche un modo diverso di affrontare il discorso dello sviluppo.

Io aderisco a questa nuova tipologia tentando di incrementare l’empowerment economico delle donne, non solo al Nord, ma anche al Sud del mondo,. E' un compito assai difficile perché anche nella discussione sul terzo settore il problema della valorizzazione di quel lavoro che stamattina in molte hanno citato, il lavoro relazionale, il lavoro di cura, il lavoro che non è solo rivolto alla sussistenza, ma anche alla convivenza tra i soggetti, rappresenta uno scoglio da affrontare, una fatica in più. Sono convinta che questo tipo di cooperazione decentrata abbia bisogno di una valorizzazione simbolica del lavoro femminile, cioè della soggettività economica delle donne. E penso anche che sia più facile ottenere questa valorizzazione simbolica all’interno di questo nuovo schema di sviluppo, piuttosto che non all’interno dello schema di sviluppo della banca mondiale che si affida agli analisti sociali, gli antropologi, gli entomologi. Però credo che su questo tema del come valorizzare il lavoro delle donne le donne debbano aprire un contenzioso molto forte a livello locale, a livello nazionale, a livello globale, creando alleanze tra soggetti diversi: le donne che lavorano nel fare impresa e che si domandano qual è il valore aggiunto di queste loro imprese ; gli operatori dello sviluppo come me, che lavorano dentro le istituzioni o dentro le organizzazioni non governative; e infine le istituzioni nazionali di vario livello.



Quindi nel chiudere questa mia brevissima esposizione -che appunto tentava di rispondere alla esigenza di lavorare in modo diverso per uno sviluppo differente - mi auguro che su questi temi si possa fare più e meglio in Italia . Sono infatti anche convinta che il lavoro sull’empowerment economico è il contributo peculiare che noi donne italiane possiamo portare nel dialogo internazionale tra donne. Io sono ormai convinta che noi donne italiane rispetto ai diritti umani e al riconoscimento istituzionale non siamo certo mai state le prime. Le nostre istituzioni di parità sono arrivate buone ultime, abbiamo una presenza del 10% delle donne al Parlamento, quindi siamo bassissime rispetto agli altri paesi del Nord e rispetto a molti paesi del Sud. In Sud Africa c’è una presenza di 30% di donne al Parlamento e una struttura di pari opportunità molto migliore della nostra. Però , proprio per il connotato del movimento femminista italiano, per il modo in cui è nato negli anni ’70 ed è cresciuto negli anni ’80, appoggiato dai grandi movimenti sindacali e operai, noi abbiamo qualcosa da dire in più su questa possibilità di incrementare l'empowerment economico, che è anche una risposta ai diritti di cittadinanza più complessiva. Credo che proprio dalla vivacità del movimento degli anni ’70 siano scaturite delle forme che noi dovremmo curare di più, rappresentare di più in quanto donne e portare in un dibattito internazionale. Penso che realtà come quella della Toscana siano a questo proposito particolarmente importanti, Perché in Toscana i movimenti di sinistra sono sempre stati forti. Direi che noi donne toscane, io lo posso dire perché sono toscana anch’io, facendoci valere di più nei confronti delle istituzioni locali e regionali e anche nazionali, possiamo portare un contributo nella costruzione di reti internazionali. Credo che le moltissime esperienze economiche che voi avete disegnato stamattina, debbano costituire delle reti per raggiungere una massa critica capace di esercitare una forte pressione sulla economia liberista . Il rischio, altrimenti, è che questo terzo settore, promotore di un’economia sociale capace di cambiare le forme della convivenza, debba cedere il passo all’economia di medio settore che anche in Toscana, come in altri luoghi è cresciuta molto negli anni ’80: una economia che non trasforma, - o meglio trasforma solo i conti correnti dell’imprenditore piccolo. Realtà come quella Toscana possono mostrare molto efficacemente dov’è la differenza tra un’imprenditoria anche piccola che però non trasforma nulla, ma che è frutto delle trasformazioni sul territorio e invece un’imprenditorialità che vuole trasformare le forme della convivenza. Grazie.

