Margaret atwood



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Cercai di parlarle. Cominciai gentilmente, ma non era dell'umore giusto

per ascoltare. Disse che era stanca di tutti noi. Più di tutto era stanca della

sensazione che le cose le fossero tenute nascoste. La famiglia aveva nasco-

sto tutto; nessuno voleva dirle la verità; le nostre bocche si aprivano e si

chiudevano e ne uscivano parole, ma non erano parole che avessero un

senso.


Ma in ogni modo aveva capito tutto. Era stata rapinata, era stata privata

dell'eredità, perché io non ero la sua vera madre e Richard non era stato il

suo vero padre. Era scritto tutto nel libro di Laura, disse.

Le chiesi cosa mai volesse dire. Rispose che era ovvio: la sua vera ma-

dre era Laura, e il suo vero padre era quell'uomo, quello nell'Assassino cie-

co. La zia Laura era stata innamorata di lui, ma noi l'avevamo ostacolata e

liquidato in qualche modo questo amante sconosciuto. Lo avevamo caccia-

to spaventandolo, comprandolo, in qualsiasi modo; aveva vissuto nella ca-

sa di Winifred abbastanza a lungo per vedere come venivano sistemate le

cose dalla gente come noi. Allora, quando venne fuori che Laura era incin-

ta di lui, l'avevamo mandata via per nascondere lo scandalo, e quando la

mia bambina era morta al momento della nascita, avevamo rubato la figlia

di Laura, l'avevamo adottata e l'avevamo fatta passare per nostra.

Non era affatto lucida, ma il succo era questo. Capisci bene quale attrat-

tiva esercitasse su di lei questa fantasia: chi non avrebbe voluto avere per

madre un essere mitico, invece del tipo reale, trito? Avendo la possibilità.

Dissi che si sbagliava di grosso, aveva fatto una gran confusione, ma

non mi diede ascolto. Non c'era da stupirsi che non si fosse mai sentita fe-

lice con Richard e me, disse. Non ci eravamo mai comportati come i suoi

veri genitori, perché in effetti non eravamo i suoi veri genitori. E non c'era

da stupirsi che la zia Laura si fosse gettata giù da un ponte - lo aveva fatto

perché le avevamo spezzato il cuore. Probabilmente aveva lasciato un bi-

glietto per lei in cui spiegava tutto, perché lo leggesse quando fosse stata

più grande, ma Richard e io dovevamo averlo distrutto.

Non c'era da stupirsi che io fossi stata una madre così terribile, continuò.

Non le avevo mai voluto bene davvero. In caso contrario, l'avrei messa da-

vanti a tutto il resto. Avrei tenuto conto dei suoi sentimenti. Non avrei la-

sciato Richard.

«Posso anche non essere stata una madre perfetta» dissi. «Sono disposta

ad ammetterlo, ma ho fatto del mio meglio, date le circostanze - circostan-

ze di cui tu in realtà sai molto poco». Che pensava di fare con Sabrina?

continuai. Di lasciarla andare in giro così fuori di casa senza vestiti addos-

so, sporca come una mendicante? Quella era incuria, la bambina poteva

sparire da un momento all'altro, i bambini sparivano in continuazione. Io

ero la nonna di Sabrina, sarei stata più che disposta a prenderla con me, e...

«Tu non sei sua nonna» disse Aimee. Ormai piangeva. «Lo è la zia Lau-

ra. O lo era. È morta, e sei stata tu a ucciderla!»

«Non fare la stupida» dissi. Questa era la reazione sbagliata: con quanta

più veemenza si negano certe cose, più vengono credute. Ma spesso si rea-

gisce in modo sbagliato quando si è spaventati, e Aimee mi aveva spaven-

tata.

Quando dissi la parola stupida, cominciò a gridarmi contro. Ero io la



stupida, disse. Ero pericolosamente stupida, ero talmente stupida da non

sapere neanche quanto fossi stupida. Usò una quantità di parole che non

starò a ripetere qui, poi prese la tazza di caffè con la faccia gialla sorriden-

te e me la scagliò contro. Quindi mi si avvicinò, vacillando; piangeva for-

te, grandi singhiozzi strazianti. Aveva le braccia aperte in maniera minac-

ciosa, credetti. Ero turbata, scossa. Indietreggiai, afferrando la ringhiera,

schivando altri oggetti - una scarpa, un piattino. Quando arrivai al portone,

fuggii.


