Roma nella biografia bruniana



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Roma

La Roma di Giordano Bruno è declinata in molti modi, vissuta e narrata nei testi, come del resto altri luoghi della biografia bruniana. Roma ai tempi di Bruno è luogo simbolico, è l’Alma Urbs che rappresenta la culla del cattolicesimo, la sede del papato e della Chiesa romana per i suoi accoliti, ma è anche la meretrice, che ospita l’Anticristo (il pontefice) per i riformati. Roma fu la città dove Bruno si avviò all’apostasia, alla fuga dall’Ordine dei predicatori e dalla Chiesa cattolica (1576) e dove la parabola di un esilio densissimo e travagliato si concluse con la prigionia e il rogo (1593-1600). La presente voce sarà divisa, nei limiti concessi dall’intreccio tra le fonti – non sempre univoche – con il dettato dei testi, in due sezioni: Roma nella biografia bruniana e Roma nelle opere di B.



1. Roma nella biografia bruniana. –– Dalle testimonianze a nostra disposizione emergono tre momenti diversi in cui B. si trattenne a Roma: un rapido soggiorno giovanile di cui non abbiamo se non un termine ante quem, il 1 maggio del 1572, durante il quale B. venne ricevuto da papa Pio V e dal cardinale Scipione Rebiba, per mostrare loro i prodigi della sua ars memoriae; un secondo soggiorno, durante l’inverno del 1576, in cui B. per qualche mese si trattenne nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva per motivi di ordine disciplinare e che si concluse con l’apostasia e la fuga da Roma e, infine, la lunghissima prigionia, successiva all’estradizione veneziana, che trovò esito nella degradazione dagli ordini religiosi, nella condanna per eresia e nella consegna al braccio secolare per la pena capitale.

B. a Roma ante 1572. Spesso vi è una convergenza di fonti (processuali, archivistiche, testuali) che consentono di ricostruire alcuni passaggi della vicenda personale di B. con relativa certezza, tale da consentirci di redigere con buona approssimazione anche una voce enciclopedica, che ha, rispetto alla letteratura specialistica, la funzione di cristallizzare le informazioni e di renderle disponibili a un pubblico vasto. Non è il caso di questo primo soggiorno romano: di tale soggiorno non v’è certezza di tempi, né di modalità, e ci sia consentito aggiungere, di fattibilità. Sul primo passaggio a Roma di B. abbiamo una sola fonte – che lungi da essere una «testimonianza diretta» di B. come affermato altrove [1] – forse è più assimilabile a un relata refero. Guillaume Cotin, interlocutore parigino del nostro autore, riferì nel suo diario di questo episodio della vita giovanile, narratogli da B.: «Jordanus m’a dit qu’il fut appellé de Naples à Rome par le pape Pius V et le cardinal Rebiba, amené en une coche, pour monstrer sa Mémoire artificielle, récita en hébreu à tout endroit le psolme Fundamenta, et enseigna quelque peu de ceste art audit Rebiba» [2]. Cotin raccolse una confidenza di B. e la trascrisse nel suo taccuino, siamo a Parigi, il 21 dicembre del 1585, dunque secondo quanto riferiva Cotin, B., ancora studente nel convento di San Domenico Maggiore di Napoli, sarebbe partito alla volta di Roma per mostrare a papa Pio V, non il suo naturale talento nell’arte della memoria ma, nientemeno, «sa Mémoire artificielle» e avrebbe insegnato i rudimenti di tale disciplina anche al cardinal Rebiba. Nessun altro testimone, neanche lo stesso Bruno farà mai riferimento all’episodio, così come narrato da Cotin, eppure l’eccezionalità di un evento del genere avrebbe meritato almeno un memorandum di fronte agli inquisitori e non solo. B. viceversa ci conferma nella Cabala di aver dedicato a papa Pio V, l’Arca di Noè, uno dei testi perduti del Nolano, un testo di mnemotecnica: «non stimando a