Philip k. Dick la svastica sul sole (The Man In The High Castle, 1962)



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CAPITOLO QUINDICESIMO
Il capitano Rudolf Wegener, che al momento viaggiava sotto il falso nome di Conrad Goltz, commerciante di prodotti medicinali all'ingrosso, sbirciò dal finestrino del razzo Luf­thansa Me9-E. L'Europa era davanti a lui. Come abbiamo fatto presto, pensò. Atterreremo al Tempelhof Feld fra circa sette minuti.

Mi domando che cosa ho ottenuto, rifletté mentre osser­vava la terraferma che diventava più grande. Adesso è tutto nelle mani del generale Tedeki. Qualunque cosa possa otte­nere nelle Isole Patrie. Ma quanto meno avranno avuto l'in­formazione. Noi abbiamo fatto quello che potevamo.

Ma non c'è nessuna ragione per sentirsi ottimisti, pensò. Probabilmente i giapponesi non possono fare niente per cam­biare il corso della politica interna tedesca. Il governo di Goebbels è già al potere e probabilmente ci resterà a lungo. Dopo che si sarà consolidato, tornerà a prendere in conside­razione l'idea dell'Operazione Dente di Leone. E un'altra grossa parte del pianeta verrà distrutta, insieme alla sua po­polazione, a causa di un ideale deviato, fanatico.

E se alla fine loro, i nazisti, distruggessero tutto? Se la­sciassero solo uno sterile mucchio di cenere? Potrebbero farlo: hanno la bomba all'idrogeno. E senza dubbio lo fa­rebbero; il loro modo di pensare tende al Gotterdämmerung. Sarebbero capacissimi di volerlo, di fare di tutto perché suc­ceda, un olocausto finale per tutti.

E che cosa lascerà, questa Terza Pazzia Mondiale? Por­rà fine a ogni forma di vita, ovunque? Quando con le nostre stesse mani trasformeremo il nostro pianeta in un pianeta morto?

Non poteva crederlo. Anche se tutta la vita sul nostro pianeta venisse annientata, deve esistere, da qualche parte, un'altra forma di vita della quale noi non sappiamo niente. È impossibile che il nostro sia l'unico mondo; devono esser­cene tanti altri, a noi sconosciuti, in qualche regione o di­mensione che noi semplicemente non riusciamo a percepire.



Anche se non posso dimostrarlo, anche se non è logico... io ci credo, si disse.

Un altoparlante annunciò, «Meine Damen und Herren. Achtung, bitte ["Signore e signori, attenzione, prego."].»



Ci stiamo avvicinando al momento dell'atterraggio, si disse il capitano Wegener. Quasi certamente mi troverò da­vanti il Sicherheitsdienst. La domanda è: quale fazione politi­ca sarà rappresentata? Quella di Goebbels? O quella di Heydrich? Ammettendo che il generale delle SS Heydrich sia an­cora vivo. Mentre ero a bordo di questo razzo, potrebbe es­sere stato accerchiato e ucciso. Le cose avvengono in fretta, nella fase di transizione di una società totalitaria. Nella storia della Germania nazista ci sono tanti elenchi di nomi accura­tamente preparati e poi stracciati da un momento all'altro...

Parecchi minuti dopo, quando il razzo ebbe toccato terra, si ritrovò in piedi, diretto verso l'uscita con il cappotto sul braccio. Davanti e dietro a lui, passeggeri impazienti. Nessun giovane pittore nazista, questa volta, pensò. Nessun Lotze che mi assilla con le sue stupide considerazioni.

Un ufficiale in divisa della compagnia aerea - vestito, os­servò Wegener, come lo stesso Reichsmarshal - li accompa­gnò tutti giù per la scaletta, uno a uno, fino al campo. Là, vi­cino all'atrio dell'aerostazione, c'era un gruppetto di camicie nere. Per me? Wegener cominciò ad allontanarsi a passo len­to dal razzo, diretto verso un altro punto dove c'erano uomini e donne in attesa, che salutavano e chiamavano... c'erano an­che dei bambini.

Una delle camicie nere, un biondo impassibile dal viso schiacciato che indossava le mostrine della Waffen-SS, si di­resse rapidamente verso Wegener, sbatté i tacchi degli stivali e lo salutò. «Ich bitte mich zu entschuldigen. Sind sie nicht Kapitän Rudolf Wegener, von der Abwehr ["La prego di scusarmi. Lei non è il capitano Rudolf Wegener, dell'Abwehr?"]?»