Forse avrei dovuto tendere le braccia. Avrei dovuto stringerla a me. A-

vrei dovuto piangere. Poi mi sarei dovuta sedere insieme a lei e raccontarle

la storia che ti sto raccontando. Ma non lo feci. Mi lasciai sfuggire l'occa-

sione, e me ne pento amaramente.

Fu solo tre settimane più tardi che Aimee cadde giù dalle scale. Piansi la

sua morte, naturalmente. Era mia figlia. Ma devo ammettere che piansi la

persona che era stata a un'età molto più verde. Piansi ciò che sarebbe potu-

ta diventare; piansi le sue possibilità perdute. Più di ogni altra cosa, piansi

i miei fallimenti.

Dopo la morte di Aimee, Winifred mise le sue grinfie su Sabrina. Chi ar-

riva prima ha la legge dalla sua, e lei non perse tempo. Portò in fretta e fu-

ria Sabrina alla sua residenza di Rosedale, che era stata rimessa a nuovo, e

in un batter d'occhio ottenne la nomina a tutrice ufficiale. Presi in conside-

razione l'idea di lottare, ma sarebbe stata soltanto una ripetizione della bat-

taglia per Aimee - ero condannata a perdere.

Quando Sabrina fu affidata a Winifred, io non avevo ancora sessant'an-

ni; allora potevo ancora guidare. Di tanto in tanto facevo una scappata a

Toronto e seguivo Sabrina come un'ombra, come un investigatore privato

in un vecchio poliziesco. Gironzolavo attorno alla sua nuova scuola ele-

mentare, la sua nuova, esclusiva scuola elementare - solo per darle un'oc-

chiata, e per assicurarmi che, nonostante tutto, stava bene.

Ero da Eaton, per esempio, la mattina in cui Winifred la portò in quel

grande magazzino per comprarle delle scarpe eleganti, pochi mesi dopo es-

sersela accaparrata. Senza dubbio gli altri vestiti di Sabrina li comprava

senza consultarla - sarebbe stato nel suo stile -, ma le scarpe avevano biso-

gno di essere provate, e per qualche ragione Winifred non aveva affidato

quel noioso compito al personale di servizio.

Era il periodo natalizio - le colonne nel magazzino erano ornate di finto

agrifoglio, ghirlande con pigne verniciate d'oro e nastri di velluto rosso e-

rano appese sulle porte come aureole spinose - e Winifred rimase bloccata

dai canti natalizi, con suo grande fastidio. Io ero nel corridoio accanto. Il

mio guardaroba non era più quello di una volta - indossavo un vecchio

cappotto di tweed e un fazzoletto tirato giù sulla fronte - e sebbene guar-

dasse dritta verso di me, non mi vide. Probabilmente quella che vide fu

una signora delle pulizie, o un'immigrante in cerca di occasioni.

Era tutta agghindata come al solito, ma nonostante ciò sembrava piutto-

sto malandata. Be', doveva essere vicina ai settanta, e dopo una certa età il

suo tipo di trucco tende a farti sembrare mummificata. Non avrebbe dovu-

to continuare a mettere il rossetto arancione, stonava troppo su di lei.

Potevo vedere i solchi incipriati dell'esasperazione tra le sue so-

pracciglia, i muscoli serrati della mascella coperta di fard. Stava trascinan-

do via Sabrina per un braccio, cercando di aprirsi la strada attraverso il co-

ro di clienti, voluminosi nei vestiti invernali; doveva odiare il tono entusia-

sta e giocondo del canto.

Sabrina d'altra parte voleva sentire la musica. Tirava verso il basso, tra-

sformandosi in un peso morto, come fanno i bambini - fanno resistenza

senza darlo a vedere. Il suo braccio era ben alzato, come se lei fosse una

brava bambina che vuole rispondere a una domanda a scuola, ma aveva un

cipiglio da diavoletto. Doveva fare male, quello che stava facendo. Prende-

re posizione, muovere una protesta. Fare resistenza.