voi presentata da me cosa men degna che abbia possuto presentar a papa Pio quinto: a cui consecrai l’Arca di Noè» [3]. Tale viaggio, secondo Spampanato, che con molti altri studiosi considera attendibile la testimonianza di Cotin, si sarebbe verificato nel 1568, data la coincidenza di un permesso di viaggio redatto a nome di B., cui venivano concesse literae patentales per condursi in provincia Lombardiae [4]. Nel 1568 B. si trovava al suo terzo anno di studi in San Domenico Maggiore, alle prese con la dialettica e con la filosofia della natura di Aristotele; una tal impresa poteva solo significare che il provinciale dell’Ordine o il reggente dello studio napoletano avevano sollecitato e incoraggiato tale esibizione coram papae (certo tale incontro non poteva esser nato dall’iniziativa di un giovane professo e tantomeno B. potè incontrare Pio V e il cardinal Scipione Rebiba per caso mentre si recava in Lombardia); significa inoltre che il reggente o altra figura autorevole, si potrebbe dire Ambrogio Salvio, che conosceva papa Ghislieri, aveva consentito a B. l’accesso ai testi sacri in ebraico e soprattutto aveva deciso di affiancarlo a chi conosceva l’ebraico per la lettura e la pronuncia del Salmo; significa pure che Bruno nella sua comunità conventuale godette di tanta stima e fiducia da essere inviato come allievo dotatissimo di fronte al papa; fatto plausibile ma difficilmente conciliabile con i provvedimenti disciplinari e le intemperanze del giovane frate. Di tal incontro con Pio V, B. non fece menzione nei Costituti, la sua è un’omissione di cui non si può non tener conto, se l’episodio si fosse verificato, così come narrato da Cotin, avrebbe potuto avere implicazioni importanti per la vicenda processuale. Lungi dall’esser motivo di reticenza, l’incontro col papa, doveva semmai essere motivo di legittimo orgoglio e poteva esser di vantaggio molto più dei riferimenti a Enrico III e a Elisabetta I, forniti dall’inquisito nel corso degli interrogatori. Ovviamente, leggendo verbatim la testimonianza di Cotin, dovremo pure situare ai primi anni degli studi conventuali, l’elaborazione del sistema memorativo bruniano, così come era strutturato e noto ai tempi del primo e del secondo soggiorno parigino di B. La presenza di B. coram papae a Roma nel 1568 o comunque prima della morte di Pio V, avvenuta nel 1572, lascia margini di dubbio e si può dubitare senza per questo dover riduttivamente attribuire a B. o a Cotin scarsa affidabilità; nella circolarità della comunicazione le aspettative, le intenzioni e le proiezioni dei due interlocutori possono aver prodotto più di un misunderstunding. B. era capace di riconoscere nello sguardo del suo confidente inclinazioni, gusti, desiderata e il religioso curioso e attento aspirava a nouvelles da Roma e dall’Italia, più che da Napoli. Non è un caso che dieci anni di vita conventuale napoletana di B. trovarono pochissimo spazio nel diario del monaco parigino, mentre pochi mesi – se davvero di così poco tempo si trattò – a Roma tanta attenzione. È più probabile che B. avesse dimenticato Napoli, o che Cotin fosse desideroso di notizie romane? Parole, solo parole fu quanto si scambiarono i due. B. non portò in dono per la biblioteca, di cui Cotin era responsabile nell’Abbazia di Saint Victor a Parigi, i suoi libri a stampa, si limitò a parlargliene: «a fait imprimer en italien et latin plusieurs livres, comme l’Exposition sur Ars Lulli, de 30 sigillis […]» [5], poi tornò coi soli testi di mnemotecnica. Si guardò bene dal sottoporre all’attenzione del bibliotecario i dialoghi italiani, pubblicati a Londra, o di donargli il Candelaio. Come vedremo, la Roma narrata da B. e filtrata da Cotin era insieme inquisitoriale e minacciosa, prodiga e ospitale.

