Margaret atwood



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tra sarebbe andata a prendere le cose e a portarle su. Ci accordammo sull'e-

seguire questi compiti a rotazione. Il grosso ostacolo sarebbe stata Reenie,

che avrebbe sicuramente sentito puzza di imbroglio se avessimo agito in

modo troppo furtivo.

Non avevamo elaborato alcun piano nel caso fossimo state scoperte.

Non lo facemmo mai. Fu tutto improvvisato.

La prima colazione di Alex Thomas furono le croste del nostro pane to-

stato. Di norma non le mangiavamo se non sotto tortura - Reenie aveva an-

cora l'abitudine di dire Ricordate gli armeni che muoiono di fame -, ma

questa volta, quando Reenie guardò, le croste erano sparite. In realtà erano

nella tasca della gonna blu oltremare di Laura.

«Evidentemente Alex Thomas è gli armeni che muoiono di fame» sus-

surrai, mentre correvamo di sopra. Ma Laura non trovava la cosa diverten-

te. Pensava che fosse proprio cosi.

La mattina e la sera erano le ore delle nostre visite. Razziavamo la di-

spensa, recuperavamo gli avanzi. Gli portavamo di nascosto carote crude,

pelli di bacon, uova sode mangiate a metà, pezzi di pane ripiegati con den-

tro burro e marmellata. Una volta una zampa di pollo in fricassea - un col-

po audace. Anche bicchieri d'acqua, tazze di latte, caffè freddo. Portavamo

via i piatti vuoti, li ammucchiavamo sotto i nostri letti finché non c'era via

libera, quindi li lavavamo nel lavandino del nostro bagno prima di rimet-

terli nella credenza della cucina. (Questo era compito mio: Laura era trop-

po maldestra). Non usavamo la porcellana buona. E se si fosse rotto qual-

cosa? Perfino un piatto di tutti i giorni avrebbe potuto essere notato: Ree-

nie teneva d'occhio ogni cosa. Perciò stavamo molto attente con il vasel-

lame.


Reenie sospettava di noi? Credo di sì. Di solito capiva quando stavamo

combinando qualcosa. Ma capiva anche quando era più prudente non sape-

re esattamente di cosa potesse trattarsi. Credo che si stesse preparando a

cadere dalle nuvole, nel caso fossimo state scoperte. Una volta ci disse di

non andare a rubacchiare l'uva passa; disse che ci stavamo comportando

come pozzi senza fondo, e da dove ci erano spuntate quelle gambe gonfie

tutt'a un tratto? E poi era irritata per il quarto di torta di zucca che era spa-

rito. Laura disse che era stata lei a mangiarlo; aveva avuto un improvviso

attacco di fame, disse.

«Crosta e tutto?» chiese bruscamente Reenie. Laura non mangiava mai

le croste delle torte di Reenie. Nessuno lo faceva. Neanche Alex Thomas.

«L'ho data da mangiare agli uccellini» disse Laura. Era abbastanza vero:

è quello che aveva fatto, dopo.

In un primo momento Alex Thomas ci fu riconoscente per i nostri sforzi.

Diceva che eravamo delle buone amiche, e che senza di noi sarebbe stato

spacciato. Poi volle delle sigarette - stava morendo dalla voglia di fumare.

Gliene portammo qualcuna di quelle nella scatola d'argento sul piano, ma

lo avvertimmo di limitarsi a una al giorno - il fumo si poteva sentire. (I-

gnorò questa limitazione).

Poi disse che la cosa peggiore della soffitta era non potersi lavare. Aveva

la bocca che sapeva di fogna. Rubammo il vecchio spazzolino da denti con

cui Reenie puliva l'argento e lo lavammo come meglio potemmo; disse che

era meglio di niente. Un giorno gli portammo una bacinella, un asciuga-

mano e una brocca di acqua calda. Poi aspettò che nessuno fosse di sotto e

gettò l'acqua sporca fuori della finestra della soffitta. Era piovuto, perciò il

terreno era comunque bagnato e la chiazza non fu notata. Un po' più tardi,

quando la via sembrava sgombra, gli permettemmo di scendere la scala

della soffitta e lo chiudemmo nel bagno che ci dividevamo, in modo che

potesse lavarsi come si deve. (Avevamo detto a Reenie che per aiutarla ci

saremmo accollate la pulizia di quel bagno, provocando il seguente com-

mento: Non si finisce mai di stupirsi).