L'ECONOMIA DELLE DONNE, IL TERZO SETTORE, LE POLITICHE

MARIA TERESA BATTAGLINO
Quest'ultima parte del nostro convegno sarà dedicata a un azione – che si sta appena intraprendendo – per coniugare la politica delle donne e le istituzioni - a partire dalle donne nelle istituzioni - con le tematiche della economia sociale e del terzo settore. Questo sarà un po’ il senso del lavoro di questo pomeriggio: mettere insieme le politiche delle donne e il terzo settore, in un'ottica di genere.

Avremmo dovuto avere qui la europarlamentare Fiorella Ghilardotti che è assente, perché, in questi ultimi giorni è stata scelta per rappresentare le donne dell’Europarlamento nell’Internazionale Socialista a Buenos Aires. Le avevamo chiesto di esserci perché lei è , a livello europeo, la madrina di questo progetto un po’ particolare che è il Terzo settore occupazione. Proprio lei e altre donne europarlamentari hanno chiesto che la Commissione Europea in fine di mandato mettesse a disposizione delle risorse e contemporaneamente impegnasse i suoi uffici "studi e ricerca " per cercare di vedere che cosa sta capitando nel terzo settore e di raccoglierne le punte innovative per farle diventare linee per l’agenda 2000 .

Ora do la parola a Cristina Cappelli, presidente di una cooperativa sociale a Torino, che a sua volta è l’anima di un progetto imprenditoriale più ampio di cooperative e associazioni che hanno posto al centro il tema dell’economia associativa all’interno del terzo settore. Inoltre Cristina Cappelli è stata ed è una delle donne che si è misurata anche dal punto di vista professionale con l’economia nascente all’interno del Centro Alma Mater ed è nel collegio sindacale della cooperativa Talea, una delle cooperative nate dal Centro. L’esperienza di Talea è quella che a tutt'oggi ha più storia nell’impegno delle donne straniere nell’economia in Italia. Una storia lunga faticosa, faticante, perché le donne di Talea sono partite con uno grande slancio, ottenendo anche un appoggio alla loro grande capacità imprenditoriale e operativa, ma in questo momento incontrano difficoltà di sviluppo e difficoltà di relazione con l’associazione Alma Terra in cui si sono sviluppate, difficoltà non relazionali-umane, ma inerenti allo sviluppo di impresa e al nodo impresa/associazione.

Del resto la storia della Talea è sicuramente una delle spinte che hanno animato tutta l’attività del progetto L'Impresa di Essere Donna. Per questo mi pareva importante affidare a Cristina Cappelli questo intervento rispetto al terzo settore, perché partendo dallo sviluppo di una impresa che lei conosce molto bene, nello stesso tempo potesse anche inquadrarle nelle difficoltà complessive dell’imprenditoria all’interno del terzo settore.




CRISTINA CAPPELLI

COOPERATIVA MURET
Nel pensare questo intervento, ho tenuto presenti due esperienze che non riuscivo a dividere nella mia testa oltre che nel mio cuore: l’esperienza della cooperativa di cui faccio parte da ormai 15 anni, la cooperativa sociale progetto Muret e la cooperativa di donne Talea di Torino. Credo che ci siano dei grossi nessi tra queste due esperienze, e il tentativo che farò è quello di provare a mostrarvi questi nessi come elemento di orizzonte in cui anche queste nuove imprese associative possano collocarsi.

Coniugare la politica come azione di trasformazione e cambiamento per e per gli altri, con il lavoro di cura, domestico e di relazione e con il proprio fare professionale, - cioè ciò che produce reddito- ha significato in questi anni per molte donne scommettere su un processo lungo e senza esiti certi e prevedibili. Ha significato inventare, gestire conflitti, affrontare paure, misurarsi con modelli diversi, cercando di trasformarli, avere molta pazienza.