Bruno a Roma nel 1576. Ormai quasi trentenne, frate Giordano si recò a Roma dopo il 30 gennaio del 1576 [6], sotto il pontificato di Gregorio XIII. Si era appena concluso l’anno santo, il primo dopo la chiusura del Concilio di Trento e sebbene il papa auspicasse il permanere dello spirito giubilare e rinviasse la chiusura della porta santa, il popolo, le dame e i cavalieri si apprestavano a tornare a feste e balli in occasione del carnevale, che cadeva il 6 di marzo; sembra ingiustificata l’ipotesi che lo spirito giubilare avesse impedito ai romani e ai forestieri presenti in città semel in anno insanire [7]. Il secondo soggiorno romano di B. viene considerato breve ma denso di avvenimenti; stando alla valutazione degli studiosi non andò oltre il declinare della primavera dello stesso 1576. Durante quei pochi mesi romani B. scelse l’apostasia e la fuga; giunse a Roma frate e se ne allontanò apostata; si tolse la cocolla, vestì abiti civili, riprese il suo nome al secolo, Filippo, e forse a piedi, vista la rapidità con cui dovettero precipitare gli eventi e la scarsità di mezzi di cui poteva disporre, si diresse a nord, verso la Liguria. A Roma B. era giunto da Napoli, diretto al convento dei domenicani di Santa Maria Sopra Minerva, lì si era messo sotto la protezione di padre Sisto Fabri da Lucca. Il padre domenicano, come gli altri esponenti autorevoli degli ordini mendicanti, leggeva teologia in ‘Sapienza’, ed era prassi, essendo l’ateneo romano dedicato alla formazione di medici, speziali, notai e avvocati, che disertavano le lezioni di teologia e metafisica, che i maestri della ‘facoltà teologica’, appartenenti agli ordini mendicanti, conducessero con loro in ‘Sapienza’ i confratelli che risiedevano negli studi generali [8]. Non è dunque peregrino pensare che tra i domenicani che seguirono le lezioni di Sisto Fabri allo Studium Urbis, potesse esserci anche frate Giordano, giunto a Roma per emendarsi; bastava percorrere poche decine di metri dal convento di Santa Maria sopra Minerva, attraverso quella che oggi si chiama via della Palombella, per raggiungere le aule della ‘Sapienza’ che davano sulla piazza di Sant’Eustachio. Ma non fu solo Sisto Fabri a insegnare nella ‘Sapienza’ romana, tra gli interlocutori di Bruno che soggiornavano a Roma in quel 1576, va ricordato l’antico maestro, il solo che Bruno riconobbe come tale, l’agostiniano Teofilo da Vairano, che gli aveva insegnato a Napoli la filosofia e che insegnava, con molto successo di pubblico, la metafisica nell’Università dei papi; è da ricordare che è sempre Cotin a registrare nel suo diario che B. considerava Teofilo il suo vero maestro di filosofia e che mentre i due dialogavano nella Parigi della fine del 1585 erano consapevoli che l’agostiniano, confratello di Cotin, era ormai morto. Si ritiene che tale notizia l’abbia portata nella conversazione il nostro B., ma è altrettanto plausibile, visto lo scalpore che fece all’interno dell’ordine agostiniano la morte di Teofilo da Vairano che Cotin ne avesse contezza attraverso altri canali. Nei Costituti veneti B. lascia intendere ai suoi interlocutori che la scelta di sottoporsi a un eventuale giudizio o di chiedere una qualche protezione al procuratore dell’Ordine fosse stata autonoma: «Trovandomi in Roma nel convento della Minerva, sotto l’obedienza de maestro Sisto de Luca, procurator dell’Ordine, dove era andato a presentarmi, perché a Napoli ero stato processato due volte: prima per haver dato via certe figure ed imagine de’ santi […] Il qual processo fu rinovato, nel tempo che io andai a Roma, con altri articuli ch’io non so» [9]. In Napoli si muovevano contro di lui accuse gravi ed era stato istruito un secondo processo a suo carico: «prima ch’io andasse a Roma l’anno 1576, se ben mi riccordo, et che io deposi l’habito et uscì della Religione, il Provinciale fece processo contro di me sopra alcuni articuli, ch’io non so realmente sopra quali articuli, né de che in particular; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di heresia, nel quale si trattava di questa cosa del novitiato et altro. Per il che dubitando di non esser messo preggione, me partì da Napoli» [10]. Come sappiamo, di tali ‘processi’ napoletani non vennero rinvenuti documenti e se ne parlò solo nella misura in cui lo stesso B. ne aveva fatto cenno, ma vennero utilizzati per emettere una sentenza severissima nei confronti di B., definito eretico relapso. Durante il soggiorno romano, da Napoli