3. Anthropologia cordis
Le ultime osservazioni hanno già introdotto questo terzo, ultimo momento; qui vorrei solo richiamare alcuni spunti. Il primo riguarda quel Dio alla cui azione creatrice e salvifica ci siamo appena rifatti. Analizzando lo sviluppo storico del discorso su Dio, il teologo Ratzinger vi coglierà un progressivo e significativo impoverimento.70 A suo parere, due dati sono basilari in ogni percezione biblico-cristiana di Dio: la sua unità/unicità e la sua relazione salvifica nei confronti del mondo umano. Ora, mentre l’unità divina ha trovato il suo baluardo nella nozione metafisica di “natura”, l’azione divina di salvezza del mondo umano – in ultima analisi rimandante alla nozione metafisica di “relazione” – non ha conosciuto lo stesso sviluppo. La nozione di “relazione”, al seguito del pensiero di Aristotele, è stata collocata e mantenuta tra gli accidenti.
Il testo di Ratzinger non lascia dubbi al riguardo: «accanto alla sostanza si trova anche il dialogo, la relatio, intesa come forma ugualmente originale dell’essere».71 Questa prospettiva è per lui talmente importante che può osservare: «vi è qui una autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. […]Bisognerà dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall’essere stato eseguito».72
Si può ritrovare la medesima valutazione in K. Hemmerle (+1994) quando osserva che «gli elementi distintivi dello specifico cristiano non hanno rinnovato durevolmente né la precomprensione del senso dell’essere né l’impostazione dell’ontologia nel suo complesso».73 Anche Balthasar (+1988) concorderà con questi giudizi quando, nel quinto volume di Gloria, denuncerà una preoccupante separazione tra l’orizzonte razionale e quello teologico: «se la ragione afferra soltanto l’essere quale suo concetto primo ed illimitato, resta esclusa ogni forma di anticipazione sull’autorivelazione del Dio libero».74
Su un simile pensiero metafisico circa Dio non vi sarebbe spazio per una anthropologia cordis; si può però dire che vi sono fermenti che aprono spazi per un diverso ripensamento della questione di Dio. Qui vorrei richiamare alcune di queste indicazioni.
3.1. Il “pathos” di Dio all’opera in Dio
In questa direzione occorre recuperare l’importanza dei sentimenti in Dio, tradizionalmente letti in termini antropomorfici. Sulla base di una particolare lettura del nome divino JHWH, sarà S.D. Goitein a presentare per primo Dio come l’Appassionato;75 ma toccherà ad Abraham J. Heschel (+1972) mostrare la povertà di un linguaggio costruito sulla impassibilità e chiarire l’importanza che i sentimenti hanno in Dio.76 Studiandone la personalità nelle scritture del profetismo biblico, valorizzerà la presenza della dinamica affettiva dell’agire divino; per farlo, distinguerà tra “pathos” e “passioni” e rivendicherà l’importanza dei sentimenti: «il pathos divino è l’unità dell’eterno e del temporale, del significato e del mistero, del metafisico e dello storico. È la vera base del rapporto tra Dio e l’uomo, della correlazione tra Creatore e creazione, del dialogo tra il Santo di Israele e il suo popolo».77
Il pathos non è, per Heschel, una tempesta emotiva che annulla la visione e le energie della persona come facilmente pensa una concezione incapace di comprendere appieno il carattere storico e processuale del vivere umano; a differenza delle passioni, il “pathos” è la partecipazione dell’intera personalità divina al suo volere: il pathos non disturba ma rinforza l’impegno di realizzazione del disegno di salvezza. Moltmann abbraccerà pienamente questa visione e ne farà il cardine della sua concezione di Dio come Dio del pathos; polemizzando con la presentazione di un Dio apatico, risalirà dalla sofferenza crocifissa, rivelatrice del pathos divino, alla storia trinitaria di Dio come l’unica in grado di rendere pienamente ragione all’agire salvifico di Dio: «alle “opera trinitatis ad extra” rispondono fin dalla creazione del mondo le “passiones trinitatis ad intra”»78. Ne verrà una sottolineatura della storia della salvezza come unica, vera chiave per la comprensione di Dio79 e Moltmann approderà così ad una concezione trinitaria del Dio crocifisso.