La canzone era Il buon re Venceslao. Sabrina conosceva le parole: vede-

vo la sua piccola bocca che si muoveva. «La luna splendeva luminosa

quella notte, nonostante il terribile gelo» cantava. «Quando un pover'uomo

apparve, raccogliendo legna per l'inve-e-erno».

È una canzone sulla fame. Ero sicura che Sabrina la capisse - doveva ri-

cordarsela ancora, la fame. Winifred le diede uno strattone al braccio e si

guardò attorno nervosa. Non mi vide, ma avvertì la mia presenza, come

una mucca in un campo ben recintato avverte la presenza di un lupo. È tut-

tavia, le mucche non sono come gli animali selvatici; sono abituate a sen-

tirsi protette. Winifred era ombrosa, ma non spaventata. Seppure le attra-

versai la mente, mi pensò senza dubbio come a qualcuno che si trovava in

un luogo molto lontano, grazie al cielo fuori di vista, nell'oscurità esterna

in cui mi aveva relegata.

In quell'istante ebbi il prepotente impulso di afferrare Sabrina tra le

braccia e di fuggire insieme a lei. Immaginavo il pianto tremulo di Wini-

fred mentre mi facevo strada a forza tra gli imperturbabili esecutori di can-

ti natalizi, che strepitavano giulivi a proposito del tempo inclemente.

L'avrei tenuta stretta, non avrei inciampato, non l'avrei lasciata cadere.

Ma non sarei neanche andata lontano. Mi sarebbero stati alle costole in

men che non si dica.

Allora uscii in strada da sola, e camminai, camminai, la testa bassa, il

colletto sollevato, lungo i marciapiedi del centro. Il vento si stava alzando

dal lago, e la neve cadeva turbinando. Era giorno, ma a causa delle nuvole

basse e della neve la luce era fioca; le macchine avanzavano lentamente a

sbalzi lungo le strade spopolate, vedevo i loro fanalini di coda rossi allon-

tanarsi come occhi di bestie gobbe che corressero all'indietro.

Stringevo un pacchetto - ho dimenticato cosa avessi comprato - ed ero

senza guanti. Dovevo averli fatti cadere nel grande magazzino, tra i piedi

della folla. Ne sentivo a malapena la mancanza. Una volta potevo cammi-

nare attraverso le tormente di neve a mani nude senza neanche accorger-

mene. È l'amore o l'odio o il terrore, o semplicemente la rabbia, che ci con-

sente di farlo.

Un tempo facevo sempre un sogno a occhi aperti su me stessa - lo faccio

ancora, a dire il vero. Un sogno a occhi aperti abbastanza ridicolo, sebbene

spesso sia attraverso certe immagini che plasmiamo i nostri destini. (Avrai

notato quanto scivoli facilmente nel linguaggio ampolloso come plasmia-

mo i nostri destini, una volta che parto per la tangente. Ma non importa).

In questo sogno a occhi aperti Winifred e le sue amiche, con ghirlande di

denaro sulla testa, sono riunite intorno al letto bianco ornato di gale di Sa-

brina mentre lei dorme, discutendo su cosa le doneranno. Ha già ricevuto

la coppa d'argento incisa di Birks, la carta da parati per la sua stanza con il

fregio raffigurante orsi addomesticati, le prime perle per la sua collana a un

filo, e tutti gli altri doni d'oro, perfettamente comme il faut, che si trasfor-

meranno in carbone al sorgere del sole. Ora stanno programmando l'orto-

dontista e le lezioni di tennis e le lezioni di piano e le lezioni di danza e l'e-

sclusivo campo estivo. Che speranze ha?

In quel momento io appaio in un lampo di luce sulfurea e uno sbuffo di

fumo e uno sbattere di fuligginose ali di cuoio, la madrina pecora nera non

invitata. Voglio consegnare un dono, grido. Ne ho il diritto!

Winifred e la sua combriccola ridono e mi indicano. Tu? Tu sei stata

bandita molto tempo fa! Ti sei guardata in uno specchio ultimamente? Ti

sei lasciata andare, dimostri centodue anni. Torna nel tuo vecchio squalli-

do sotterraneo! Cosa potrai mai offrire?