«Mi dispiace,» rispose Wegener. «Io sono Conrad Goltz. Rappresentante della A.G. Chemikalien, prodotti farmaceuti­ci.» E fece per passare.

Si fecero avanti altre due camicie nere, anch'esse Waffen-SS. Tutti e tre gli si misero al fianco in modo che, anche se lui proseguì con lo stesso passo e nella stessa direzione, si ritro­vò improvvisamente ed efficacemente sotto custodia. Due dei tre uomini della Waffen-SS avevano delle mitragliette nasco­ste sotto i cappotti pesanti.

«Lei è Wegener,» disse uno di loro mentre entravano nel­l'aerostazione.

Lui non disse nulla.

«Abbiamo una macchina,» proseguì l'uomo della Waf­fen-SS. «Ci hanno ordinato di aspettarla all'arrivo del razzo, contattarla e accompagnarla immediatamente dal generale delle SS Heydrich, il quale si trova insieme a Sepp Dietrich alla OKW della Leibstandarte Division. In particolare dob­biamo evitare che lei abbia qualsiasi contatto con la Wehrmacht o con uomini della Partei.»

Allora non mi uccideranno, si disse Wegener. Heydrich è vivo, e in un luogo sicuro, e sta cercando di rafforzare la sua posizione contro il governo di Goebbels.



Forse il governo di Goebbels cadrà, dopotutto, pensò mentre veniva sospinto dentro la Daimler berlina in attesa. Un distaccamento della Waffen-SS mobilitato all'improvvi­so, di notte; gli uomini di guardia alla Reichskanzlei rilevati e sostituiti. Le stazioni di polizia di Berlino che tutto a un tratto vomitavano uomini armati in tutte le direzioni... le stazioni radio messe a tacere, le centrali elettriche bloccate, Tempelhof chiuso. Rumori di armi pesanti nell'oscurità, lungo le strade principali.

Ma che importanza ha? Anche se il dottor Goebbels ve­nisse deposto e l'Operazione Dente di Leone annullata? Esi­sterebbero ancora, le camicie nere, la Partei, i piani, se non proprio in Oriente magari da qualche altra parte. Su Marte e su Venere.

Non c'è da stupirsi che il signor Tagomi non ce l'abbia fatta ad andare avanti, pensò. Il tremendo dilemma delle no­stre vite. Qualsiasi cosa succeda, è male al di là di ogni con­fronto. E allora perché lottare? Perché scegliere? Se le al­ternative sono sempre le stesse...

Evidentemente dobbiamo andare avanti, come abbiamo sempre fatto. Giorno dopo giorno. In questo momento lavo­riamo contro l'Operazione Dente di Leone. Più avanti, in un altro momento, lavoreremo per sconfiggere la polizia. Ma non possiamo fare tutto in una volta; è una sequenza. Un proces­so che si dispiega davanti a noi. Noi possiamo solo control­lare la conclusione compiendo una scelta a ogni passo.

Possiamo solo sperare, pensò. E tentare.

Su qualche altro mondo probabilmente è diverso. Meglio di così. Esisteranno chiare alternative fra bene e male. Non queste oscure commistioni, queste mescolanze, senza gli stru­menti adeguati per distinguerne le componenti.

Noi non abbiamo il mondo ideale, come vorremmo che fosse, dove la moralità è semplice perché semplice è la cono­scenza. Dove ognuno può fare ciò che è giusto senza sforzo perché riconosce l'evidenza. La Daimler partì con il capitano Wegener sul sedile posteriore, affiancato da due camicie nere con la mitraglietta in grembo. Un'altra camicia nera al volan­te.

E se anche questo fosse un inganno? pensò Wegener men­tre la berlina attraversava ad alta velocità le vie trafficate di Berlino. Magari non mi stanno portando dal generale delle SS Heydrich alla OKW della Leibstandarte Division, ma in una prigione della Partei, per torturarmi e alla fine uccider­mi. Ma io ho già fatto la mia scelta; ho scelto di ritornare in Germania, ho scelto di rischiare la cattura prima di poter raggiungere gli uomini dell'Abwehr e mettermi al sicuro.

La morte in ogni momento, una strada che è sempre aper­ta davanti a noi in ogni punto. E alla fine noi scegliamo quel­la, nostro malgrado. Oppure ci arrendiamo e la percorriamo di nostra volontà. Guardò le case di Berlino che gli sfilavano davanti. Il mio Volk, pensò; tu e io, di nuovo insieme.

