Pontificium consilium de legum textibus interpretandis pontificium consilium pro familia pontificia academia pro vita



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4.1. Ho già parlato del rapporto diritto naturale-diritto positivo. Ora è giunto il momento di precisare a quale tipo di diritto naturale è necessario fare riferimento se si vuole riconoscere alla Filosofia del diritto, intesa appunto come diritto naturale, una funzione di valutazione critica nei confronti del diritto positivo, dei suoi istituti e delle sue norme. La necessità di precisare a quale tipo di diritto naturale è necessario fare riferimento si impone maggiormente nei nostri giorni in cui alcune frange del pensiero, partendo dalla qualificazione della nostra età come l'età dei diritti 8 e dilatando oltre misura il concetto di diritto soggettivo, finiscono con il proporre dei nuovi diritti soggettivi, che non sono fondati sulla natura dell'uomo, non sono fondati sulle leggi dell'intelletto, ma sono semplici desideri presentati formalmente come diritti. Sono frange di pensiero le quali, in alcuni casi, giungono a proporre qualcosa che fino a qualche decennio fa non si pensava che si potesse verificare. Se, infatti, negli anni ’40, Rommen scriveva che «nessun positivista affermerà ora che questo “essere una persona” e i diritti che ne discendono immediatamente [e in primo luogo il diritto di essere riconosciuto anche giuridicamente come persona] “nascono” dalla volontà dello Stato»9 ,ora le cose stanno diversamente. Non si è verificato solo quanto Rommen pensava che non si potesse verificare, cioè che un positivista riconoscesse allo Stato, magari totalitario, il potere di < «concedere» i diritti fondamentali all'individuo umano, ma si è verificato, a mio parere, qualcosa di peggio. Si è verificato che la facoltà di riconoscere i diritti fondamentali sia stata riconosciuta sulla base della natura biologico-evolutiva dell'uomo. Su questo terreno si è proposto di qualificare come persona, quindi come portatore di valori e titolare di diritti fondamentali, solo gli individui umani «autocoscienti, razionali e in possesso di un senso morale minimo», cioè solo gli individui «autonomi» che sanno consapevolmente «scegliere per loro». Si è sostenuto, cioè, che «non tutti gli esseri umani sono persone», anche se «ci possono essere pur sempre delle ragioni importanti per accordare loro (agli esseri umani che non sono persone, es. embrioni, feti, infanti, ritardati mentali, ecc.) dei diritti speciali» 10. Sull'argomento non mi soffermo in quanto ho avuto già modo, in altre occasioni, di criticare tale accennata posizione di Engelhardt come incapace di cogliere la differenza fra la titolarità dei «costitutivi» (diritti) dell'individuo umano, già presenti nel progetto-programma della sua vita, nel DNA, fin dal formarsi dello stesso, e il loro esercizio, che, invece, fattualmente è possibile solo nel momento in cui l'evoluzione ontogenetica lo permette.

Nuoce a coloro i quali sostengono che i diritti fondamentali non sono costitutivi dell'individuo umano lo svolgere il loro discorso sul piano del manifestarsi della vita, cioè il non essere andati alla ricerca del suo fondamento, dove si potrebbe cogliere la differenza fra titolarità ed esercizio dei diritti, la continuità nell'identità evolutiva della titolarità e la discontinuità temporale e intensiva del loro esercizio. Sul piano della manifestazione della vita, con esclusione di quello della sua struttura ontologica, questi pensatori analizzano anche il diritto alla libertà e riconoscono, come elemento costitutivo dello stesso, differentemente da Kant «il vincolo collaterale»; costoro,cioè, criticano Kant perché non avrebbe distinto fra «la libertà come valore e la libertà come vincolo collaterale», ma si sarebbe fermato sulla libertà come valore, facendo poi della stessa il supporto della «morale razionale»11.

