I rivoluzionari
La questione vietnamita apparve relativamente tardi nella pubblicistica italiana della sinistra radicale, soprattutto in quella che all’inizio degli anni ’60 tentava di affrancarsi dall’egemonia del Pci. Nel 1962-63 – quando ebbero luogo alcune delle azioni più significative del confronto militare e politico tra il Fronte di liberazione nazionale del Vietnam meridionale e il regime di Ngo Dinh Diem spalleggiato dagli americani – i Quaderni Piacentini, una pubblicazione interessante e provocatoria dell’epoca, destinata a diventare un culto negli ambienti politici e culturali di quella che sarebbe stata definita la nuova sinistra italiana, non ospitarono pressoché nulla sull’Asia. La Cina e il Terzo Mondo apparvero in una breve nota di Franco Fortini, “Le chinois ça s’apprend”, del 1962, e nello stesso anno Sergio Spazzali richiamava alla sinistra la questione dei movimenti di liberazione, citando per la prima volta l’Indocina e facendo peraltro uso di un luogo della geografia politica ancora legato al passato coloniale. Se i temi “terzomondisti” ricorrevano sporadicamente, solo all’inizio del 1964 la guerriglia vietnamita irruppe veramente nelle pagine di Quaderni Piacentini, con la pubblicazione di alcune “lettere di partigiani” sud-vietnamiti: si trattava dell’anticipazione di un’antologia di Lettere dal Sud Vietnam che le Edizioni Oriente avrebbero diffuso di lì a poco. Una presenza ancora fugace, se nel corso dell’intero 1965 su Quaderni Piacentini venne riservata al Vietnam soltanto la segnalazione di un Quaderno delle Edizioni Oriente con un articolo di un esponente vietnamita. In realtà, soltanto nel 1966, quando ormai le vicende belliche nel Vietnam del sud stavano assumendo un eccezionale rilievo internazionale, i Quaderni Piacentini fornirono un’analisi più dettagliata e approfondita del conflitto.
Sul numero del settembre 1966, infatti, Renato Solmi curò una rassegna di testi riguardanti da un lato “Il dibattito americano sul Vietnam”, dall’altro i caratteri di quella che iniziava ad essere definita la “rivoluzione vietnamita”. Nel primo caso, i materiali originari erano stati editi dal Mulino e concernevano le discussioni sulla guerra in seno alla Commissione d’inchiesta del Senato americano; discussioni rilevanti, poiché in quella sede emersero le prime obiezioni parlamentari all’intervento deciso dal presidente Johnson nel 1964. Nel secondo, invece, apparve per la prima volta un’analisi dettagliata dell’esperienza rivoluzionaria vietnamita. Non si trattava però di un’analisi autonoma e originale, ma di un’ampia esposizione degli argomenti elaborati da uno studioso marxista di origine pakistana, Eqbal Ahmad.
Ben più originale era stato invece il contributo di una valente sinologa, Edoarda Masi, che nel 1965 aveva pubblicato su Quaderni Rossi (il periodico torinese fondato da Raniero Panzieri) “Rivoluzione nel Viet-nam e movimento operaio occidentale”. Questo saggio (edito da Einaudi nel 1968, con lo stesso titolo ma profondamente rimaneggiato e ampliato) avrebbe influenzato profondamente il dibattito sul significato della rivoluzione vietnamita. Nella posizione di Edoarda Masi tendevano a prevalere le considerazioni generali, teoriche, che vedevano nella rivoluzione vietnamita il segno della contestazione dell’ordine capitalistico mondiale e un messaggio volto ad adeguare la strategia del movimento operaio internazionale e soprattutto europeo. La sinologa romana, innanzi tutto, collocava la resistenza vietnamita nell’ambito dello scontro tra capitalismo e socialismo, togliendo ogni specificità alle varie aree del mondo: il sistema capitalistico era ritenuto “globale” e i paesi sottosviluppati non potevano essere intesi come “altro” rispetto al mondo capitalistico sviluppato e avanzato.
«Le lotte rivoluzionarie attualmente in corso nelle aree “depresse” del capitalismo – scriveva Edoarda Masi – vengono recepite dal capitalismo come espansione del socialismo … L’incapacità da parte degli Stati Uniti di tollerare la perdita del Viet-nam o di Santo Domingo si spiega come consapevolezza che si tratterebbe della perdita di aree che sono parte integrante del sistema capitalistico … Perdita del Viet-nam significa in prospettiva perdita di altre zone, sottosviluppate o sviluppate che siano». Si trattava dell’accoglimento, speculare e apparentemente involontario, della teoria americana del domino.
Il legame tra Vietnam e movimento operaio occidentale era sempre esplicito. «L’incapacità della sinistra europea di combattere efficacemente la politica criminale degli Usa nel Viet-nam e l’incapacità di guidare in Europa la lotta di classe sono effetto delle stesse cause, cioè del cedimento di fronte alle ideologie del capitalismo e dell’incapacità di riconoscerli tali». Edoarda Masi avanzava un giudizio netto e reciso, che accomunava sia i partiti tradizionali del movimento operaio, sia i più magmatici e minoritari movimenti della nuova sinistra. Anche questi, come tutti, sembravano poi implicitamente accettare alcuni assunti di base di quella che all’epoca era definita la “società tecnologica”, la cui razionalità disumana pareva esercitare un dominio pressoché assoluto. Poiché nei paesi economicamente avanzati non sussistevano più le basi materiali della rivolta, questa, nella misura in cui si esprimeva, tendeva ad assumere i connotati irrazionali e nichilisti della protesta per la protesta, in ogni caso e a qualsiasi costo, spesso rendendosi disponibile ad alimentare il mito rivoluzionario e violento del Terzo Mondo. In questa protesta estrema, ma esistenziale, per Edoarda Masi avevano le proprie radici «molti entusiasmi castristi, guevaristi e anche filocinesi».