3.2. Il tema del perdono e della riconciliazione nell’agire divino
Il tema del perdono e della riconciliazione, tradizionale nella teologia cristiana, è largamente rimasto nell’ambito sacramentale e morale: esprimeva la gestione della coscienza peccatrice ed il suo rinnovamento per mezzo del sacramento della riconciliazione. Molti avvenimenti dolorosi della nostra storia umana hanno riproposto una diversa attualità di questa tematica; basta pensare alla shoah e alla teologia dopo Auschwitz,80 alla pulizia etnica della ex-Jugoslavia, al genocidio del Rwanda tra hutu e tutsi e ad altre simili tragedie. Sulla scorta di queste drammatiche esperienze, le scienze umane sono tornate ad interessarsi di questi temi ed a farlo in ordine alla persona umana: la riconciliazione ed il perdono sono tornati ad interessare e sono emersi ambiti di studio diversi da quelli etico-sacramentali.
Il punto di partenza è che la storia della salvezza è storia di perdono e di riconciliazione; come ha ben spiegato il magistero dei papi,81 entrare nell’amore di Dio per chi soffre e per chi – peccatore – si pente, è entrare in una logica di gratuità, riconciliazione e perdono. Non si tratta di giustificare la totalità della realtà e della storia ma di percepire la forza rinnovante che Dio introduce nell’umanità superando la logica del debito e la magra consolazione dell’oblio.82 In ogni caso il perdono e l’oblio non viaggiano di pari passo.
La base biblica di questa azione divina di riconciliazione e perdono è chiara: Dio resta fedele al suo popolo anche quando questi gli è infedele. Il cuore di questa riconciliazione resta quindi l’amore fedele di Dio per l’umanità; anche quando il perdono divino è associato a riti umani di purificazione o a sacrifici di espiazione, al centro resta l’agire divino; anche quando il peccato è presentato come una macchia, non è in potere dell’uomo il farlo scomparire. Certo l’agire divino di riconciliazione comprende il pentimento umano, l’umana conversione e l’impegno per una vita giusta ma questo è solo la risposta all’agire salvifico divino, non il suo interiore criterio. Ad operare la riconciliazione resta sempre Dio e non la persona umana. A questa azione divina è sacramentalmente e spiritualmente legato il ministero della Chiesa.
In un contesto di anthropologia cordis, a noi interessa il dato culturale di rivalutazione del perdono come riscoperta della forza rinnovatrice che la persona capace di gratuità e solidarietà va oggi riscoprendo. Il quadro è quello di una libertà incatenata ad un passato ormai avvenuto e non più modificabile e posta di fronte ad un futuro imprevedibile e, di conseguenza, non anticipabile. La riconciliazione capovolge questo stato di cose: libera le persone dal loro passato e, sulla base della promessa divina, apre loro la strada di un futuro diverso. In qualche modo, la riconciliazione riporta la persona alla sua condizione di apertura a molteplici possibilità: gli restituisce la capacità di reimpostare la convivenza con altri.
L’autore che, a mio parere, ha offerto in proposito il contributo più alto resta V. Jankélévitch. Analizzando il perdono, questo autore distingue tra il fatto morale e l’offesa personale; il fatto morale resta e la sua presenza richiama il peccato e rende ragione alla giustizia ed al suo valore nella storia umana ma, attraverso la follia del perdono, gli aspetti personali vengono per così dire scongelati e riportati a nuove possibilità di vita.83 Certo il perdono va oltre la pura giustizia; non solo non cerca la vendetta ma, valorizzando gli aspetti non-giudiziari del rapporto con Dio e tra le persone, scommette sulla forza del bene anche per chi ha sbagliato.
In questo la riconciliazione appare una realtà complessa in cui la persona, alla scuola di Dio, impara a confidare nella forza del bene e, pur rispettando la giustizia ed esigendola nella dimensione del pentimento, traduce la dura scuola della sofferenza in un atto di fiducia in Dio e di confidenza nella sua capacità di toccare il cuore umano. Per il suo carattere extra-giuridico, il perdono non può essere esigito: può solo essere donato come singolare confidenza nella forza dell’amore. Nemmeno il perdono però puo cancellare il fatto del peccato: il peccato resta.