giunsero presto notizie di libri e letture eterodosse (san Girolamo nell’edizione erasmiana) e Bruno a Roma dovette in qualche modo essere coinvolto in un fatto gravissimo, la morte violenta di un confratello. Della permanenza nel convento romano e delle accuse mosse da Napoli abbiamo conferma dai Costituti veneti, del coinvolgimento nella morte di un confratello abbiamo due testimonianze, quella di Guillaume Cotin, che come abbiamo visto, durante il secondo soggiorno parigino di Bruno (dicembre 1585-febbraio 1586) divenne confidente del filosofo e quella di Giovanni Mocenigo. Cotin riferisce, in brani per noi densissimi, che Bruno lo aveva messo a parte dei motivi che lo avevano indotto a lasciare l’Ordine e a fuggire da Roma, il confidente aveva preso nota non solo dei sospetti di eresia e dei pericoli paventati da Bruno ad essa connessi, ma anche della falsa accusa che gli era stata mossa, di aver gettato nel Tevere un confratello, colui che lo aveva denunciato in Sant’Uffizio: «Est fuitif d’Italie jà par hiuct ans, tant pour un meurtre commis par un sien frèfre, dont il est odieux et en péril de sa vie, que pour éviter les calumnies des inquisiteurs, qui sont ignorans, et, ne concevans sa philosophie, le diroyent héretique» [11]. Il profilo di tale episodio si ‘chiarisce’ meglio nella prima lettera di denuncia scritta da Giovanni Mocenigo, secondo il delatore, Bruno si sarebbe accanito contro un confratello, che a suo parere lo aveva denunciato in Sant’Uffizio, gettandolo nel Tevere, fiume tristemente famoso per accogliere molti morti di morte violenta anche ai tempi di Vico: «M’ha detto d’aver avuto altre volte in Roma querelle a l’inquisizione di cento e trenta articuli, e che se ne fuggì mentre era presentato, perché fu imputato d’aver gettato in Tevere chi l’accusò, o chi credete lui che l’avesse accusato a l’Inquisizione» [12]. Bruno dunque mise a parte di questo episodio sia il Cotin a Parigi, sia Mocenigo a Venezia, la convergenza di due testimonianze dovrebbe indurre a ritenere plausibile tale episodio, ad oggi dalle carte degli archivi romani non è emersa conferma di un fatto di sangue perpetrato nei confronti di un frate domenicano in quel torno di tempo; chiunque fosse il confratello di B. è poco probabile che facesse parte della comunità conventuale romana, dove B. visse pochissimo, è piuttosto verisimile che fosse un confratello giunto da Napoli, da San Domenico, o con B. o successivamente, per testimoniare in merito agli articoli contestati allo stesso B. Ma torniamo alla testimonianza cruciale di Cotin, la filosofia cui accenna il bibliotecario, quella che gli inquisitori ignoranti (domenicani come l’ex frate Giordano) avrebbero considerato eretica, sembra la filosofia Nolana del 1585, quella che B. si accingeva a presentare al Collegio di Cambrai, con le theses discusse dall’allievo Jean Hannequin e non la filosofia romana del 1576. In quell’anno il nodo cruciale doveva essere di carattere dottrinale, legato a controversie sulla trinità e sull’arianesimo, non a un sistema filosofico, se è vero com’è vero che B., varcate le Alpi, non cercò immediatamente Tolosa per insegnare la filosofia ma rivolse i suoi passi verso Ginevra, verso un’altra confessione religiosa, verso un’altra teocrazia. Passato e presente sembrano dialogare nel diario del bibliotecario di Saint Victor e anche quella memoria artificiale che B. avrebbe esposto al Rebiba e a papa Pio V, sembra l’ars memoriae elaborata successivamente alla fuga; dagli appunti di Cotin emerge un passato non remoto (otto anni soltanto da quando B. aveva varcato le Alpi), ma in cui è comunque prematuro situare sia la mnemotecnica bruniana, pubblicata a partire dal De umbris e ancor più una filosofia Nolana, tali da risultare sospette agli inquisitori, ancor prima che fossero vergate su carta. B. percepiva se stesso come un continuum e Cotin lo rappresenta in modo sintonico alla narrazione. Ancora Cotin però accenna anche a un altro episodio che riguarda Roma e il soggiorno del 1576, quello del conseguimento del dottorato, B. avrebbe affermato di averlo conseguito a Roma e non a Napoli, in San Domenico Maggiore, tale testimonianza non ha credito presso la critica e tutti ritengono che B. abbia conseguito i gradi accademici a Napoli. Cotin nella sua nota citava verbatim anche le due theses discusse: «Il est docteur en théologie passé à Rome: en ses positions, qu’il mit pour passer docteur, l’une estoit: Verum est quidquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles; l’autre: Verum est quidquid dicit Magister sententiarum». [13]. Come per l’abboccamento con Pio V e Scipione Rebiba, anche questa testimonianza sul dottorato romano è un coupe de théâtre, ma non rappresenta proprio un unicum nelle testimonianze a nostra disposizione, lo stesso Bruno in una delle sue tappe della peregrinatio europea si era qualificato come «theologiae doctor romanensis», così il 25 luglio 1586 si era immatricolato nell’università di Marburg. Romanensis potrebbe essere considerato sinonimo di appartenente alla Chiesa romana, B. poteva aver deciso di presentarsi come teologo cattolico, ma sarebbe una forzatura leggere così la locuzione, soprattutto in quanto B. stava indicando in un registro universitario il suo titolo di studio; lasciate le vesti di filosofo, a Marburg, B. si presentava come theologus e dichiarava che tale titolo accademico gli era stato conferito a Roma. Laddove non ostino documenti, che registrino l’avvenuto conseguimento a Napoli, da parte di B., dei gradi accademici alla fine del ciclo degli studi formali, il lettore deve tener conto anche di queste testimonianze. Nella cronologia della formazione conventuale di B., Michele Miele situa il conseguimento del titolo di lettore nel luglio del 1575 e ci avverte: «la prestigiosa laurea o dottorato in teologia, [….] quindi era cosa ben diversa dal lettorato, semplice licenza per insegnare» [14]. Se B. alla fine del suo percorso di studi teologici (formali) era in una condizione di sospetto e di conflitto con l’istituzione che lo ospitava e lo doveva promuovere, non si può certo escludere che a B. sia stato impedito di accedere alla discussione finale e che il suo cursus studiorum sia stato sospeso per ragioni disciplinari. Theologus romanensis o Theologus neapolitanus, B. a Roma, per quanto breve poté essere il soggiorno, poté riabbracciare il suo antico maestro di filosofia, che dopo Napoli e Firenze era approdato a Roma e lì insegnava la metafisica, l’agostiniano Teofilo da Vairano. Sicuramente era stato Teofilo, collega del famoso Marc-Antoine Muret, a raccontare a B. degli emolumenti, che a Roma potevano essere elargiti ai letterati dalla munificenza di principi e papi. Teofilo stava insegnando privatamente la filosofia della natura al giovanissimo Ascanio Colonna e, forse malvolentieri, era prossimo a lasciar Roma e la ‘Sapienza’ – dove insegnava amatissimo dagli allievi e la sua Accademia degli Ardenti appena fondata – alla volta della Spagna al seguito del rampollo dei Colonna, figlio di Marcantonio, l’eroe di Lepanto, uomo al quale era impossibile opporre un rifiuto [15]. Tali ricordi emergono ancora nell’affabulazione con Cotin: Teofilo, Muret, i compensi invidiati, ancora passato e presente che forse si fondevano. A Tolosa Bruno avrà saputo che del grande umanista era stata bruciata l’effige; a Roma dal maestro Teofilo aveva saputo che Muret, anche lui alle dipendenze di Colonna (insegnava al nipote Marzio), percepiva un ottimo compenso: «mais ils gaignent à privément enseigner les enfans des seigneurs, comme Muret avoit du cardinal Columna 3.000 scudi de gages pour enseigner son nepveu» [16]. Non era B. che leggeva Roma in maniera ancipite, era Roma che aveva un doppio profilo, severa e austera nelle manifestazioni pubbliche e nel contempo decadente e disincantata [17], se persino un pedagogo pederasta, fuggito dalla pena capitale in Francia, sfuggito all’ira dei nobili veneziani perché insidiava i loro rampolli, aveva potuto trovarvi riparo con onore.

La prigionia e il rogo: 1593-1600. A Roma, frate Giordano tornò in catene il 27 febbraio 1593, qui dopo sette anni di prigionia nelle carceri del Sant’Uffizio, venne degradato dagli ordini religiosi e giustiziato come eretico relapso e impenitente all’alba del 17 febbraio 1600 in Campus Florae. A Roma B. dovette aver guardato durante gli anni dell’esilio; sicuramente nell’autunno del 1585 – appena rientrato da Londra a Parigi – si era rivolto al nunzio pontificio, Girolamo Ragazzoni, per chiedergli di intercedere presso il papa, Sisto V, e consentirgli il rientro in seno al cattolicesimo: «non solamente ragionai con monsignor Nontio del caso mio, ma soggiongo hora che l’ho pregato et ricercato istantemente che ne scrivesse a Roma a Sua Beatitudine, et impetrarmi gratia che fosse ricevuto nel gremio della Chiesa catholica et che non fosse astretto a ritornar nella religion» [18]. Di nuovo a Roma e a papa