Io offro la verità, dico. Sono l'ultima che può farlo. È l'unica cosa in

questa stanza che sarà ancora qui domani mattina.

Il Betty's Luncheonette

Le settimane passavano, e Laura non tornava. Volevo scriverle, te-

lefonarle, ma Richard diceva che le avrebbe fatto male. Non doveva essere

interrotta, diceva, da una voce dal passato. Aveva bisogno di concentrare

l'attenzione sulla sua situazione immediata - sul trattamento che l'aspetta-

va. Questo era quanto gli era stato detto. Quanto alla natura del trattamen-

to, lui non era un dottore, non pretendeva di capire certe cose. Sicuramente

era meglio lasciarle agli esperti.

Mi torturavo con visioni di lei imprigionata, che lottava, intrappolata in

una dolorosa fantasia creata da lei stessa o in un'altra ugualmente dolorosa,

che non era sua ma delle persone che la circondavano. E quand'è che l'una

diventava l'altra? Dov'era la soglia tra il mondo interiore e quello esterio-

re? Tutti noi attraversiamo senza pensarci questo varco ogni giorno, usia-

mo le parole d'ordine della grammatica - io dico, tu dici, lui e lei dicono,

esso, d'altra parte, non dice? - pagando il privilegio della sanità di mente

in moneta comune, con significati su cui ci siamo trovati d'accordo.

Ma perfino da bambina Laura non si trovava quasi mai d'accordo. Era

questo il problema? Che teneva duro sul no, quando era il «ciò che si ri-

chiedeva? E viceversa, e viceversa.

Laura stava andando bene, mi fu detto: stava facendo progressi. Poi non

andò più così bene, ebbe una ricaduta. Progressi in cosa, ricaduta in cosa?

Meglio non entrare in particolari, mi avrebbe turbato, era importante che

conservassi le mie energie, come dovrebbe fare una giovane mamma. «Ti

riavremo in buona salute in men che non si dica» disse Richard, dandomi

dei colpetti sul braccio.

«Ma non sono veramente malata» ribattei.

«Sai cosa intendo» disse. «Di nuovo normale». Mi rivolse un sorriso af-

fettuoso, quasi un'occhiata maliziosa. Gli si stavano rimpicciolendo gli oc-

chi, o era la carne attorno che avanzava, e questo gli conferiva un'espres-

sione scaltra. Pensava al momento in cui sarebbe potuto tornare al posto

che gli competeva: sopra di me. Pensai che mi avrebbe spremuto via il fia-

to. Stava mettendo su peso; mangiava molto fuori; faceva discorsi, nei cir-

coli, a riunioni importanti, riunioni essenziali. Riunioni ponderose, nelle

quali uomini importanti, essenziali si incontravano e ponderavano, perché

- come immaginavano tutti - ci aspettavano tempi duri.

Tutto quel far discorsi può gonfiare un uomo. Ho assistito al processo,

molte volte ormai. È quel genere di parole, il tipo che si usa nei discorsi.

Hanno un effetto effervescente sul cervello. Si può vederlo in televisione,

durante le trasmissioni politiche - le parole vengono fuori dalle loro boc-

che come bolle di gas.

Decisi che avrei cercato di essere malaticcia il più a lungo possìbile.

Non la finivo di crucciarmi per Laura. Rigiravo da tutte le parti la storia

di Winifred sul suo conto, studiandola da ogni angolazione. Non potevo

assolutamente crederci, ma non potevo neanche non crederci.

Laura aveva sempre avuto un enorme potere: il potere di rompere le cose

senza averne l'intenzione. E neanche aveva mai rispettato i territori. Quello

che era mio era suo: la mia penna stilografica, la mia colonia, il mio vestito

estivo, il mio cappello, la mia spazzola. Questo catalogo si era forse am-

pliato fino a includere il mio bambino prima che venisse al mondo? Tutta-

via, se soffriva di allucinazioni - se si era soltanto inventata le cose -, per-

ché aveva inventato proprio quello?