Al di là della critica rivolta a Kant in tema di libertà, quel che nuoce a questi pensatori, e alla concezione della vita come da loro rappresentata, è l'aver eccessivamente privilegiato la dimensione relazionale, il non essersi interessati a tenere nella dovuta considerazione i «costitutivi» della persona nel loro momento fondante. In breve, per il rispetto delle leggi dell'uomo, come persona carica di valori etici e religiosi, titolare di diritti fondamentali, intesi come costitutivi della sua natura, avrebbero dovuto considerare, nell'argomentare le proprie tesi, che l'essenza dell'uomo non si esaurisce né nel solo «vincolo collaterale», né nella sola individualità della persona, «anche

se questa costituisce da sé una sfera giuridica originaria». Avrebbero, cioè, correttamente dovuto tener presente che l'uomo, considerato solo sul piano del «vincolo collaterale» oppure isolatamente considerato, non è altro che un'ipotesi dottrinale finalizzata a interessi socio-politici diversi; avrebbero dovuto tener presente che l'uomo, considerato solo sul piano del “vincolo collaterale” oppure isolatamente considerato, non è altro che un'ipotesi dottrinale finalizzata a interessi socio-politici diversi; avrebbero dovuto tener presente che la “socialità” è un elemento altrettanto costitutivo della natura dell’uomo quanto la sua “razionalità”. Conseguentemente, non sarebbero giunti a privilegiare eccessivamente il «vincolo collaterale» fino a non riconoscere importanza decisiva alla natura della persona, al rispetto dei suoi costitutivi, come presupposto imprescindibile della vita comunitaria.

Sintetizzando, all'etica della vita proposta da questi pensatori nuoce non l'essersi riportati all'etica kantiana, ma l'aver rifiutato il presupposto della stessa, l'aver ridotto tutto sul piano della relazionalità come frutto della decisione dell'uomo isolato; è una proposta etica nella quale si intravede una libertà priva di leggi ontologiche, una razionalità astratta, individuale, che può decidere, appunto astrattamente e individualmente, il tipo di programmi di vita che ciascun essere umano può formulare. A costoro, insomma, nuoce l’aver distinto fra la «persona in quanto agente morale», «persona come tale in senso stretto» e persona in senso sociale, «alla quale vengono accordati all'incirca i primi diritti delle persone in senso stretto, come nel caso dei bambini piccoli (persone); per cui «solo le persone in senso stretto sono titolari sia di diritti sia di doveri morali. Gli infanti e i soggetti in coma non hanno obblighi morali»12.

Costoro dovrebbero prestare adeguata attenzione alla socialità della persona, ma congiuntamente al suo fondamento; si accorgerebbero in tal caso che: l. dalla struttura ontologica dell'uomo, dalla socialità dell'uomo come suo momento costitutivo, discende la necessità ontologica della famiglia, della socialità, dello Stato; 2. si renderebbero conto che come la famiglia è anteriore allo Stato così l'individuo è anteriore alla famiglia; 3. si accorgerebbero, infine, che la naturale integrazione dei diritti e dei doveri è fondata sull'essenza dell'uomo sulla sua socialità e sulla sua razionalità. Non si giungerebbe, di conseguenza, all'affermazione del privilegio del carattere dell'individualità della persona astrattamente considerata, all'affermazione del solo «vincolo collaterale» come fondamento dell'etica e del diritto.

La pericolosità delle conseguenze, anche se non volute, del giusnaturalismo sei-settecentesco sono troppo evidenti. Nè è sufficiente, per non rapportare alla luce di tale giusnaturalismo le accennare posizioni etiche attuali, ricordare che esso ha sostenuto la priorità dei diritti naturali soggettivi sul diritto oggettivo positivo e non già sul diritto naturale. Non è sufficiente, perché, in ultima istanza, sono riconducibili ad esso gli attuali sviluppi etici, i quali si disinteressano del carattere di costitutività che, per l'esistenza della persona, hanno i diritti fondamentali considerati nella loro titolarità. Non è sufficiente, inoltre, perché tali sviluppi non hanno posto adeguatamente l’accento sugli obblighi, come, invece, ha potuto fare il giusnaturalismo classico e medievale, per aver considerato, accanto alla razionalità, appunto, anche la socialità come costitutiva dell'essenza umana.