La mia esperienza nella cooperazione sociale è nata dalla voglia dei venti anni di fare qualcosa insieme ad altri per cambiare, accorciare le distanze per chi abita la città di Torino e ha risorse per potersi garantire una buona qualità della vita e chi abita la stessa città e non ha le stesse possibilità di vivere con dignità e riconoscimento dagli altri. Questo desiderio ha affondato le sue radici e ha sviluppato nel tempo anche competenze in due questioni che hanno attraversato l’esperienza di questi 15 anni nella cooperazione sociale, diventando capisaldi e punti di riferimento nel tempo costanti: il pensare e fare in una dimensione collettiva, e il trasformare un sapere, un fare politico in attività economica e in modelli di funzionamento organizzativo e di gestione. La combinazione e la cucina di questi due ingredienti ha prodotto l’impresa associativa di cui sono responsabile, cioè la Cooperativa Sociale Progetto Muret Ma l’idea stessa che sottostava alla pratica di un lavoro con persone che avevano vissuto l’esperienza dell’ospedale psichiatrico si è riprodotta in questi anni, diventando una proposta sociale e politica e nel tempo anche un metodo di lavoro anche per altre imprese sociali che ho accompagnato e che mi hanno accompagnato in questi anni. E’ stato cioè possibile costruire una cittadinanza riconosciuta e praticata per molte persone, poiché insieme alle molte iniziative culturali si è cercato di realizzare un'economia politica di cittadinanza, un agire cioè in cui la produzione e la ridistribuzione di risorse economiche si coniugano con la creazione di benessere, e con la qualità della vita delle persone. Un’impresa sociale si configura diversamente dalle altre imprese per la sua duplice missione: per il suo intento di restituire protagonismo e visibilità ai soci che l’hanno costituita, e al contempo per le proposte e per i progetti di tipo economico che realizza, auto organizzandosi per i propri soci. Alcune imprese sociali hanno compiuto in questi anni alcuni passi in avanti ponendosi come produttori economici di servizi di cura all’interno di un’economia che si definisce sociale.

Cosa intendo e cosa voglio definire con il termine sociale?

Sociale è innanzitutto il soggetto economico che vede in questo preciso contesto molte donne ritrovare dei legami e dei progetti comuni per poi giocarli nel produrre servizi al servizio della collettività. Sociale è anche il terreno, il territorio in cui si pratica e si qualifica l’azione come impegno di tessere legami sociali, capaci di cure e attenzioni ai processi, in particolare in quegli ambiti in cui sono fortemente minacciati i diritti umani. Sociale è la scelta di uscire da logiche assistenziali per approdare a logiche dove prevalgono l’autorganizzazione delle persone nel far fronte ai propri problemi e a quelli della comunità locale. Sociale è, in ultimo, il modo di organizzarsi per produrre trasformando un modello di gestione volta al profitto a favore di una gestione partecipata, ma non per questo meno imprenditoriale e manageriale.

C’è un aspetto dell’analisi del sociale che rappresenta una chiave di lettura diversa, non conosciuta, nuova, caratteristica di un approccio di genere femminile che deve ancora ricercare le giuste parole per essere nominata, compresa nel suo valore e accreditata. Per non restare ancorati all sola proclamazione dei diritti di cittadinanza è necessario rendere visibile un possibile disegno di società e le relative pratiche di lavoro per realizzarlo. Mi riferisco ad un possibile disegno di una società che si configura come un tondo in cui politiche del sociale e del lavoro non possono scindersi in compartimenti non comunicabili, da cui derivano poi analisi, approcci e strumenti diversi. Così come nella vita di molte donne si cerca di non produrre rotture e distinzioni tra un tempo del lavoro necessario alla riproduzione di noi, la casa e le relazioni in essa e al di fuori di essa contenute -cioè il nostro sociale- e un tempo del lavoro inteso come azione necessaria alla produzione di reddito. Due aspetti dell’esistenza che non sono né separati né contrapposti, soprattutto se l’intelligenza lavora per metterli continuamente in rapporto. Partecipare a trasformare questo sapere che è nei nostri gesti, nelle nostre azioni quotidiane e in questa pratica del lavoro, che è il lavoro di cura di sempre, in strumenti riconducibili ad ordini di conoscenza e modelli organizzativi funzionanti ed efficaci, le imprese associative: questa è la sfida, il gioco assunto dalle esperienze che abbiamo incontrato, che abbiamo sentito stamattina.