Mentre Alex Thomas si lavava Laura era nella sua stanza e io nella mia,

e facevamo tutte e due la guardia alla porta del bagno. Cercai di non pensa-

re a cosa stesse accadendo là dentro. L'immagine di lui senza vestiti era

dolorosa per me, in un modo a cui era meglio non pensare.

Alex Thomas fu oggetto di editoriali, non solo nel nostro giornale. Era

colpevole di incendio doloso ed era un assassino, si disse, e della peggior

specie - di quelli che uccidevano a sangue freddo per fanatismo. Era venu-

to a Port Ticonderoga per infiltrarsi tra i lavoratori e seminare i semi della

zizzania, cosa che gli era riuscita, come dimostravano lo sciopero generale

e i disordini. Era un esempio dei danni dell'educazione universitaria - un

ragazzo intelligente, troppo intelligente perché potesse giovargli, il cui in-

gegno era stato rovinato da compagnie cattive e da letture peggiori. Venne

riportata una dichiarazione del padre adottivo, un ministro presbiteriano, in

cui affermava che pregava ogni notte per l'anima di Alex, ma che quella

era una generazione di vipere. Non sorvolò sul fatto di avere salvato il pic-

colo Alex dagli orrori della guerra: Alex era un tizzone strappato all'incen-

dio, diceva, ma era sempre un rischio prendere in casa uno sconosciuto. Se

ne deduceva che era meglio lasciare simili tizzoni dov'erano.

Come se non bastasse, la polizia aveva stampato un manifesto segnaleti-

co di Alex, e lo aveva affisso nell'ufficio postale e in altri luoghi pubblici.

Per fortuna non era una foto molto chiara: Alex aveva la mano tesa in a-

vanti, che gli nascondeva in parte la faccia. Era la foto del giornale, quella

che Elwood Murray aveva scattato a noi tre al picnic della fabbrica di bot-

toni. (Io e Laura eravamo state tagliate via, naturalmente). Elwood Murray

aveva fatto sapere che avrebbe potuto stampare una foto migliore dal nega-

tivo, ma quando era andato a cercarlo il negativo era scomparso. Be', non

c'era da stupirsi: una gran quantità di cose era andata distrutta quando il

giornale era stato devastato.

Portammo ad Alex i ritagli di giornale, e anche un manifesto segnaletico

- Laura lo aveva sgraffignato da un palo del telefono. Lesse quelle cose sul

proprio conto con doloroso sgomento. «Vogliono la mia testa su un vas-

soio» fu quello che disse.

Pochi giorni dopo chiese se potessimo procurargli della carta - carta per

scrivere. C'era una pila di quaderni rimasti dall'epoca del signor Erskine:

gli portammo quelli, e anche una matita.

«Cosa pensi che stia scrivendo?» chiese Laura. Non riuscivamo a deci-

derci. Un diario di prigionia, un'autodifesa? Forse una lettera a qualcuno in

grado di salvarlo. Ma non ci aveva chiesto di impostare nulla, perciò non

poteva trattarsi di una lettera.

Prenderci cura di Alex Thomas fece riavvicinare me e Laura come non

succedeva da tempo. Era il nostro segreto colpevole, nonché il nostro pro-

ponimento virtuoso - uno che finalmente potevamo condividere. Eravamo

due piccole buone samaritane, che tiravano fuori del fossato l'uomo assali-

to dai briganti. Eravamo Maria e Marta che porgevano aiuto - be', non a

Gesù, neanche Laura andava così lontano, ma era ovvio quale ruolo avesse

assegnato a ciascuna di noi. Io dovevo essere Marta, occupata dalle in-

combenze domestiche, in secondo piano; lei doveva essere Maria, che de-

poneva pura devozione ai piedi di Alex. (Cosa preferisce un uomo? Uova

al bacon o adorazione? A volte una cosa a volte l'altra, a seconda della fa-

me che ha).