Una differenza ontologica, quindi, quella dei due tipi di persona posti a fondamento del diritto naturale classico e medievale, e di quello del diritto naturale moderno, e, più ancora, dei suoi sviluppi etico-giuridici; meglio, la differenza non è solo una differenza politica, caratterizzata, come spesso si vuole far credere, da una rivendicazione dei diritti individuali, minore nel diritto naturale classico, e maggiore nel diritto naturale moderno, ma appunto ontologica.

 

4.2. Un differente modo, quindi, di concepire il diritto naturale che si proietta e produce le sue conseguenze sul modo di concepire il diritto positivo. Si può due, cioè, che, mentre nel contesto del diritto naturale classico la razionalità e la socialità implicano un tipo di diritto positivo rispettoso delle leggi ontologiche, per cui fughe pericolose in avanti per la vita individuale e sociale difficilmente sono possibili, lo stesso non può dirsi se il processo sociale di perfezionamento dell'uomo è visto avendo come presupposto il diritto naturale moderno. Se punto di partenza, cioè, è l'individuo atomisticamente considerato, con i suoi diritti non visti correlati con quelli degli altri, posizione questa alla quale un individualismo esasperato può giungere, oppure, se punto di partenza è solo la libertà come «vincolo collaterale», è conseguenziale che si possa giungere a pensare a un tipo di uomo come soggetto non rispettoso di sé e degli altri. Viene, cioè, a trovare piena giustificazione la considerazione del diritto positivo, che prevede e tutela i diritti naturali fondamentali nella misura in cui sono accettati e proposti dagli accordi e dalle convenzioni, per cui, a seconda del prevalere di questa o di quella interpretazione della natura umana atomisticamente considerata, ne scaturisce questo o quel programma politico di tutela dei diritti, o ne deriva addirittura la giustificazione della violazione di questo o di quel diritto fondamentale.

Cercando di fare il punto su quale tipo di diritto naturale è più opportuno che costituisca oggetto della Filosofia del diritto, penso di poter dire che col giusnaturalismo sei-settecentesco si sono posti i prodromi concettuali della proposizione di un cattivo uso della libertà e della teorizzazione dei diritti, fino a sostenere, accanto alla giustificazione razionale del diritto alla libertà politica e al corrispondente tipo di Stato, la giustificazione della violazione di tale diritto e del relativo tipo di Stato. Tali prodromi si sono sviluppati, poi, specie a partire dai primi decenni del nostro secolo, sotto la spinta dell'accennato sviluppo in senso individualistico dei diritti, fino a giustificare non solo socialmente, ma anche politicamente, la violazione del diritto alla vita debole, cioè della vita prenatale, della vita dei portatori di handicap, della vita degli anziani non autosufficienti, ecc. È venuta così meno la funzione essenziale del diritto positivo, funzione di conservazione e promovimento del bene comune, proprio perché esso, in tal caso, presuppone un diritto naturale che non contempla la socialità come uno dei momenti dell'essenza umana. È venuta meno la connessione stretta fra realtà e conoscenza, fra conoscenza e azione; l'individuo atomisticamente considerato, privo della socialità come uno dei suoi elementi essenziali, dotato di una razionalità che nasce e si consuma tutta in funzione individuale, egoistica, porta al disinteresse verso la vita, al disinteresse di sé e degli altri; porta, cioè, a giustificare la violazione del diritto alla vita propria e degli altri (aborto, eutanasia) e all'affermazione della qualità edonistica della propria vita. Ne discende il venir meno del nesso fra l'ordine ontologico e l'ordine pratico, della ragione pratica come prolungamento del principio dell'essere. In breve, se si assume come presupposto il razionalismo astratto, se non si accetta la razionalità dell'essere proiettata nel campo del sociale, ci si avvia verso un diritto positivo garante degli egoismi e dei desideri.