Questo disegno di società condiviso da molti, è giunto ad essere qualcosa di più di un segno. Patrimonio anche di molte altre imprese sociali, sta dentro una cornice oggi molto visibile che è il terzo settore. Il rapido sviluppo del terzo settore - e per terzo settore intendiamo associazioni di volontariato, organismi di solidarietà internazionale e cooperative sociali- è un fenomeno ormai presente e consolidato in tutta l’Unione Europea. Per la capacità che ha avuto di affermarsi nel dialogo tra politico e sociale, il terzo settore rappresenta sempre di più una risorsa nella definizione di politiche di sviluppo sensibili al problema della coesione sociale. Infatti è indubbia l’importanza del terzo sistema nella riforma del sistema Wellfare attraverso il contributo di innovazione alle politiche di sviluppo e alla qualità sociale della vita dei cittadini.

C’è un grande rischio che il terzo settore assuma completamente la delega da parte dello Stato e degli Enti Pubblici Locali, diventando così inevitabilmente erogatore di buone prestazioni assistenziali, di efficienti gestioni di servizio talvolta a più basso costo degli Enti propri. Perché il terzo settore possa esprimere tutta la sua potenzialità è necessario che affronti e risolva esso stesso, che dipani la sua complessità ed espliciti con chiarezza le varie espressioni di cui si compone. Le organizzazioni del terzo settore hanno genericamente in comune espressioni di solidarietà organizzata, ma possono poi avere connotazioni molto diverse negli obbiettivi specifici, nelle strutture organizzative, nei rapporti con le istituzioni pubbliche. Risulta abbastanza centrale il nodo intorno al valore economico che assumono e sviluppano le diverse forme presenti nel terzo settore, spesso contrapposto alla questione legata alla gratuità del volontariato. Forse un orientamento possibile è da ricercarsi in quelle organizzazioni, sistemi di funzionamento che hanno sviluppato al loro interno soggetti che giocano funzioni diverse, ma accomunati dal guardare un orizzonte comune che è definito dalla reciprocità che suppone scambio, pari dignità fra soggetti diversi e reciproco arricchimento. Una considerevole esperienza è stata sviluppata dalle imprese sociali del terzo settore che stanno attivamente sperimentando le proprie responsabilità facendosi portatrici di pratiche di lavoro nel rigenerare le comunità locali, il territorio, nel ricercare un modello di sviluppo in cui ci sia spazio per tutti, cercando di volta in volta di buttare giù gli steccati fisici e culturali tra gruppi sociali.

Sono esperienze di nicchia, questo è vero, siamo abituati a pensare che le piccole esperienze siano fragili e sottoposte quindi al rischio di un futuro incerto, ma anche su questo dobbiamo riflettere. Io non credo che la solidità derivi dalla dimensione, ma dalla capacità di realizzare, attraverso un faticoso lavoro di cura dei processi di lavoro, la attenzione ai poteri della comunicazione, la attenzione ai modelli organizzativi di funzionamento, la attenzione all’uso imprenditivo, ma anche flessibile, delle risorse umane ed economiche. Credo , perché questa è stata la mia esperienza , che anche per iniziative di nicchia sia possibile avere un futuro se si costruiscono strategie di alleanza, di relazioni, di reti con chi in questi anni ha sviluppato competenze su altre esperienze di lavoro sociale. Alcune esperienze di cooperazione sociale sono interessate a dare sostegno, accompagnamento, a trasferire competenze, ma anche a scambiare e arricchirsi di patrimoni diversi e non conosciuti. La recente costituzione di una rete nazionale tra 60 imprese sociali e associazioni, chiamata per questo Impresa Rete è uno stimolo, è una proposta a pensare che solo mettendo in collegamento e scambiando risorse e saperi è possibile dare visibilità, ma anche solidità di idee alle nostre iniziative. Credo sia una responsabilità politica delle imprese sociali contribuire a mettere in discussione e a ridisegnare il modello sociale di sviluppo. E’ una responsabilità politica che si trasforma in responsabilità operativa quando costruisce e anima progettualità sociale permettendo ai diversi attori di riconoscersi reciprocamente valorizzando le differenze, le proprie autonomie, di intrecciare significati di cui tutti sono portatori per poi generare nuovi sguardi, nuove immagini del sociale che generano nuove pratiche di lavoro. Questo avviene non casualmente o solo perché legato a qualche persona di buone capacità che si incontra sulla strada, ma attraverso una pratica costante di relazioni, di partnership e di concertazione tra soggetti pubblici e attori sociali diversi. In questa dimensione gli attori sociali non sono considerati e non si considerano utenti o consumatori in quanto riceventi di alcuni servizi oppure buoni prestatori dell’Ente Pubblico, ma partecipi e corresponsabili nella fase dell’analisi della costruzione della risposta. Si sviluppa in questo modo quella che Laville chiama imprenditoria sociale o civica, che non è separabile dalle condizioni sociali e politiche dalle quali emerge. Le iniziative che si sono realizzate in questa prospettiva e quelle descritte stamani, sembrano starci a pieno titolo, sono nate a partire dalle reti sociali che le hanno promosse, e non a partire da progetti individuali unilaterali.