Laura portava gli avanzi di cibo su per la scala della soffitta come se

fossero un'offerta a un tempio. Portava giù il vaso da notte come se fosse

un reliquario, o una preziosa candela sul punto di spegnersi tremolando.

La sera, dopo che Alex Thomas era stato sfamato e abbeverato, parla-

vamo di lui - che aspetto aveva quel giorno, se era troppo magro, se aveva

tossito -, non volevamo che si ammalasse. Di cosa poteva avere bisogno,

cosa avremmo potuto provare a rubare per lui il giorno seguente. Quindi ci

infilavamo nei rispettivi letti. Non so Laura, ma io lo immaginavo lassù in

soffitta, esattamente sopra di me. Anche lui avrà cercato di addormentarsi,

girandosi e rigirandosi nel suo giaciglio di trapunte ammuffite. Poi avrebbe

dormito. Poi avrebbe sognato, lunghi sogni di guerra e di fuoco, e di vil-

laggi che venivano distrutti, i loro frantumi disseminati tutt'intorno.

Non so a che punto questi suoi sogni si trasformassero in visioni di inse-

guimento e fuga; non so a che punto lo raggiungessi in questi sogni, scap-

pando con lui mano nella mano, al crepuscolo, via da un edificio in fiam-

me, attraverso i campi solcati di dicembre, con la terra coperta di stoppie in

cui cominciava a insinuarsi il gelo, verso la linea scura dei boschi lontani.

Ma non era veramente il suo sogno, lo sapevo. Era il mio. Era Avilion

che stava bruciando, erano i suoi frantumi in fiamme che erano disseminati

a terra - la porcellana buona, la ciotola di Sèvres piena di petali di rosa, la

scatola per sigarette d'argento sopra il piano. Lo stesso piano, le finestre

dai vetri colorati della sala da pranzo - la coppa rosso sangue, l'arpa rotta

di Isotta - tutto ciò da cui desideravo allontanarmi, è vero, ma non attraver-

so la distruzione. Volevo andarmene da casa, ma volevo anche che rima-

nesse lì ad aspettarmi, immutata, in modo da potervi ritornare quando a-

vessi voluto.

Un giorno, mentre Laura era fuori - non era più pericoloso per lei, gli

uomini in soprabito se n'erano andati e anche i poliziotti a cavallo, le strade

erano nuovamente pacifiche - decisi di fare una puntatina solitaria in soffit-

ta. Avevo un'offerta da fare - una tasca piena di uva passa e fichi secchi

sgraffignati dagli ingredienti per il pudding natalizio. Partii in ricognizione

- Reenie era tranquillamente occupata con la signora Hillcoate, in cucina -,

quindi andai alla porta che conduceva alla soffitta e bussai. A quell'epoca

avevamo una bussata speciale, un colpo seguito da altri tre in rapida suc-

cessione. Poi salii in punta di piedi la scala della soffitta.

Alex Thomas era accoccolato accanto alla piccola finestra ovale, cer-

cando di sfruttare al massimo la luce del giorno. Evidentemente non mi

aveva sentito bussare: aveva la schiena rivolta verso di me, e teneva una

trapunta sulle spalle. Sembrava che stesse scrivendo. Sentii odore di fumo

di sigaretta - sì, stava fumando, c'era la sua mano che reggeva la sigaretta.

Pensai che non fosse il caso che lo facesse così vicino a una trapunta.

Non sapevo bene come annunciare la mia presenza. «Sono qui» dissi.

Saltò su e lasciò cadere la sigaretta. Cadde sulla trapunta. Rimasi senza

fiato e mi buttai in ginocchio per toglierla - avevo l'ormai familiare visione

di Avilion in fiamme. «Non ti preoccupare» disse. Era anche lui in ginoc-

chio, tutti e due alla ricerca di qualche scintilla superstite. Non ricordo co-

me, ma subito dopo ci ritrovammo sul pavimento e lui mi teneva stretta e

mi baciava sulla bocca.

Non me l'aspettavo.