Ma supponiamo d'altra parte che Winifred stesse mentendo. Supponia-

mo che Laura fosse sana come era sempre stata. In quel caso, Laura aveva

detto la verità. E se Laura aveva detto la verità, allora era incinta. Se dav-

vero ci sarebbe stato un bambino, che fine avrebbe fatto? E perché non mi

aveva detto niente, invece di dirlo a un dottore, a un estraneo? Perché non

mi aveva chiesto aiuto? Ci pensai su per qualche tempo. Potevano esserci

state molte buone ragioni. Una poteva benissimo essere il mio stato de-

licato.


Quanto al padre, immaginario o reale, c'era un solo uomo possibile. Do-

veva trattarsi di Alex Thomas.

Ma non poteva essere. Come avrebbe potuto?

Non sapevo più come Laura avrebbe risposto a queste domande. Era di-

ventata una sconosciuta per me, come ci è sconosciuto l'interno del nostro

guanto quando c'è dentro la mano. Era tutto il tempo con me, ma non riu-

scivo a guardarla. Potevo solo sentire la forma della sua presenza: una

forma cava, riempita dalle mie fantasie.

I mesi passavano. Venne giugno, poi luglio, poi agosto. Winifred diceva

che ero pallida ed esaurita. Avrei dovuto passare più tempo all'aperto, di-

ceva. Se non volevo dedicarmi al tennis o al golf, come mi aveva più volte

suggerito - magari avrebbero giovato alla mia pancetta, che dovevo far ve-

dere prima che diventasse cronica -, avrei potuto almeno lavorare al mio

giardino roccioso. Era un'occupazione che ben si accordava con la mater-

nità.

Non ero affezionata al mio giardino roccioso, che era mio solo di nome,



come tante altre cose. (Come la «mia» bambina, a pensarci bene: sicura-

mente frutto di uno scambio, sicuramente lasciata dagli zingari; sicuramen-

te la mia vera bambina - che piangeva di meno e sorrideva di più, e non era

così ostica - era stata fatta sparire). Il giardino roccioso era altrettanto resi-

stente alle mie cure; nulla di quanto facessi lo soddisfaceva minimamente.

Le sue rocce davano un bello spettacolo - c'era molto granito rosa, insieme

al calcare - ma non riuscivo a farci crescere niente.

Mi accontentavo dei libri - Piante perenni per il giardino roccioso,

Piante grasse del deserto per i climi settentrionali, e simili. Sfogliavo que-

sti libri, compilando elenchi - elenchi di cosa avrei potuto piantare, oppure

elenchi di cosa avevo effettivamente già piantato; cosa avrebbe dovuto es-

sere cresciuto, ma non l'aveva fatto. Dracena, euforbia marginata, sempre-

vivo. Mi piacevano i nomi, ma non mi importava molto delle piante in sé.

«Non ho il pollice verde» dicevo a Winifred. «Non sono come te». La

mia simulazione di incompetenza era ormai diventata la mia seconda natu-

ra, non dovevo neanche starci a pensare. Da parte sua Winifred aveva

smesso di trovare del tutto conveniente la mia inettitudine.

«Be', naturalmente devi fare qualche sforzo» diceva. Al che io esibivo i

miei debiti elenchi di piante morte.

«Le rocce sono belle» dicevo. «Non possiamo dire che è semplicemente

una scultura?»

Pensai di partire da sola per andare a trovare Laura. Avrei potuto lasciare

Aimee con la nuova bambinaia, a cui pensavo come a una signorina Mur-

gatroyd - tutti i nostri domestici erano Murgatroyd nella mia mente, erano

tutti in combutta. Ma no, la bambinaia avrebbe avvertito Winifred. Potevo

sfidarli tutti; potevo scivolare via una mattina, prendere Aimee con me;

potevamo andare in treno. Ma un treno per dove? Non sapevo dov'era Lau-

ra - dov'era stata nascosta. Avevano detto che la Clinica Bella Vista era da

qualche parte a nord, ma a nord copriva un bel po' di territorio. Frugai nel-

la scrivania di Richard, quella nel suo studio in casa, ma non trovai nessu-

na lettera dalla clinica. Doveva tenerle in ufficio.