Nel 1967, con un editoriale dal titolo “Il Vietnam e noi”, il gruppo d’intellettuali che animava i Quaderni Piacentini colse (o riprese) gli elementi di novità presenti nell’analisi di Edoarda Masi: la questione vietnamita iniziava a diventare parte di un discorso politico “rivoluzionario”, in seno a un contesto non più povero e arretrato, ma avanzato e ricco. Non si trattava più di solidarizzare con la lotta per l’emancipazione degli esclusi e dei colonizzati, ma di ritenere attuale e impellente la rivoluzione sociale nell’Occidente capitalistico, cinquanta anni dopo l’Ottobre bolscevico (e la sconfitta dei tentativi rivoluzionari nell’Europa dei primi anni ’20). In questo senso, i vietnamiti vennero visti come «il reparto più avanzato della lotta internazionale anticapitalistica». Non a caso, e in evidente polemica con chi a sinistra e nelle fila del Partito comunista solidarizzava con la resistenza vietnamita senza pretendere di imitarne strategia e tattica di lotta, la questione dell’unità era intesa in termini severamente restrittivi per non «offuscare e distruggere il senso stesso della lotta che i vietnamiti conducono». La chiave di lettura della questione vietnamita, ormai, era posta in relazione alle vicende che stavano lacerando il movimento comunista internazionale, e innanzi tutto al contenzioso cino-sovietico. I vietnamiti, infatti, per gli animatori dei Quaderni Piacentini non soltanto si opponevano alla penetrazione americana, ma rifiutavano anche e forse soprattutto «l’inserimento nel sistema coesistenziale». Questi temi, peraltro, sottendevano innanzi tutto un’omogeneità di condizioni rivoluzionarie in vaste aree del mondo ex coloniale (o ancora coloniale) oltre che in Occidente, e in un quaderno speciale sull’America latina curato dalle redazioni di Quaderni Rossi e di Classe e stato, oltre che di Quaderni Piacentini, venne inclusa una rilevante sezione su “Cina, Cuba, Vietnam” che rivendicava la costruzione di una strategia alternativa del movimento comunista internazionale in chiave antisovietica. Elementi di rilievo di questa proposta, che appariva sostanzialmente velleitaria, erano innanzi tutto l’adesione ad una “analisi di classe” mutuata dall’esperienza maoista e fondata sulla preminenza delle masse contadine e della strategia della guerriglia; in secondo luogo veniva enfatizzata la radicalità della contrapposizione tra l’imperialismo e le forze della rivoluzione socialista; e infine si rivendicava la certezza di poter esportare e moltiplicare le rivoluzioni.
Alla fine del 1967, mentre stavano montando in Italia e in Europa occidentale le condizioni di un vasto sommovimento sociale e culturale destinato a incrinare anche gli equilibri politici nazionali, Quaderni Piacentini ospitò nelle sue pagine un documento elaborato dalla redazione di Quaderni Rossi – “Il Vietnam e la situazione internazionale” – e destinato alla discussione in ambito studentesco. Ritornava la teoria del Vietnam come “banco di prova” di nuove esperienze rivoluzionarie: sull’onda di proteste che vedevano protagonisti soprattutto ambienti giovanili e studenteschi, ampiamente suscitate dalla mobilitazione messa in atto dal Partito comunista e da settori socialisti, ma non sempre controllate con efficacia, gli esponenti radicali che gravitavano intorno a Quaderni Piacentini e a Quaderni Rossi ritenevano che il Vietnam potesse catalizzare forze e posizioni politiche a sinistra del tradizionale movimento operaio italiano, e in polemica con esso.
Queste posizioni saranno enfatizzate, e in un certo senso drammatizzate, dal manifestarsi nel corso del 1967 e 1968 di nuove tensioni sociali; tensioni per molti aspetti originali, legate com’erano ad ambiti studenteschi e giovanili fino allora non autonomi né attivi politicamente. Anche adottando le particolari prospettive di una pubblicazione come Quindici (un bimestrale nato dall’esperienza intellettuale del Gruppo 63 e legato ad esponenti dell’avanguardia letteraria e della critica come Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi e poi, tra altri, Balestrini, Arbasino, Eco), la questione vietnamita appariva di capitale importanza nel contesto di quel ribellismo giovanile che esaltava il maggio francese e l’Sds americano, gli studenti di Berlino ovest e Che Guevara, Mao e Cuba. Un esponente del movimento studentesco romano, e futuro fondatore di “Potere operaio”, Oreste Scalzone, scriveva diffusamente di “logica rivoluzionaria”, trovando il modo di collocare la guerra del Vietnam all’interno del suo discorso sulla ribellione. «C’è stato il Vietnam a fare da catalizzatore, e a far capire che il meccanismo non è invincibile né metastorico, a costituire un esempio della possibilità per l’uomo di ribellarsi alla macchina dell’imperialismo e di batterla». Più di un’analisi storico-politica, parrebbe trattarsi proprio di quella forma d’entusiasmo estremo, venato di soggettivismo e di nichilismo e destinato ad alimentare la protesta per la protesta di cui negli stessi mesi scriveva Edoarda Masi.
Solo nell’agosto del 1969, Quindici ritornava a parlare di Vietnam, ospitando un lungo e articolato saggio di uno studioso radicale americano, Gabriel Kolko.
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