 

5. Le motivazioni della attuale spinta verso la violazione del diritto alla vita (aborto, eutanasia, ecc), se come causa remota vanno cercate nella concezione individualistica e astratta della persona umana, come causa prossima vanno cercate nel diffondersi negli ultimi decenni dell'etica di tipo lato sensu empiristica.

Quel che ormai va scomparendo dal contesto della nostra epoca è la dimensione sapienziale della vita individuale e sociale, e ciò a causa del disinteresse che ormai da più parti si mostra nei confronti della verità delle cose come fonte prossima delle leggi e dei programmi di vita. In breve, è venuta meno la preoccupazione di essere nel vero intorno ai principi;13 interessante, ormai, è avere dei principi condivisi dalla generalità, senza preoccuparsi di stabilire se il loro fondamento si radichi nell'ordine della natura oppure negli accordi convenzionali. Generalmente è venuta meno, e da tempo, la tradizionale distinzione fra sapienza e saggezza; di conseguenza, attratti dalle specializzazioni, non ci si interessa più della capacità di giudicare delle conclusioni e dei principi primi di tutte le scienze, 14 capacità che, trovando il suo fondamento nella luce eterna della verità, innova di sé tutte le cose, ovunque essa sia accettata.

Proprio la scomparsa della dimensione sapienziale della vita giustifica, nell'universo della Filosofia del diritto, il privilegio delle ricerche logiche e di quelle fenomenologiche e, di conseguenza, l'appiattimento di tale disciplina sul piano della teoria generale e della sociologia del diritto; tale scomparsa, cioè, giustifica il disinteresse nei confronti dei principi di giustizia e del loro fondamento. In breve, quel che oggi spesso attrae è la rigorosità con cui sono trattate le faccende umane, la semplicità con cui sono rappresentati i problemi relativi a ciò che è bene e ciò che è male per l'uomo, e poco importa se bene e male siano considerati come mutevoli nella storia; l'interesse, cioè, è per le modalità con cui diritti fondamentali sono tutelati e non per l'essenza di tali diritti.

Proprio tale situazione, sociale e dottrinale, nella mente dello studioso che non si accontenta di esaminare la superficialità dei problemi, sollecita, però, l'indispensabilità del ricorso alla funzione della Filosofia del diritto come Filosofia della giustizia, intesa come Filosofia dei principi «costitutivi» della persona umana, della loro verità e della legge che li regolamenta; della giustizia, cioè, come previsione e tutela dei diritti fondamentali, connaturati alla persona, non storici perché suoi costitutivi, ma storici nelle modalità del loro riconoscimento e della loro tutela. Filosofia della giustizia che, svolgendo la sua funzione con carattere sapienziale, si propone come disciplina che valuta criticamente il diritto positivo quando si appiattisce sul piano della storicità dei valori, sul piano delle modalità di attuazione dei diritti fondamentali, dimenticando la dimensione e la funzione della loro costitutività.

Si profila, così, nell'ambito dello statuto epistemologico della Filosofia del diritto, la distinzione fra il contesto delle ricerche e delle relative implicazioni della Filosofia del diritto moderna e di quella classica. Due contesti, quindi, della Filosofia del diritto; quello della Filosofia del diritto moderna, svolta sul piano dei diritti e delle loro modalità, e quello della Filosofia del diritto classica, svolta invece sul piano della legge delle essenze in cui sono iscritti i diritti come costitutivi della persona umana. Sono piani che prefigurano, nei loro sviluppi storico dottrinali, due tavole di diritti: l'una finisce con l'indicare come diritti tutte le esigenze costitutivo-esistenziali e i desideri che rafforzano la vita di qualità in un universo permissivistico, consumistico; l'altra finisce con l'indicare come diritti i «costitutivi» indispensabili per l'esistenza stessa della persona e i diritti etico-sociali necessari per una loro adeguata tutela; l'una giustifica gli attentati alla vita e li considera autentici diritti (diritto all'aborto, diritto all'eutanasia, ecc); l'altra condanna irrevocabilmente ogni attentato alla vita, anche se autorizzato dallo Stato.15 Condanna presente, come già accennato, nella critica alla Filosofia moderna, per aver questa proposto una soggettività esasperata e una libertà sradicata dalle sue leggi ontologiche, sradicata dalla verità, ma collegata a quanto di più astratto l'individualismo atomistico possa proporre nelle sue riflessioni sulla vita.