O me l'aspettavo? Fu così improvviso, o ci furono dei preliminari - un

tocco, uno sguardo? Feci qualcosa per provocarlo? Nulla di cui mi ricordi,

ma ciò che ricordo fu quello che successe realmente?

Ormai lo è: sono l'unica superstite.

In ogni caso, fu proprio come aveva detto Reenie a proposito degli uo-

mini nei cinema, solo che ciò che sentii non fu offesa. Ma il resto era ab-

bastanza vero: ero paralizzata, non potevo muovermi, non avevo risorse.

Le mie ossa si erano trasformate in cera che si liquefaceva. Mi slacciò qua-

si tutti i bottoni prima che fossi in grado di alzarmi, trascinarmi via, fuggi-

re.


Lo feci senza una parola. Mentre scendevo in fretta la scala della soffit-

ta, tirandomi indietro i capelli, infilandomi la camicetta nella gonna, ebbi

l'impressione che - alle mie spalle - stesse ridendo di me.

Non sapevo esattamente cosa potesse accadere se avessi lasciato che una

cosa del genere capitasse di nuovo, ma in ogni caso sarebbe stato pericolo-

so, almeno per me. Me lo sarei voluto, avrei avuto quello che mi meritavo,

sarebbe stato un incidente prevedibile. Non potevo permettermi di rimane-

re ancora da sola in soffitta con Alex Thomas, né potevo confidarne a Lau-

ra la ragione. Sarebbe stato troppo doloroso per lei: non avrebbe mai capi-

to. (C'era un'altra possibilità - lui avrebbe potuto fare qualcosa del genere a

Laura. Ma no, non potevo crederci. Lei non lo avrebbe mai permesso. O

sì?)


«Dobbiamo fargli abbandonare la città» dissi a Laura. «Non possiamo

continuare così. Se ne accorgeranno sicuramente».

«Non ancora» ribatté lei. «Stanno ancora controllando i binari». Era in

grado di saperlo, dal momento che lavorava ancora alla mensa gratuita del-

la chiesa.

«Be', allora da qualche altra parte in città» dissi.

«E dove? Non c'è nessun altro posto. E questo è il migliore - l'unico luo-

go in cui non penseranno mai di cercare».

Alex Thomas disse che non voleva rimanere bloccato dalla neve. Disse

che un inverno in soffitta lo avrebbe fatto impazzire. Disse che si sentiva

un leone in gabbia. Disse che avrebbe camminato per tre o quattro chilo-

metri lungo i binari e sarebbe saltato su un carro merci - là c'era un alto ter-

rapieno che rendeva la cosa più facile. Disse che se solo fosse riuscito ad

arrivare a Toronto, si sarebbe potuto nascondere - aveva degli amici là, e

questi avevano a loro volta degli amici. Poi in un modo o nell'altro sarebbe

passato negli Stati Uniti, dove sarebbe stato più al sicuro. Da quanto aveva

letto sui giornali, le autorità sospettavano che potesse già trovarsi là. Sicu-

ramente non lo stavano più cercando a Port Ticonderoga.

Entro la prima settimana di febbraio decidemmo che sarebbe potuto fug-

gire senza correre eccessivi pericoli. Rubammo per lui un vecchio cappotto

di mio padre nell'angolo in fondo al guardaroba, gli preparammo un invol-

to con il pranzo - pane e formaggio, una mela - e lo mandammo per la sua

strada. (Più tardi mio padre si accorse del cappotto mancante e Laura disse

che l'aveva dato a un vagabondo, il che in parte era vero. Siccome questo

gesto era perfettamente in carattere con lei, non venne messo in dubbio,

provocando soltanto qualche brontolio).

La notte della partenza facemmo uscire Alex dalla porta sul retro. Disse

che ci doveva molto; disse che non l'avrebbe dimenticato. Abbracciò tutte

e due, un abbraccio fraterno di eguale durata a ognuna. Era ovvio che ave-

va fretta di andarsene. Strano a dirsi, a parte il fatto che era notte sembrava

che stesse partendo per la scuola. Più tardi piangemmo, come delle madri.

Fu anche un sollievo - che se ne fosse andato, che non avessimo più quella

responsabilità -, ma anche questo è tipico delle madri.