Clemente VIII, aveva guardato da Venezia, ancora uomo libero. La liberalità del papa, che nel 1592, aveva chiamato a insegnare la filosofia platonica in ‘Sapienza’ Francesco Patrizi, lo aveva incoraggiato a ben sperare: «Quando il Patritio andò a Roma da nostro Signore, disse Giordano: “Questo Papa è un galant’huomo perché favorisce i filosofi e posso ancora io sperare d’essere favorito, e so che il Patritio è filosofo, e che non crede niente”» [19], forse il progetto che aveva custodito durante l’esilio: rientrare in seno al cattolicesimo da letterato e da laico era percorribile. B. affermò nei suoi Costituti di aver parlato persino a un confratello, Domenico da Nocera – che aveva incontrato a Venezia in occasione del capitolo generale dell’Ordine – del suo progetto di dedicare al papa un testo Delle sette arti liberali e di chieder perdono al papa stesso. Il reggente immediatamente interrogato dall’inquisitore confermò quanto affermato da B., il filosofo aveva in mente di: «quetarsi e dare opera a compore un libro che teneva in mente, e quello poi […] appresentarlo a Sua Beatitudine […] e vedere al fine di posserse ristare in Roma, et ivi darsi a l’exercitio licterale e mostrare la sua virtù e di accapare forsi alcuna lectura» [20]. A suo tempo, Sisto V, a detta del nunzio Ragazzoni non sarebbe stato un interlocutore clemente e papa Clemente VIII si sarebbe rivelato particolarmente duro nei confronti del filosofo; prima l’estradizione a Roma pretesa e ottenuta dal cardinal Santori, poi la chiusura del processo, voluta dal cardinal Bellarmino, papa Aldobrandini si adeguò nel tempo ai desiderata e alle decisioni di entrambi. B. cercò fino alla fine, tramite la redazione dei suoi memoriali un contatto diretto con il pontefice, che sicuramente riteneva un interlocutore privilegiato, ma inutilmente. Durante gli anni della prigionia romana non vi sono conferme di un interesse dei filosofi e dei letterati romani nei confronti del Nolano, sebbene Roma pullulasse di telesiani, paracelsiani e non mancavano certo aristotelici materialistici tra i medico-fisici della ‘Sapienza’. Ci limitiamo a segnalare un personaggio di eccezione, tra gli stranieri di passaggio a Roma sul declinare del lungo periodo di detenzione di B., il convertito Matthäus Wacker von Wakenfeld, il consigliere imperiale apprezzava la filosofia della natura di B. e sarebbe stato, proprio in qualità di seguace di Bruno, uno dei protagonisti della Dissertatio cum nuncio sidereo di Kepler (1610); in gioventù, prima della conversione al cattolicesimo era stato pure amico di Philip Sidney, entrambi si erano dottorati a Padova, in tempi diversi e avevano intrattenuto rapporti epistolari [21]. In missione diplomatica, affiancato da un intimo amico alla cui conversione aveva fortemente contribuito – Kaspar Schoppe – Wacker era sceso a Ferrara nel 1598, dove aveva incontrato la corte papale e dopo era giunto a Roma, sempre con Schoppe; quest’ultimo avrebbe accennato all’arrivo a Roma con Wacker in un testo del 1599: «cum Illustriss. Domino Vvackerio Legato Cesario in Romam veni» [22]. Dalla missiva che all’indomani del rogo Schoppe spedì all’amico lontano emerge l’ultimo frammento di un dialogo, che aveva avuto come protagonista Bruno. È molto probabile che i due abbiano, prima a Ferrara, dove c’era anche Bellarmino – che forse per pura coincidenza, appena rientrato a Roma diede un’accelerazione al processo che languiva portandolo al suo epilogo – e poi a Roma, ragionato sul destino di B.; Wacker poteva aver chiesto notizie del processo e aver speso qualche parola di pietà sull’autore di cui conservava i testi nella sua collezione libraria e poi, parlando con l’amico, poteva aver auspicato un esito non infausto. Schoppe dal canto suo, malevolo e trionfale come chi ottiene ragione in un pronostico, lo avrebbe avvisato, quando le ceneri del rogo non erano del tutto spente, che Ille Brunus era diventato un atomo, che era stato accolto nella più nobile tra le famiglie degli atomi e che ormai raccontava, nei suoi infiniti mondi, quello che avveniva nel nostro: «Jordanus ille Brunus […] in atomorum Baronum familiam est adoptatus […] Iam, credo, in mundis illis innumerabilibus et Simonianis nunciabit, quid in hoc nostro rerum geratur». [23]. Sulla topografia romana della condanna e del supplizio rimando alla descrizione di Eugenio Canone, che accompagna Bruno attraverso le vie di Roma dalle carceri di Tor di Nona fino in Campo de’ Fiori [24].