La problematica della Filosofia del diritto, se non è affrontata con carattere sapienziale, non può essere indirizzata verso una funzione di valutazione critica del diritto positivo, perché questo, in tale ipotesi, avendo come fondamento la rilassatezza dei costumi, giustifica gli attentati alla vita, specie se debole, e alla libertà. in un clima di rilassatezza dei costumi, infatti, gli attentati alla vita e alla libertà, se compiuti dal più forte, si qualificano come diritti, perché il fondamento della giustizia, in tale visione, è appunto l'utile del più forte (Trasimaco).

La Filosofia del diritto perde carattere sapienziale, perde di vista il valore a cui rapportare la fattualità quando il fatto empirico è elevato ad unica realtà da tener presente. ln sostanza, se la libertà non esercitata nel rispetto delle sue leggi ontologiche, conseguenzialmente si apre la strada alla giustificazione di ogni attentato alla vita e alla libertà degli altri e di se stessi. Giustamente a tal proposito nell'Evangelium Vitae, è ricordato che, quando la libertà «non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità... la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio ».16

Quel che è indispensabile, perché la Filosofia del diritto come filosofia della giustizia abbia una funzione di valutazione effettivamente critica nei confronti del diritto positivo, è che a fondamento dei diritti essenziali sia riconosciuto un ordine che non appartiene esclusivamente all'uomo, che non

inizia e non si consuma nel contesto cli chi vive la singola vita. È necessario ricordare, cioè, che la vita individuale è manifestazione, concretizzazione storica di un ordine vitale universale: in breve, la vita di ciascuno di noi non è creata dal nulla, non è atomisticamente esistente senza alcun collegamento,senza alcuna rapportabilità. Al di là, cioè, della «socialità», intesa come elemento costitutivo della persona umana, che, nel contesto della società, la porta ad avere una serie di relazioni sul piano orizzontale con le altre persone, va riconosciuta l'esistenza di un ordine universale trascendente o naturale a cui l'ordine vitale di ciascun uomo e di tutta l'umanità va collegato.

So bene che questo è un discorso il quale presuppone l’etica religiosa o l’etica naturale, e non anche l'etica utilitaria: so anche che esso mi porta a privilegiare la Filosofia del diritto come Filosofia della legge, ma so anche che la Filosofia del diritto in senso moderno, come rivendicazione dei diritti, nella migliore ipotesi, giunge, e non di rado, a considerare prevalenti i diritti non essenziali, con la conseguente riduzione della funzione di valutazione critica della Filosofia del diritto a critica dei procedimenti metodologici.

La riprova di quanto appena esposto si ha quando si pensa che alcuni codici civili, come ad esempio quello italiano, sulla spinta della Pandettistica tedesca, sono stati impostati secondo una versione patrimoniale del diritto civile, proponendo l'articolazione dei loro istituti principalmente intorno al diritto di proprietà. So che questa è una lacuna controbilanciata, anche se solo in parte, dalla regolamentazione dei diritti della persona nelle costituzioni e nei codici penali, dove i diritti personali (diritto alla vita e alla libertà) sono più tutelati di quelli patrimoniali. Ma mi chiedo se ciò sia sufficiente per arginare le conseguenze delle accennare lacune dei codici civili. Non sono ottimista, tanto se penso al sistema giuridico dell'Europa continentale, quanto se penso al sistema della common law. Anche nell'ambito di quest’ultimo, infatti, i diritti patrimoniali trovano forse una tutela maggiore di quelli essenziali, cioè del diritto alla vita e del diritto alla libertà. E sebbene sia superfluo ricordare che il diritto all'eredità presuppone il diritto alla vita, quel che sul piano del diritto positivo, del comportamento dei giudici, è certo è che il diritto all'eredità dell'embrione congelato è stato riconosciuto e tutelato, mentre il diritto alla vita degli embrioni congelati non è riconosciuto e tutelato, quanto meno non con la stessa decisione e con la stessa chiarezza con cui è riconosciuto il diritto all'eredità.