Si lasciò dietro uno dei quaderni da pochi soldi che gli avevamo dato.

Naturalmente lo aprimmo subito per vedere se ci avesse scritto qualcosa.

In cosa speravamo? In un messaggio di addio che esprimesse la sua eterna

gratitudine? In sentimenti gentili su di noi? Qualcosa del genere.

Questo fu ciò che trovammo:

anchoryne

nacrod


berel

onyxor


carchineal

porphyrial

diamite

quartzephyr



ebonort

rhint


fulgor

sapphyrion

glutz

tristok


hortz

ulinth


iridis

vorver


jocynth

wotanite


kalkil

xenor


lazaris

yorula


malachont

zycron


«Pietre preziose?» chiese Laura.

«No. Sono parole strane» dissi io.

«È una lingua straniera?»

Non lo sapevo. Pensai che la lista aveva l'aria sospetta di un codice. For-

se (dopotutto) Alex Thomas era ciò che gli altri lo accusavano di essere:

una spia di un qualche tipo.

«Credo che dovremmo disfarcene» dissi.

«Ci penso io» fece svelta Laura. «Lo brucerò nel mio caminetto». Lo

piegò e se lo infilò in tasca.

Una settimana dopo la partenza di Alex Thomas, Laura venne nella mia

stanza. «Credo che tu debba avere questa» disse. Era una copia della foto

di noi tre, quella che Elwood Murray aveva scattato al picnic. Ma lei si era

tagliata via - ne rimaneva solo la mano. Non avrebbe potuto eliminarla

senza rendere il margine irregolare. Non aveva colorato affatto questa foto,

a eccezione della sua mano mozzata. L'aveva tinta di un giallo molto chia-

ro.


«Per l'amor del cielo, Laura!» esclamai. «Dove l'hai presa?»

«Ho fatto alcune copie» disse. «Quando lavoravo da Elwood Murray.

Ho anche il negativo».

Non sapevo se essere arrabbiata o allarmata. Tagliare la foto a quel mo-

do era una cosa molto strana da fare. La vista della mano giallo chiara di

Laura che scivolava verso Alex nell'erba come un granchio incandescente

mi fece scendere un brivido lungo la schiena. «Perché mai hai fatto una

cosa simile?»

«Perché è questo che vuoi ricordare» disse. Era talmente audace che ri-

masi senza fiato. Mi guardò dritta in faccia, cosa che in chiunque altro sa-

rebbe equivalsa a una sfida. Ma Laura era fatta così: il suo tono non era né

irritato né geloso. Per quanto la riguardava stava semplicemente consta-

tando un fatto.

«Non c'è problema» disse. «Ne ho un'altra per me».

«E nella tua non ci sono io?»

«No» disse. «Non ci sei. Di te non c'è niente se non la mano». Da parte

sua questa fu la cosa più vicina a una confessione d'amore per Alex Tho-

mas che io abbia mai sentito. Tranne il giorno prima che morisse, cioè.

Non che anche allora avesse usato la parola amore.

Avrei dovuto gettare via quella foto mutilata, ma non lo feci.

Le cose tornarono al loro ordine consueto, monotono. Per un accordo

non detto io e Laura non nominavamo più Alex Thomas tra noi. C'erano

troppe cose che non potevano essere dette, da una parte e dall'altra. All'ini-

zio salivo su in soffitta - vi si poteva ancora avvertire un leggero odore di

fumo -, ma dopo un po' smisi di farlo, non serviva a niente.

Ci rituffammo nella vita di tutti i giorni, per quanto era possibile. C'era

un po' più di denaro adesso, perché dopotutto mio padre aspettava i soldi

dell'assicurazione per la fabbrica bruciata. Non era abbastanza, ma ci era

stata concessa una tregua.

La Sala Imperiale

La stagione sta ruotando sui cardini, la terra gira allontanandosi dalla lu-

ce; sotto i cespugli ai margini della strada le cartacce dell'estate si accumu-

lano come un presagio di neve. L'aria si sta facendo secca, preparandoci al-

l'imminente Sahara dell'inverno a riscaldamento centrale. I polpastrelli dei

miei pollici si stanno già spaccando, il mio viso avvizzisce ancora di più.