Questo sviluppo della partecipazione rende a questo punto difficile e poco adeguato parlare di terzo settore, come di un "terzo" diverso e separato da un primo e un secondo, perché questo modo di affrontare e stare nella questione sociale rimanda alla volontà di conciliare economia e sociale piuttosto che alla costruzione di un settore che è separato dagli altri. Sono processi lunghi, infatti le modificazioni culturali profonde avvenute in questi anni nei rapporti tra produzione e produttività nell’ambito dell’economia di mercato richiedono strategie innovative e di lungo periodo, se si vuole affrontare concretamente il problema della disoccupazione crescente e la contestuale esclusione sociale sempre più allarmante. Non solo occorre che la natura di queste strategie risponda al bisogno di più cooperazioni, più concertazione rispetto alle spinte di competitività che misuriamo ogni giorno. Molti economisti cominciano a riflettere ed individuano nel terzo settore quei soggetti in grado di rispondere a bisogni insoddisfatti, trasformandoli in domande sociali attraverso una inedita mobilitazione di risorse. Molte agenzie sociali sviluppatesi in questi ambiti hanno declinato nel loro fare azioni pratiche producendo valore economico, di produzione di reddito, valore sociale, di visibilità e di riconoscimento e di integrazione sociale nella città, e valore culturale, di promozione di iniziative di scambio. Questi tre aspetti non sono separabili nei processi che si producono; la fatica , ma anche la sfida sta nel declinarli anche se i soggetti che hanno in mano le azioni sono diversi tra di loro: associazioni, cooperative, cooperative sociali, società di servizi. Anzi, forse soggetti diversi che interagiscono tra loro con funzioni diverse possono essere elemento di ricchezza. Il problema non è di mettere ordine, ma di governare, attraverso un indispensabile lavoro di cura, il coordinamento di processi collettivi. Ogni soggetto deve riconoscere la sua postazione, i suoi strumenti, fino a dove e come può giungere all’obbiettivo, riconoscendo se può essere in grado di riconoscere gli altri soggetti e comprendere dove e come può costruire connessioni, cosa scambiare, su quale terreno costruire reciprocità. Questo io credo valga per tutti i soggetti che si mettono in gioco: associazioni di donne, imprese associative di donne migranti e native, istituzioni, cooperative sociali, Ong. L’impegno, e forse anche il difficile, sta nel costruire un sistema di risorse che pur avendo responsabilità diverse concorra allo stesso obbiettivo. Anche questo è un processo, soprattutto pratico ed operativo e nella sua dimensione organizzativa riflette un disegno che è coerente negli sforzi e nella complessità al disegno di società di cui parlavo all’inizio.

Concludo pensando che tutto questo che vi ho raccontato è cominciato per me tanti anni fa a Torino e il fatto che io sia qui oggi, in terra di Toscana, a parlarne non come di qualcosa di astratto, ma già di anime e sangue di tante vostre esperienze avviate, delle molte imprese associative nate tra donne, mi dà coraggio e fiducia per procedere. Questo per me è già molto e spero che le mie parole abbiano trasmesso un po’ della stessa fiducia e della forza che mi avete comunicato in questi giorni.


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