A lorenzo Artico


Fallisce la protesta della destra



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Fallisce la protesta della destra


A Torino la destra ha una maggioranza sociale, affermata nelle politiche del ’94 con la simbolica elezione di Alessandro Meluzzi (ex-Fgci, psichiatra di Forza Italia) nel collegio tradizionalmente di sinistra di Mirafiori. Una maggioranza sociale che fa a pugni con un’assenza assoluta di classe dirigente adeguata, tanto che per presentare un candidato sindaco deve andare fino a Mondovì a pescare nella destra liberale, la più conservatrice, dell’ex ministro Raffaele Costa. Il suo programma è semplice: legge e ordine. È una destra che incarna e cavalca tutte le paure che Torino esprime, oltre a mantenere nel suo Dna il rancore della marcia dei 40.000 contro il disordine e gli scioperi, le marce anti-fisco di metà anni Ottanta, l’aggressività contro le diversità proprie del comitatismo.

In questo frangente la destra cerca di inserirsi con una dimensione di piazza nella vicenda squatter. I giovani di Azione Giovani – Fronte della Gioventù e del Fuan (le organizzazioni giovanili di AN) organizzano presidi davanti al Comune, volantinaggi in via Roma. Infine arriva la fiaccolata serale, organizzata da tutte le forze del Polo per il 20 marzo. Raccolgono solo cinquecento persone, quasi tutti militanti stretti, al grido: “senti che puzza di maiali, sono arrivati i centri sociali”, “centro sociale occupato, noi lo vogliamo sgomberato”. A guidarla Costa e Ghiglia, si chiede l’intervento delle forze dell’ordine per riportare la “legalità”. In realtà si tratta di un fallimento, il Polo non riesce a raccogliere la protesta della Torino bene. Anche se hanno mobilitato il loro comitato anti-squat (Comitato spontaneo per Torino città sicura rappresentato da Denis Martucci vicino a Forza Italia). Le critiche ai centri sociali sembrano rispolverate dagli anni ’60 “scarsa igiene, promiscuità sessuale”, non pagano la SIAE, non hanno licenze, fanno rumore.



Il Pds: non è di sinistra chi calza il passamontagna


Il Pds torinese è piuttosto sfigato, e questo si sa. Ha provato l’esperimento Castellani [12] al primo giro senza Rifondazione Comunista, un laboratorio per i Progressisti di Occhetto, al secondo giro è già fallito; così come in Regione, e nelle Circoscrizioni, tutte regalate alla destra. Ma è soprattutto il suo personale politico che è l’immagine della sfiga: Piero Fassino (sottosegretario agli esteri), Sergio Chiamparino (deputato), Domenico Carpanini (Vice Sindaco). Unico giovane l’attuale segretario provinciale Nigra. Oltre naturalmente al filone dei magistrati (Violante e Caselli, della generazione precedente).

È Chiamparino che ci rigetta tutti in pieni anni ’70 quando riesce a dichiarare in televisione rispondendo a Revelli e poi su “La Stampa”: “Alcune formulazioni ambigue e retoriche possono dare l’impressione che in questo fenomeno vi siano dei pezzi della nostra storia e delle nostre idee. Non è così, va detto con chiarezza”. In TV ci va più deciso: “Quelli col passamontagna che tirano i sassi non fanno parte dell’album di famiglia!”

Viene da chiedersi: chi è più legato alle identità degli anni Settanta? I manifestanti col passamontagna che tirano i sassi al Palazzo di Giustizia di Torino o Chiamparino, che cita nella sua dichiarazione la celebre frase di Toni Negri: “Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna”? Sveglia Chiamparino, quello che sta succedendo è più vicino al “No justice no peace” di Los Angeles del ’92 che non agli anni ’70.

Chiamparino dice cose sensate quando non riconosce come neanche lontanamente contigui i suoi percorsi con quelli degli squatter. D’altra parte è semplicemente simmetrico alle dichiarazioni degli stessi squatter, che non riconoscerebbero mai in Chiamparino un loro “compagno di strada”.

Usa però la solita arroganza quando non vuole riconoscere che in quel corteo si esprimeva anche un’anima di quella sinistra plurale che c’è, e che non basta che un Chiamparino qualunque dica “non la voglio vedere”.