3.3. La riscoperta della misericordia - compassio
L’ultima indicazione della riscoperta di una Anthropologia cordis è la ripresa della misericordia, una virtù-chiave della nostra tematica; sulla misericordia va oggi crescendo un grande interesse.84 Il tema della misericordia non è più ormai un tema di pura spiritualità cristiana. Come mostra il lavoro curato da Horst Groschopp,85 la misericordia è declinabile anche nelle dinamiche tipiche della dignità umana e, conseguentemente, dei diritti umani; in una situazione di disumanità, l’impegno umanistico si trova a dover affrontare con misericordia non solo i tradizionali ambiti educativi del mondo infantile e giovanile ma anche le complesse realtà degli anziani, delle devianze, degli emarginati, degli hospices con persone terminali e via dicendo.
Sotto la spinta del buddismo, inoltre, la misericordia o “compassione” è diventata un tema decisivo del dialogo interreligioso e della nascente teologia del terzo mondo; basta pensare alla teologia minjung della Corea.86 In questa prospettiva la storia di sofferenza e di alienazione di alcuni gruppi e di alcuni popoli è vista come emblematica dell’intera condizione umana, come svelamento della condizione di dolore e di sofferenza che appartiene ad ogni vita e ad ogni epoca umana. In dialogo con questa realtà, si fa strada un sapere teologico lontano dai dogmi ma capace di raccontare la storia di Gesù come criterio biografico e dialogico di quelle vicende che la moltitudine sta vivendo; in questo non abbiamo una ripresa del cristianesimo occidentale ma l’affacciarsi di una religione politica suscitata dalla speranza incarnata da Gesù.
In modo nitido, W. Kasper ha legato la dimenticanza della misericordia e la sua trattazione matrignesca alla tradizionale concezione metafisica di Dio ed alla visione di un Dio-giudice: la critica che scaturisce facile nei confronti di questa pseudo-misericordia, è legata al fatto che non si integra con la giustizia, sia pure sorpassandola, ma semplicemente la nega. La misericordia – scriverà Kasper – «va concepita come la giustizia specifica di Dio e come la sua santità»;87 da essa deriva un nuovo modo, liberante e giustificante, di parlare di Dio. Non meraviglia perciò che J.B. Metz abbia fatto della compassione il programma mondiale del cristianesimo in un’epoca pluralista.88 Su un simile sfondo, si può ben dire che la misericordia è il centro di una “anthropologia cordis” e che, al tempo stesso, è il programma di una pastorale rinnovata.
In proposito vorrei solo aggiungere due osservazioni. Prendo la prima dal citato lavoro di Kasper quando confronta due figure di discepoli come due modi di rapportarsi a questo vangelo d’amore. I due discepoli sono Giovanni che, stando al testo di Gv 13,25, reclina il proprio capo sul cuore di Gesù e Tommaso che al contrario, sempre secondo Gv 20,25, si rifiuta di credere. Confrontando queste due figure, Kasper osserva che è la fede, solo la fede, ad introdurre entrambi ad un rapporto diretto con Colui che è la sorgente della nostra vita e della nostra pace.89 È facile condividere una simile conclusione, a patto di ricordare che si tratta di una fede testimoniale, di una fede incastonata in una vita che la rende presente e la vive.
La seconda osservazione riguarda l’importanza e la crisi dello stato sociale, il più grande sforzo moderno di accogliere e sostenere le persone in difficoltà. Senza entrare in tematiche sociali ed in questioni legislative, vorrei solo sottolineare che non è possibile nessuna valorizzazione della misericordia senza una previa cultura della misericordia. L’attuale riduzione economica della vita sociale e politica ha portato ad una riduzione culturale dell’umano: non sappiamo affrontare e collocare in un quadro umano o la sofferenza e l’errore. Solo un’anthropologia cordis, in grado di declinare insieme misericordia e giustizia, diritto e perdono, sofferenza e speranza, potrà diventare fonte di ispirazione e di trasformazione di questa società.
L’anthropologia cordis appare così la certezza ed il conseguente impegno che il permanere e la vitalità dell’umano esige anche in un’epoca di grandi cambiamenti come la nostra; la metamorfosi dell’antropologico non segna la fine e la morte dell’umano ma solo l’inizio di un suo profondo ripensamento.
Gianni Colzani
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