2. Roma nei testi bruniani. –– Le testimonianze finora descritte hanno delineato il polimorfismo romano; nei testi di B. emerge questa dimensione fluxa, quasi liquida della città, rappresentata ora con registro comico, ora con invettiva potente. La Chiesa romana era una chiesa politica, le carriere ecclesiastiche erano carriere politiche, neanche il monaco più sprovveduto avrebbe potuto ignorare il margine di tolleranza e di arbitrio che si celava dietro il formalismo della Chiesa cattolica. B. ne era consapevole, così come lo era delle molteplici contraddizioni che affliggevano la capitale del cattolicesimo, ma una cosa è il giudizio morale, altra la valutazione dottrinale, B. non riuscì mai ad aderire alle chiese riformate, troppo dura, troppo punitiva l’antropologia agostiniana di Lutero e Calvino, troppo vile la condizione umana, troppo svalutati la riflessione filosofica, la responsabilità e l’agire umano. Alla ricerca di una domus nell’Europa spaccata dalla Riforma che aveva gettato «in disquarto le famiglie, cittadi, repubbliche e regni», barcamenandosi tra calvinisti rigorosi come i ginevrini, cattolici zelanti come Enrico III, anglicani disincantati come Elisabetta I, per non tacere dei luterani tolleranti wittemberghesi, B. costruì testi dal registro comico, polemico, austero, maestoso, precettistico, a seconda dei tempi, dei luoghi, dell’ispirazione, della contingenza e della necessità. In alcuni di questi testi torna la Roma dei papi e dei bordelli, «come fussero claustri di professe». Ma non citata in solitaria, quando si parla di ‘puttane’ Roma fa il paio con Napoli e Venezia, «ideste in tutta Italia»: tre città simbolo della penisola, le più rappresentative e che B. conosce bene e di cui ha potuto osservare l’umanità che pullulava nelle strade; così i ladri e i mendichi che affollavano alcuni dei luoghi simbolo delle capitali: «De simili se ne vuoi a Parigi, ne troverai quanti ti piace a la porta del Palazzo; in Napoli a le grade di San Paolo; in Venezia, a Rialto; in Roma, al Campo di Flora». Com’è noto il riferimento al campo di Flora è stato espunto da Bruno in una delle due versioni della Cena, e dunque dalla edizione critica di Giovanni Aquilecchia [25]. Un altro riferimento al luogo in cui B. trovò la morte lo troviamo nel famoso passaggio del De monade su Cecco d’Ascoli, condannato al rogo per magia: «Hinc Ciccus Asculanus […] fuit in patibulum sublatus Romae, in campo Florae» [26]. In realtà il famigerato autore dell’Acerba era stato arso vivo sì e per ordine di un tribunale ecclesiastico ma a Firenze, in un omonimo Campus florae. Come racconta Colucci nelle sue Antichità picene, citando il Mazzucchelli, Cecco d’Ascoli aveva predetto che per evitare la morte doveva evitare due cose «Africo» e «Campo de’ Fiori»; per questo non usciva quando spirava l’africo e non si recava a Roma dove c’era Campo de’ Fiori; quando fu condotto al rogo a Firenze era sicuro di scampare dalla morte finché non scoprì che lì vicino scorreva un fiumiciattolo di nome Africo e quel luogo veniva detto anche Campo di Flora e così capì di essere perduto!

In due contesti il cammino tra Roma e Napoli, tra Napoli e Roma è dipinto come pericoloso o come fonte di guai, nel Candelaio è la traversata del Garigliano verso Roma, compiuta dal leone e dall’asino, i quali per non affogare si tengono fin troppo stretti l’uno a l’altro: all’andata soffre l’asino, ma al ritorno soffre il leone e in modo ben peggiore! Nello Spaccio lo spazio tra Roma e Napoli è descritto come luogo di briganti e terra di nessuno: «Se è tirato da la gola de cadaveri, vadasi rimenando per la Campania, o pur per il camino, che è tra Roma e Napoli, dove son messi in quarti tanti ladroni che, da passo in passo, di carne fresca gli vengono apparecchiati più spessi e sontuosi banchetti che possa ritrovar in altra parte del mondo» [27]. L’esperienza del viaggio per raggiungere Roma, come filtra da questi passaggi, non doveva esser stata priva di timori e soprattutto non solitaria; a conferma di tali pericoli duex italiens confidano a Cotin quanto «tout le chemins, entre Rome et Naples fossero en péril et danger».