 

6. Le considerazioni svolte mi portano a sostenere l'indispensabilità dell'insegnamento della Filosofia del diritto come diritto naturale classico se non si vuole rinunziare a una valutazione critica nei confronti del diritto positivo non rispettoso dell'inviolabilità della vita e dell'incoercibilità della libertà. La Filosofia del diritto, quindi, come diritto naturale in senso classico, e non in senso moderno, per evitare che i suoi principi, avendo come fondamento le leggi della ragione, in una loro proiezione dottrinale esasperata siano irrispettosi della struttura ontologica delle persone e dei naturali principi della socialità. So che un simile discorso mi porta a sostenere i principi della Veritatis splendor, ma so anche che, al di là dell'etica religiosa, pure sul piano dell'etica naturale, dove la verità non può venire a patti con l'auctoritas non fondata nella veritas, veritas facit legem.

L'opportunità, quindi, della presenza della Filosofia del diritto come filosofia della legge delle essenze della persona umana; essenze che, pur valutate nella loro costitutività, vanno valutate come calate nelle diverse condizioni storico-sociali, e quindi attuate secondo la possibilità offerta da tali condizioni. Sono d’accordo, perciò, nel considerare come costitutivi della struttura ontologica della persona i diritti essenziali indicati nell'art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948). «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona». Dichiarazione che non implica una prevalenza dell'impostazione patrimonialistica dei diritti umani.

La Dichiarazione universale, quindi, come una sorta di diritto naturale vigente che richiama l'attenzione sui diritti fondamentali, considerandoli come le essenze della persona umana, iscrivibili comunque nel contesto strutturale della libertà come valore, e non già nel contesto della libertà come, iscrivibili, cioè, in ultima istanza, nell’essenza della persona umana e nella sua legge.

In tal modo interpretata, l'impostazione della Dichiarazione Universale porta gli ordinamenti giuridici statali, da una parte, a sollecitare le azioni dell'uomo libero verso il rispetto dell'interesse generale della collettività e dello Stato, quindi verso il reciproco rispetto delle persone; dall'altra, li porta a riconoscere come giuste le leggi promulgare da un’autorità che operi nel rispetto della ragione delle cose naturali e, solo in subordine, della ragionevolezza.

Viene in tal modo rivalutata la dimensione dell'essere su quella dell'avere, la sfera dei diritti personali su quella dei diritti patrimoniali, anche se quest'ultimi vanno valutati nella misura in cui sono necessari per garantire e rafforzare il rispetto e l'esercizio di quelli personali.

 

7. Accettare l’etica religiosa o, in subordine, l’etica naturale come ambito della Filosofia del diritto significa non solo prendere posizione a favore delle leggi che rispettano il diritto alla vita, i diritti presenti nella struttura ontologica dell'essere, ma anche impegnarsi, nello scontro fra il bene e il male, ad operare in maniera che la vita, in ogni sua situazione, sia rispettata perché essa è comunque un bene. Da qui la necessità di una valutazione critica negativa di ogni legge che, informata all'egoismo dei «forti», giustifichi qualsiasi attentato compiuto contro la vita dei «deboli». In breve, la Filosofia del diritto come Filosofia della legge è, per la cultura della vita che implica, portatrice non solo del rispetto delle persone ora viventi, ma anche del rispetto delle generazioni future17. È un rispetto sollecitato dalla consapevolezza che le persone viventi attualmente non hanno diritto alcuno a compromettere la vita di coloro che verranno in futuro; esse anzi, nel rispetto del fondamento della loro natura, hanno l'obbligo di conservare la loro vita e l'habitat naturale al fine di garantire la vita futura.