«Come vanno le cose?» chiese ai tre militari delle SS. «Ci sono stati sviluppi, di recente, nella situazione politica? Man­co da diverse settimane, da prima che Bormann morisse.»

«Naturalmente il Piccolo Dottore ha un grande appoggio, da parte della folla isterica,» rispose l'uomo alla sua destra, «però è improbabile che, quando elementi più equilibrati avranno la meglio, siano disposti ad appoggiare un storpio e un demagogo come lui, che sa solo infiammare le masse con le sue menzogne e con il suo fascino.»

«Capisco,» disse Wegener.



Continua, pensò. L'odio sanguinario. Forse questi ne so­no già i semi. Finiranno per divorarsi l'un l'altro, lasciando ancora vivi alcuni di noi, sparsi qua e là nel mondo. E anco­ra, saremo sempre abbastanza, per costruire e per sperare e per realizzare pochi, semplici progetti.
All'una del pomeriggio Juliana Frink raggiunse Cheyenne. Nella zona commerciale del centro, di fronte all'enorme deposito ferroviario, si fermò da un tabaccaio e comprò due giornali del pomeriggio. Parcheggiò accanto al marciapiede e sfogliò il giornale finché non trovò la notizia:
VACANZA CONCLUSA TRAGICAMENTE
Ricercata per essere interrogata in merito alla tragica morte del marito nella lussuosa stanza del President Garner Hotel di Denver, la signora Cinnadella di Canon City, se­condo quanto affermano i dipendenti dell'albergo, è partita immediatamente dopo quello che sembra essere stato il tra­gico epilogo di un litigio coniugale. Risulta che le lamette ri­trovate nella stanza, ironicamente fornite dall'albergo ai suoi ospiti, siano state usate dalla signora Cinnadella, de­scritta come una donna sui trent'anni, bruna, attraente, snel­la e ben vestita, per tagliare la gola di suo marito. Il corpo è stato scoperto da Theodore Ferris, dipendente dell'albergo, il quale aveva avuto in consegna da Cinnadella delle cami­cie da stirare appena mezz'ora prima; tornato per restituir­le, si è trovato di fronte alla macabra scena. L'appartamen­to, riferisce la polizia, mostrava tracce di colluttazione, av­valorando l'ipotesi che abbia avuto luogo una violenta di­scussione...
E così è morto, pensò Juliana mentre ripiegava il giornale. E non solo, ma non conoscono il mio vero nome, non sanno chi sono, e ignorano tutto di me.

Molto più rilassata, riprese a guidare finché non trovò un buon motel; fissò una stanza e scaricò tutte le sue cose dalla macchina. D'ora in avanti non devo avere fretta, si disse. Posso anche aspettare fino a sera, per andare dagli Abendsen; così potrò mettermi il mio vestito nuovo. Non mi sembra il caso di andarci in giro finché è ancora giorno... non si può indossare un abito così elegante prima di cena.



E posso finire di leggere il libro.

Si sistemò nella camera d'albergo, accese la radio, si fece portare del caffè dal bar; poi si sdraiò sul letto immacolato con la copia nuova de La cavalletta che aveva acquistato presso la libreria dell'albergo di Denver.

Alle sei e un quarto di sera finì di leggere il libro. Chissà se Joe è arrivato fino alla fine? si domandò. In questo libro c'è molto di più di quanto lui abbia capito. Che cosa voleva dire Abendsen? Niente sul suo mondo di fantasia. Sono io la sola a saperlo? Scommetto di sì; nessuno capisce veramente La cavalletta tranne me... gli altri s'illudono solamente di ca­pirla.

Ancora un po' scossa, lo ripose nella borsetta, si infilò il cappotto e lasciò il motel in cerca di un posto per cenare.

L'aria aveva un buon profumo, e le insegne e le luci di Cheyenne sembravano particolarmente eccitanti. Davanti a un bar due graziose prostitute indiane dagli occhi neri sta­vano litigando... lei rallentò per guardare. C'era un gran via­vai di macchine tirate a lucido; tutto quello spettacolo aveva un'aura di vivacità e di attesa, come se fosse l'annuncio di un lieto e importante evento, come se gli sguardi di tutti fossero rivolti verso il futuro e non verso il passato... il passato, pen­sò, ciò che è stantio e triste, consumato e gettato via.