Un giorno Richard tornò a casa presto. Sembrava piuttosto turbato. Lau-

ra non era più alla clinica, disse.

Com'è potuto succedere? domandai.

Era arrivato un uomo, disse. Quest'uomo sosteneva di essere l'avvocato

di Laura, o di agire nel suo interesse. Era un curatore, disse - il curatore del

conto vincolato della signorina Chase. Aveva contestato l'autorità in base

alla quale era stata rinchiusa alla Clinica Bella Vista. Aveva minacciato u-

n'azione legale. Sapevo niente di queste azioni legali?

No, non ne sapevo niente. (Tenevo le mani unite in grembo. Espressi

sorpresa, e un moderato interesse. Non espressi gioia). E poi cos'è succes-

so? chiesi.

Il direttore della Clinica Bella Vista era assente, e il personale era rima-

sto confuso. L'avevano lasciata andare, affidandola alla custodia dell'uo-

mo. Avevano ritenuto che la famiglia avrebbe desiderato evitare della pub-

blicità scomoda. (L'avvocato aveva minacciato qualcosa del genere).

Be', feci, credo che abbiano fatto la cosa giusta.

Sì, disse Ricahrd, non c'è dubbio; ma Laura era compos mentis? Per il

suo bene, per la sua sicurezza, avremmo almeno dovuto stabilire questo.

Sebbene apparentemente fosse sembrata più calma, il personale della clini-

ca aveva i suoi dubbi. Chissà in quale pericolo poteva mettere se stessa o

gli altri se le fosse stato permesso di andarsene in giro liberamente.

Per caso non sapevo dov'era?

No.


Non avevo avuto sue notizie?

No.


Non avrei esitato a informarlo, in quell'eventualità?

Non avrei esitato. Queste furono le mie precise parole. Era una frase

senza un oggetto, e perciò a rigor di termini non era una bugia.

Lasciai passare un ragionevole lasso di tempo, quindi andai in treno a

Port Ticonderoga per interpellare Reenie. Inventai una telefonata: Reenie

non stava bene, spiegai a Richard, e voleva rivedermi prima che succedes-

se qualcosa. Diedi l'impressione che fosse in punto di morte. Le avrebbe

fatto piacere avere una foto di Aimee, dissi; avrebbe voluto fare due chiac-

chiere sui vecchi tempi. Era il minimo che potessi fare. Dopotutto, ci ave-

va praticamente cresciute. Mi aveva cresciuto, corressi, per sviare l'atten-

zione di Richard dal pensiero di Laura.

Mi accordai con Reenie per vederci al Betty's Luncheonette. (Aveva il

telefono ormai, non se la passava tanto male). Sarebbe stata la cosa miglio-

re, disse. Lavorava ancora là, part-time, ma potevamo incontrarci alla fine

del suo orario. Il locale aveva dei nuovi proprietari, disse; ai vecchi non sa-

rebbe piaciuto che si fosse seduta là fuori come un cliente pagante, anche

se pagava, ma i nuovi avevano capito di avere bisogno di tutti i clienti pa-

ganti che fossero riusciti a trovare.

Il Betty's Luncheonette era piuttosto in declino. Il tendone a strisce era

sparito, gli scuri séparé erano rovinati e di cattivo gusto. L'odore non era

più di vaniglia fresca, ma di grasso rancido. Ero vestita troppo bene, mi re-

si conto, non avrei dovuto indossare le mie volpi bianche. Che senso aveva

mettersi in mostra, date le circostanze?

Non mi piacque l'aspetto di Reenie: era troppo gonfia, troppo gialla, con

il respiro un po' troppo pesante. Forse non stava davvero bene: mi chiesi se

fosse il caso di domandarglielo. «Che bellezza scaricare il peso dai piedi»

disse, mentre sprofondava nel séparé davanti a me.

Myra - quanti anni avevi, Myra? Dovevi avere tre o quattro anni, ho per-

so il conto - Myra era con lei. Aveva le guance rosse per l'eccitazione, gli

occhi rotondi e leggermente sporgenti, come se la stessero gentilmente

strangolando.


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