Tra i testi di violenta polemica antiromana vi è l’Oratio valedictoria, recitata a Wittemberg l’8 marzo del 1588, dove Leone X era rappresentato come il Cerbero dalle tre teste e Roma come la città infernale circondata dallo Stige, che la avvolgeva per nove volte: «Hîc triplici illa thiara insignem tricipitem illum Cerberum, ex tenebroso eductum orco vidistis vos, et ille solem. Hîc stygius ille canis coactus est aconitum evomere. Hîc vester et vetras Hercules de adamantinis inferni portis, de civitate illa triplici circumdata muro, et quam novies Styx interfusa coërcet, triumphavit» [28]. E ancora nell’Oratio consolatoria, il lupus romanus, il mostro, tornava a delineare il profilo della tirannide papale e a raffigurare la città eterna. Roma era anche tirannide e ignoranza, come non lodare Lutero che l’aveva sbugiardata, l’aveva sconfitta, l’aveva piegata, come non farne un eroe, un Ercole? Ma di fragilità, di ipocrisie, di criticità, oltreché di asprezze dottrinali ve ne erano anche in terra protestante e B. finiva sempre col rivalutare le miserie della sede petrina. In estrema sintesi potremmo dire che di fronte a quel caleidoscopio di comunità, di mentalità, di lingue, di tradizioni culturali e religiose che si manifestarono a B. tra Ginevra e Francoforte, egli avrebbe preferito – come fece – vivere da eretico in terra cattolica, che vivere da eretico in terra riformata. È per la Roma repubblicana, la Roma di antica virtù e impegno civile che vengono spese parole di lode, la romanità precristiana, quella civiltà lodata da Machiavelli nei Discorsi, simbolo di virtù e di religione civile. Anche per B. i Romani costituivano un modello di società civile: «fu tale la lor legge e religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tal è stato lor onore e la felicitade» [29]. È superfluo indicare tutte le occorrenze del lemma Roma, si ricorda invece al lettore che è disponibile a stampa, da tempo, la schedatura dei toponimi e non solo, delle opere latine di B. [30].

Note. [1] G. B. Parole, concetti, immagini, Pisa, 2014, 3 voll., i, 1668. – [2] Spampanato, Vita, ii, 654-655. – [3] Cabala, oib ii 000. – [4] Spampanato, Vita, i, 610. – [5] Ivi, ii, 650. – [6] Ivi, i, 306. – [7] Cfr. G. Fragnito, Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, Bologna, 2013, 000. – [8] C. Carella, L’insegnamento della filosofia alla ‘Sapienza’ nel Seicento. Le cattedre e i maestri, Firenze, 2007, 000. – [9] Firpo, Processo, 000. – [10] Ivi, 000. – [11] Spampanato, Vita, ii, 650-651. – [12] Firpo, Processo, 000. – [13] Spampanato, Vita, ii, 651. – [14] M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di G. B., in G. B. gli anni napoletani e la peregrinatio europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 29-50: 37. – [15] C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, «Bruniana & Campanelliana», xviii, 2012, 2, 405-419. – [16] Spampanato, Vita, ii, 652-653. – [17] C. Carella, Roma filosofica libertina nicodemita. Scienze e censura in età moderna, Lugano 2014. – [18] Firpo, Processo, 196-197. – [19] Ivi, 248. – [20] Ivi, 165. – [21] boeuc 642-643. – [22] K. Schoppe, Epistola, 3. – [23] boeuc 515-521: 521. – [24] E. Canone, L’editto di proibizione, «Bruniana & Campanelliana», i, 1995, 1/2, 43-61. – [25] Cena, bdi 000. – [26] De monade, mmi 000. – [27] Spaccio, oib ii 000. [28] Oratio valedictoria, bol i,i 000. – [29] Spaccio, oib ii 000. – [30] C. Lefons, Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli nelle opere latine di G. B., Firenze, 1998.

Bibliografia.



K. Schoppe, Epistola de veritate […] ad illustrissimum cardinalem Cæsarem Baronium, Romae, 1599; V. Spampanato, Vita di G. B., con documenti editi e inediti, Messina, 1921, 2 voll.; M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di G. B., in G. B. gli anni napoletani e la peregrinatio europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 29-50; E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di B. e Campanella, «Bruniana & Campanelliana», i, 1995, 1/2, 43-61; L. Firpo, Il processo di G. B., a cura di D. Quaglioni, Roma, 1998; C. Lefons, Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli nelle opere latine di G. B., Firenze, 1998; S. Ricci, G. B. nell’Europa del Cinquecento, Roma, 2000; C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, «Bruniana & Campanelliana», xviii, 2012, 2, 405-419; G. B.. Parole, concetti, immagini, direzione scientifica M. Ciliberto, Pisa, 2014, 3 voll.

Candida Carella
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