Cenò in un costoso ristorante francese, dove un uomo in giacca bianca era addetto a parcheggiare le auto dei clienti, e ogni tavolo aveva una candela accesa dentro una coppa da vino, e il burro veniva servito non a pezzi ma arrotolato in piccole palline bianche; apprezzò molto la cena e poi, con molto tempo libero davanti a sé, tornò lentamente verso il motel. Le banconote della Reichsbank erano quasi finite, ma non se ne preoccupò; non aveva importanza. Ci ha parlato del nostro mondo, pensò, mentre apriva la porta della stanza. Di questo mondo, che in questo momento è intorno a noi. Accese di nuovo la radio. Vuole che lo vediamo per ciò che è. E io ci riesco, ci riesco sempre di più a ogni momento che passa.

Prese dalla scatola il vestito azzurro e lo sistemò accura­tamente sul letto. Non aveva subito nessun danno; quello che gli poteva servire, al massimo, era una buona spazzolata per togliere un po' di lanugine. Ma dopo aver aperto gli altri pac­chetti, si accorse di non avere preso nessuno dei reggiseni senza spalline che aveva acquistato a Denver.

«Dannazione,» esclamò, accasciandosi su una sedia. Si accese una sigaretta e rimase per un po' seduta a fumare.

Forse poteva indossarlo con un reggiseno normale. Si tol­se la camicetta e la gonna e si provò il vestito. Ma si vedeva­no le spalline del reggiseno e anche la parte superiore di cia­scuna coppa, quindi non poteva andare. Magari, pensò, po­trei non mettere affatto il reggiseno... erano anni che non lo faceva più. Le tornarono in mente i vecchi giorni del liceo, quando aveva ancora un seno molto piccolo, e se ne era fatto un problema. Ma la sopraggiunta maturità e la pratica del judo l'avevano portata alla misura trentotto. Comunque pro­vò lo stesso l'abito senza reggiseno, salendo su una sedia in bagno per vedersi nello specchio dell'armadietto.

Il vestito le cadeva a pennello ma, buon Dio, era troppo rischioso. Bastava chinarsi per spegnere una sigaretta o per prendere un bicchiere... e sarebbe stato un disastro.

Una spilla! Poteva indossare il vestito senza reggiseno e chiudere un po' la scollatura. Rovesciò sul letto il contenuto dell'astuccio dei gioielli e sparpagliò le spille, reliquie che conservava da anni, doni di Frank o di altri uomini conosciuti prima del matrimonio, e poi quella nuova che le aveva acqui­stato Joe a Denver. Sì, una piccola spilla d'argento messicana a forma di cavallo poteva andare; individuò il punto esatto in cui metterla. Così avrebbe potuto indossare il vestito, final­mente.

Sono contenta di avere qualcosa, adesso. Tante cose era­no andate storte; e rimaneva così poco dei suoi splendidi pro­getti.

Si pettinò accuratamente i capelli con la spazzola in modo da renderli morbidi e lucenti, e a quel punto le rimase soltanto la scelta delle scarpe e degli orecchini. Alla fine si infilò la pelliccia nuova, prese la borsetta nuova di pelle e uscì.

Invece di prendere la vecchia Studebaker, si fece chiama­re un taxi dal proprietario del motel. Mentre aspettava nel­l'ufficio provò l'improvviso impulso di chiamare Frank. Come le fosse venuta quell'idea non riusciva a capirlo, eppure le era venuta. Perché no? si disse. Poteva fare una telefonata a cari­co del destinatario; lui sarebbe stato ben felice di sentirla e di pagare.

In piedi dietro il banco, tenne il ricevitore accostato al­l'orecchio, ascoltando con piacere gli operatori delle linee in­terurbane che tentavano di stabilire la comunicazione. Sentì la centralinista di San Francisco, lontanissima, che chiedeva il numero all'ufficio informazioni, poi una serie di scariche e scricchiolii, e infine il suono del telefono che squillava. Men­tre aspettava tenne d'occhio l'esterno per vedere se arrivava il taxi; dovrebbe essere qui da un momento all'altro, pensò. Ma non ci farà caso, se dovrà aspettare un po'; i tassisti ci sono abituati.

«L'utente non risponde,» disse alla fine la centralinista di Cheyenne. «Proveremo a ristabilire la comunicazione più tar­di e...»