Ciò rafforza l’idea precedentemente svolta secondo cui la Filosofia del diritto, nello svolgere la sua funzione di valutazione critica, tanto nei confronti del diritto positivo, quindi del legislatore, quanto nei confronti degli operatori giuridici, deve partire non dall'uomo atomisticamente considerato, chiuso nel suo individualismo e nel suo egoismo, ma dall'uomo custode della propria vita e rispettoso di quella degli altri, il quale ha, fra i costitutivi della sua essenza, la socialità e la solidarietà, accanto ovviamente alla vita, alla razionalità e alla libertà. Se l'uomo, cioè, riconosce un rapporto di derivazione e di collegamento continuo fra l'ordine vitale umano e l'ordine universale, fra l'uomo e Dio, fra l'uomo e la natura, proprio per la sua naturale socialità, riconosce la naturale indispensabilità della famiglia, della società e dello Stato. Ma, perché l'uomo tenga presente ciò, è necessario che la funzione della Filosofia del diritto sia quella di ricordare che le leggi, in ultima istanza, non sono formulate ma dichiarate, cioè, non sono proposte ed eseguite o fatte eseguire nel rispetto di convenzioni, ma nel rispetto dell'ordine della verità delle cose in cui sono già scritte. Il legislatore, il potere supremo in genere, è sovrano solo nella misura in cui riesce a cogliere e a dichiarare le norme insite nella realtà delle cose che deve regolamentare, nel rispetto delle leggi dell'ordine del creato o comunque della natura. Sovrana, cioè, non è l'attività di chi rappresenta il potere supremo, sovrane non sono le leggi che regolamentano tale attività, ma le leggi dell'ordine delle cose da disciplinare.

Ne deriva che la Filosofia del diritto non può mai rinunciare, se non vuole essere ridotta a teoria generale o a sociologia del diritto, alle fonti non scritte, cioè non può mai accettare di indicare come fonti dell'ordinamento giuridico solo le fonti scritte. Deve, invece, accettare anche le fonti non scritte, rapportabili ovviamente alla naturale «socialità» dell’uomo e non al comportamento dell'uomo, alle leggi dell'essenza dell'uomo e, in ultima istanza, alle leggi della Creazione, le quali, lo ripeto, dovrebbero costituire il fondamento anche delle fonti scritte.

Come nel contesto filosofico-politico la libertà deve essere esercitata nel rispetto delle sue leggi ontologiche, che poi sono le leggi dell'essenza umana, se non si vuole che la società sia governata dal totalitarismo (nel quale tutta la libertà è per la classe politica) oppure dall'anarchismo individuale (nel quale tutta la libertà è per ogni individuo atomisticamente considerato che rinunzia al naturale coordinamento delle libertà), così nel contesto filosofico-giuridico le fonti primarie del diritto positivo non possono essere i principi indicati convenzionalmente, anche se con rigorosità razionale, ma le fonti non scritte, espressione dell'ordine del creato o della natura, comunque tali da assicurare una corrispondenza, nelle linee essenziali, fra leggi insite nell'ordine delle cose da regolamentare e leggi che formano l'ordinamento giuridico positivo. Diritto naturale e diritto positivo, quindi, non come entità contrapposte, ma coordinate in un rapporto di derivazione e anche di completamento, nel senso che le leggi positive devono essere provviste di sanzione per scoraggiare coloro che compiono le loro azioni con mente turbata dalle passioni. In questo senso il diritto naturale, calato nella storia degli Stati, ha bisogno della sanzione positiva, statuale, al fine di sollecitare la persona al rispetto delle leggi, che, ripeto, devono essere dichiarate nel rispetto dei principi del diritto naturale.

 


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