Se potessi vedere la mia pelle allo specchio - se solo potessi avvicinarmi

abbastanza, o allontanarmi abbastanza -, la troverei intersecata da minu-

scoli solchi, tra le rughe più grosse, come un intaglio.

La scorsa notte ho sognato che le mie gambe erano ricoperte di peli. Non

pochi peli, ma una gran quantità - peli scuri che spuntavano in ciuffi e ce-

spi sotto i miei occhi, diffondendosi sulle cosce come la pelliccia di un a-

nimale. Stava arrivando l'inverno, ho sognato, perciò sarei andata in letar-

go. Prima mi sarebbe cresciuto il pelo, poi sarei strisciata dentro una grot-

ta, quindi mi sarei addormentata. Sembrava tutto normale, come se lo a-

vessi già fatto prima. Poi mi sono ricordata, anche in sogno, che non ero

mai stata una donna particolarmente pelosa e che ormai ero glabra come

un tritone, o almeno lo erano le mie gambe; perciò sebbene sembrassero

attaccate al mio corpo, quelle gambe pelose non potevano assolutamente

essere mie. Inoltre non avevano sensibilità. Erano le gambe di qualcos'al-

tro, o di qualcun altro. Tutto quello che dovevo fare era seguirle, passarci

sopra la mano, per scoprire di chi o di che cosa fossero.

Questa preoccupazione mi ha svegliata, o così ho creduto. Ho sognato

che Richard era tornato. Potevo sentirlo respirare nel letto accanto a me.

Eppure non c'era nessuno.

Allora mi sono svegliata, tornando alla realtà. Avevo le gambe intorpidi-

te: avevo dormito tutta storta. Ho cercato a tastoni la lampada sul comodi-

no, ho decifrato il mio orologio: erano le due di notte. Il cuore mi martel-

lava penosamente, come se avessi corso. Era vero quello che si diceva, ho

pensato. Un incubo può uccidere.

Torno a darci dentro, facendomi strada come un granchio attraverso la

carta. È una corsa lenta, tra me e il mio cuore, ma intendo arrivare prima.

Dove? Alla fine, o alla Fine. All'una o all'altra. Sono tutte e due punti di

arrivo, se vogliamo.

Gennaio e febbraio del 1935. Pieno inverno. Cadeva la neve, il respiro si

condensava; le caldaie bruciavano, il fumo saliva, i radiatori producevano

rumori metallici. Le automobili uscivano di strada e andavano a finire nei

fossati; i loro guidatori, disperando nei soccorsi, tenevano il motore acceso

e asfissiavano. Vagabondi morti venivano trovati sulle panchine e nei ma-

gazzini abbandonati, rigidi come manichini, come se posassero per pubbli-

cizzare la povertà nella vetrina di un negozio. Cadaveri che non potevano

essere sepolti perché non si riusciva a scavare le tombe nel terreno duro

come l'acciaio aspettavano il loro turno nei depositi di nervosi impresari di

pompe funebri. I topi se la passavano bene. Madri con bambini, incapaci di

trovare lavoro o di pagare l'affitto, venivano cacciate armi e bagagli in

mezzo alla neve. I bambini pattinavano sulla gora del mulino del fiume

Louveteau, due di loro finirono sotto il ghiaccio e uno annegò. I tubi gela-

vano e scoppiavano.

Laura e io stavamo sempre meno insieme. In realtà la si vedeva a mala-

pena: collaborava alla campagna assistenziale della Chiesa Unita, o così

diceva. Reenie annunciò che a partire dal mese successivo avrebbe lavora-

to per noi soltanto tre giorni alla settimana, dicendo che i piedi le stavano

dando noia: era il suo modo di nascondere il fatto che non potevamo più

permetterci di tenerla a tempo pieno. Lo capii comunque, era così chiaro

che lo avrebbe visto anche un cieco. Come avrebbe visto la faccia di mio

padre, che sembrava la mattina dopo un disastro ferroviario. Negli ultimi

tempi stava quasi sempre nella sua torretta.

La fabbrica di bottoni era vuota, il suo interno carbonizzato e distrutto.


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