«No,» disse Juliana, scuotendo la testa. In fondo il suo era solo un capriccio. «Non sarò più qui. Grazie.» Riappese - il proprietario del motel era rimasto nei pressi per accertarsi che non ci fosse per errore qualche addebito a carico suo - e uscì rapidamente dall'ufficio, sul marciapiede buio e freddo, per aspettare là fuori.

Dal traffico emerse un taxi nuovo e rilucente che accostò e si fermò; la portiera si aprì e l'autista si precipitò fuori per farla accomodare.

Poco dopo Juliana era comodamente seduta sul sedile po­steriore del taxi, e attraversava Cheyenne diretta verso l'abi­tazione degli Abendsen.


La casa degli Abendsen era illuminata e lei udì della mu­sica e delle voci. Era una casa a un solo piano decorata a stuc­co, con molti cespugli tutt'intorno e un bel giardino compo­sto prevalentemente da rose rampicanti. Mi trovo davvero qui? si domandò mentre percorreva il sentiero d'ingresso la­stricato in pietra. È questo il Castello? E tutte le storie che raccontano, allora? La casa era semplice, ben tenuta, e il giardino piuttosto curato. C'era perfino un triciclo, sul vialetto di cemento che portava al garage.

Forse era un altro Abendsen, quello sbagliato? L'indiriz­zo lo aveva preso dall'elenco telefonico di Cheyenne, ma coincideva con il numero che aveva chiamato la sera prima da Greeley.

Risalì i gradini fino al portico, con le ringhiere di ferro battuto, e suonò il campanello. Dalla porta semiaperta poteva vedere il soggiorno, con un certo numero di persone in piedi, le veneziane alle finestre, un pianoforte, il caminetto, delle li­brerie... ben ammobiliato, pensò. C'era forse una festa? Però non erano vestiti in modo elegante.

Un ragazzo scapigliato, sui tredici anni, in jeans e ma­glietta, venne a spalancare la porta. «È... la casa del signor Abendsen? È occupato?» lei domandò.

Rivolgendosi a qualcuno dietro di lui, dentro casa, il ra­gazzo gridò: «Mamma, vogliono vedere papà.»

Accanto al ragazzo apparve una donna dai capelli bruno-rossicci, sui trentacinque anni, con occhi grigi e decisi e un sorriso così aperto e spontaneo che Juliana fu sicura di tro­varsi di fronte a Caroline Abendsen.

«Ho chiamato ieri sera,» disse Juliana.

«Oh, sì, certo.» Il sorriso si allargò. Aveva denti bianchi e regolari, perfetti; irlandese, decise Juliana. Solo il sangue ir­landese può conferire alla linea della mascella una tale fem­minilità. «Mi dia pure la borsa e la pelliccia. È capitata al momento giusto; ci sono degli amici. Che vestito adorabile... è della casa Cherubini, vero?» Accompagnò Juliana attraverso il soggiorno fino a una camera da letto dove posò le cose di Juliana sopra il letto insieme alle altre. «Mio marito è qui in­torno, da qualche parte. Cerchi un uomo alto, con gli occhiali, che beve un old-fashioned.» La luce di intelligenza nei suoi occhi si riversò su Juliana; le sue labbra tremarono appena... c'è così tanta comprensione fra noi, si rese conto Juliana. Non è straordinario?

«Ho fatto molta strada per venire qui,» disse Juliana.

«Sì, è vero. Eccolo, l'ho visto.» Caroline Abendsen la guidò di nuovo in soggiorno, verso un gruppetto di uomini. «Caro,» lo chiamò, «vieni qui. C'è una tua lettrice che è mol­to ansiosa di parlarti.»

Dal gruppetto si staccò un uomo, che si avvicinò a lei te­nendo in mano il bicchiere. Juliana vide un uomo altissimo con capelli neri e ricci; anche la sua pelle era scura, e i suoi occhi, dietro le lenti, sembravano viola o castani, comunque di un colore tenue. Indossava un abito in fibra naturale taglia­to a mano, molto costoso, forse di lana inglese; il vestito gli ingrandiva le spalle già robuste ma senza deformarne la figu­ra. In tutta la sua vita lei non aveva mai visto un vestito del genere; si scoprì a fissarlo, affascinata.

«La signora Frink ha fatto tutta la strada da Canon City, Colorado, solo per parlare con te della Cavalletta disse Caroline.

«Credevo che lei vivesse in una fortezza,» disse Juliana.