Ambiguità degli squatters


Una nota ai margini: in questo caso come nel caso Marini (l’inchiesta condotta ai danni degli anarchici dal magistrato Marini e che ha portato a decine di incriminazioni per fatti anche piuttosto gravi come rapimenti, attentati, rapine, ecc. e a una polemica, con perquisizioni, tra i Ros e Radio Black-Out mesi fa) c’è sempre ambiguità, che più che voluta sembra subita dagli ambienti anarchici. Da un lato si attacca la litania sulla repressione contro gli innocenti, incastrati da una “montatura” (che se è montatura è quindi falsa), dall’altra si ammicca a quei comportamenti di cui si è accusati, non rivendicandoli (quando succede, come nel caso di alcuni imputati del caso Marini, ciò provoca problemi non da poco alle strategie di difesa giudiziaria), ma dicendo sostanzialmente che sono giusti. Nel caso che prendiamo in esame: il magistrato Laudi falsifica le prove, scambia petardi per esplosivi, taniche di benzina per stufe o affini per molotov, e così via, dall’altro di colpo ci scopriamo contro l’Alta Velocità (considerando che negli anni precedenti sull’Alta Velocità è uscito solo un volumetto di critica per le edizioni Nautilus di poche pagine che pochissimi ricordano) tanto da scrivere: “Ravvisiamo nel metodo delle azioni, tutte contro macchinari e strutture… una totale identità con le nostre idee, le nostre analisi e la nostra pratica”. Riteniamo difficile fare battaglie di difesa condotte così: o ci si dichiara innocenti (esempio: Sofri) e allora si conduce quella battaglia, oppure di fronte alla repressione di un’attività illegale che vuole essere anche sovversiva, si chiama a difendere questa stessa forma di lotta. A noi ovviamente non interessa prendere le distanze da atti “violenti”, anzi riteniamo che l’azione contro le “cose” sia impropriamente chiamata violenza. La violenza è quella contro le persone. Nel rompere un vetro o una centralina non c’è neanche violenza indiretta, nessuno è intimidito, spaventato, terrorizzato.

Ma perché questa ambiguità? E qui entriamo più nel dettaglio. Chiedere a tutti di schierarsi sugli arresti e sui fatti della Valsusa (“Tutti coloro che si dicono contro questo stato di cose devono prendere una posizione chiara sia riguardo gli arresti... sia riguardo gli eventi della Valsusa. Non può essere bella solo la rivoluzione dall'altra parte del mondo”) vuol dire costringere i propri interlocutori (Centri Sociali e affini) entro un’egemonia culturale tutta anarco-individualista, che fa presa su un’idea sbagliata della solidarietà con chi si espone con azioni clandestine tipica degli anni ’70. Se non condivido quella pratica, sono una merda, uguale a Ghiglia, a Don Ciotti. Solo l’illegalità è la pietra di paragone su cui valutare la radicalità di una posizione politica. Non è un caso che un ragionamento così rozzo provenga da un’area che ha fatto di un comportamento illegale (l’occupazione abusiva di uno spazio) non un mezzo giusto di azione politica, ma un fine ultimo di identità e di espressione. Non voglio uno spazio per fare delle cose, ma il mio fine è occupare uno spazio. Se non occupo sono un tutt’uno con le istituzioni, sono un traditore, un infame.

Infatti l’altro metro di paragone è proprio il rapporto con le istituzioni: il Centro Sociale Gabrio è stato accusato per anni di essere una schifezza perché aveva trattato con il Comune dopo l’occupazione di un posto, avevano una sponda politica in Rifondazione Comunista e addirittura avevano contatti con la sinistra Cgil: un vero scandalo. E non a caso il Gabrio per essere riaccettato ha dovuto cambiare in parte la propria “leadership” e soprattutto cambiare politica e linguaggio, appiattendosi in parte su quello “duro” degli squatter. E le aperture del Gabrio (la lettera aperta al Ministro Turco, l’articolo di Gad Lerner sulla Stampa e l’intervista a Mixer) saranno elementi di polemica, almeno sotterranea. E questo anche se si sa che quasi ogni centro sociale in un modo o nell’altro ha collegamenti con le istituzioni: basta pensare all’area “dell’autonomia di classe” (quelli contro l’istituzionalizzazione degli ex compagni del nord-est) che chiudono una trattativa con assessori comunali su Murazzi, Askatasuna [12] e Lega dei Furiosi ( che fino a poco tempo fa era di tutti e di nessuno). Ma qui si sussurra solo, non si arriva allo scandalo, perché i rapporti di forza sono paritari.

Siamo al primitivismo dicevamo, perché nessuno nella storia dei movimenti sociali radicali ha mai misurato il grado di radicalità e di sovversione dall’illegalità delle proprie pratiche. Un esito estremo che prende il peggio della lezione del ’77 forse e che è comune solo alla logica distorta delle organizzazioni clandestine dell’occidente (ma il paragone regge solo su un piano squisitamente riferito alla logica). In tutti i movimenti la radicalità risiedeva nella parola d’ordine dirompente (il salario sganciato dalla produzione, i soviet, il potere operaio, rifiuto del lavoro, il reddito di cittadinanza, ecc.), mai nelle forme. E questo oggi è un problema, perché l’egemonia culturale della filosofia squatter (anche dove non ci sono squat) rende difficile pensare ad un conflitto futuro che esuli dal puro scontro tra “bande” (non certo armate).





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