Piegandosi per guardarla, Hawthorne Abendsen le rivolse un sorriso pensoso. «Sì, una volta era così. Ma per arrivarci dovevamo prendere l'ascensore, e questo ha fatto insorgere in me una fobia. Ero piuttosto ubriaco quando mi successe per la prima volta, ma per quanto ricordo, e per quanto mi hanno riferito, mi sono rifiutato di stare là dentro in piedi per­ché sostenevo che il cavo dell'ascensore veniva tirato da Gesù Cristo in persona, e che noi saremmo arrivati fino in cielo. E io ero fermamente intenzionato a non stare in piedi.»

Lei non capì.

«Da quando lo conosco,» le spiegò Caroline, «Hawth ha sempre affermato che quando finalmente vedrà Gesù Cristo, si metterà a sedere; non rimarrà in piedi.»



L'inno, ricordò Juliana. «E così lei ha rinunciato al Ca­stello e si è trasferito in città,» disse.

«Vorrei offrirle da bere,» disse Hawthorne.

«Va bene,» disse lei. «Ma non un old-fashioned.» Aveva già notato sulla credenza diverse bottiglie di whisky, degli antipasti, bicchieri, ghiaccio, mixer, ciliegie e fettine di aran­cia. Si avvicinò, accompagnata da Abendsen. «Un semplice I.W. Harper con un po' di ghiaccio,» disse. «Mi è sempre pia­ciuto. Lei conosce l'oracolo?»

«No,» rispose Hawthorne, mentre le preparava il drink.

Stupita, Juliana disse: «Il Libro dei Mutamenti!»

«No, non lo conosco,» ripeté lui. Le porse il bicchiere.

«Non prenderla in giro,» osservò Caroline Abendsen.

«Ho letto il suo libro,» disse Juliana. «In effetti ho finito di leggerlo proprio stasera. Come faceva a sapere tutte quelle cose, sull'altro mondo di cui ha parlato?»

Hawthorne non disse nulla; si passò le nocche sul labbro superiore, guardando accigliato al di là della sua interlocutrice.

«Ha usato l'oracolo?» gli chiese Juliana.

Hawthorne la fissò.

«Non voglio scherzi o battute di spirito,» disse Juliana. «Mi risponda senza fare dell'umorismo.»

Mordicchiandosi le labbra, Hawthorne abbassò lo sguar­do a terra; incrociò le braccia e si dondolò avanti e indietro sui talloni. Quasi tutte persone vicine presenti nella stanza erano diventate silenziose, e Juliana si accorse che il loro at­teggiamento era cambiato. Adesso parevano a disagio, a causa di ciò che lei aveva detto. Ma non tentò di rimangiarsi le parole o di correggersi; non voleva fingere. Era troppo im­portante. Non aveva fatto tutta quella strada, né sopportato tutto ciò che aveva sopportato per sentirsi dire qualcosa che non fosse la verità.

«È... una domanda alla quale è difficile rispondere,» disse alla fine Abendsen.

«No, non lo è,» ribatté Juliana.

Adesso tutti nella stanza tacevano; fissavano Juliana, in piedi accanto a Caroline e Hawthorne Abendsen.

«Mi dispiace,» disse Abendsen. «Ma non posso rispon­derle così su due piedi. Questo dovrà accettarlo.»

«Allora perché ha scritto il libro?» gli domandò Juliana.

Indicando con il bicchiere, Abendsen disse: «A che serve quella spilla sul suo vestito? A scacciare i pericolosi spiriti-anima del mondo immutabile? Oppure serve soltanto a tenere insieme il tutto?»

«Perché cambia argomento?» disse Juliana. «Eludendo la mia domanda e facendo un'osservazione inutile come que­sta? È infantile.»

«Ognuno ha dei... segreti tecnici,» disse Hawthorne Abendsen. «Lei ha i suoi, io i miei. Lei deve leggere il mio libro e accettarlo per quello che è il suo valore nominale, così come io accetto ciò che vedo...» Accennò nuovamente verso di lei con il bicchiere. «Senza chiederle se quello che c'è sot­to è autentico, o se è fatto di cavi, stecche e imbottitura di gommapiuma. Non è forse questa, la fiducia nella natura del­le persone e in ciò che si vede in generale?» Adesso sembra­va irritato, innervosito, notò Juliana, non più l'educato padro­ne di casa di prima. E Caroline, si accorse con la coda del­l'occhio, aveva un'espressione tesa, esasperata; stringeva forte le labbra, e non sorrideva più.


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