La questione vietnamita, in Italia, fu sollevata all’inizio dal Pci, e questo non solo per un palese interesse politico e strategico, ma anche per la disponibilità nelle fila del comunismo italiano delle risorse intellettuali (e giornalistiche o editoriali) necessarie a “vedere” un fenomeno che nei primi anni ’60 non era ritenuto rilevante dai più. In quel periodo, in realtà, la stampa comunista non prestò un’attenzione particolare alla questione vietnamita, considerata una delle tante pagine della lotta anticoloniale e antimperialista, anche se destinata ad intrecciarsi ben presto con i conflitti ideologici e politici che contrapposero cinesi e sovietici. Su Rinascita, allora diretta da Togliatti, i servizi dall’estero erano numerosi, a testimonianza di uno spirito militante e internazionalista, e volti ad approfondire non solo le vicende politiche ma anche lo sfondo sociale, economico e culturale di paesi per molti aspetti lontani e diversi. Gli articoli che apparivano all’epoca sull’Unità e su Rinascita erano al solito assai curati, e rivelavano non solo la disponibilità di buone fonti, ma anche l’esistenza di una sperimentata rete di collegamenti e conoscenze internazionali che permetteva la pubblicazione di corrispondenze, o la traduzione di documenti originali.
Su Rinascita, del Vietnam scrivevano soprattutto giornalisti: Gianfranco Corsini (che nel 1965 si trasferì negli Stati Uniti, fornendo così informazioni di prima mano e documentando le attività del movimento americano contro la guerra), il capo servizio esteri del quotidiano romano Paese Sera Giorgio Signorini, Emilio Sarzi Amadè, talvolta anche Lisa Foa e Giuseppe Boffa. A partire dai primi anni ’60 apparve frequentemente su Rinascita la firma di Silvia Ridolfi, pseudonimo di Enrica Collotti Pischel, che per i forti pregiudizi anticomunisti degli ambienti dell’Ispi in cui lavorava non poteva scrivere apertamente sui giornali del Pci. All’inizio del 1963, Silvia Ridolfi poteva scrivere che «benché assai meno in evidenza di Cuba, di Berlino o del problema nucleare, il Vietnam meridionale continua a essere uno dei centri principali di frizione nel mondo». L’analisi del coinvolgimento americano al tempo del regime di Ngo Dinh Diem era severa. «Nel corso dell’ultimo anno – continuava Enrica Collotti Pischel – il Vietnam meridionale è diventato il terreno di sperimentazione di quelle tecniche della “guerra speciale” (cioè degli strumenti e dei sistemi di repressione della guerriglia rurale) che da anni strateghi e psicologi del Pentagono stanno elaborando». I temi della lotta antimperialista nei paesi coloniali o ex coloniali erano anche affrontati, nel 1963, da un collaboratore anonimo, Asiaticus, che ricostruiva correttamente gli eventi della cosiddetta rivoluzione d’agosto del 1945 (quando era stata proclamata la nascita della Repubblica democratica del Vietnam), e la teoria del “momento favorevole” elaborata in quegli anni da Ho Chi Minh. Questa precoce attenzione portò Lisa Foa a recensire tempestivamente l’importante libro di Nguyen Kien (Le Sud-Vietnam depuis Dien-Bien-Phu, Maspero, Paris, 1963) sulla crisi nel Vietnam del sud. Il libro, favorevole alla causa del Fronte di liberazione nazionale e destinato a segnare le interpretazioni del conflitto, era stato scritto utilizzando uno pseudonimo da un vietnamita residente allora a Parigi, probabilmente Nguyen Khach Vien.
Nel corso dei due anni successivi, L’Unità e Rinascita prestarono un’attenzione crescente alla questione vietnamita, e la svolta avvenne nella primavera del 1965, dopo l’incidente del Golfo del Tonchino dell’anno precedente e la decisione del presidente Johnson di inviare nel paese asiatico le prime unità combattenti. Alla fine di maggio, Gian Carlo Pajetta, di ritorno da Hanoi, firmava un importante editoriale che inaugurava sul settimanale del Pci la campagna di mobilitazione contro quella che ormai era ufficialmente la guerra del Vietnam. «Il problema del Vietnam – scriveva l’esponente comunista, diventato direttore di Rinascita dopo la morte di Togliatti nell’agosto del 1964 – cessa di essere un problema locale anche acuto, acquista un valore universale; diventa un banco di prova per le forze che minacciano la pace in ogni parte del mondo e per le forze che, in ogni parte del mondo, vogliono respingere il pericolo di guerra». In quei giorni venne organizzata alla Basilica di Massenzio, a Roma, una “marcia della pace” che era probabilmente la prima iniziativa in Italia a favore della resistenza vietnamita, e nel corso della quale presero la parola vari esponenti politici e intellettuali. In quell’occasione il poeta Alfonso Gatto parlò con tono ispirato. «Possiamo dire: tutti insieme, e uno per uno, col nostro volto, con la nostra anima, col nostro sapere e col nostro temere, siamo vicini agli uomini, alle donne e ai bambini del Vietnam, nel riconoscerci colpevoli della guerra che li uccide, se non riusciremo a fermarla e a denunciarla alla comune coscienza dei popoli … La resistenza che il Vietnam da quarant’anni oppone ai suoi invasori è già leggenda che parte dal cuore dei poeti».
La mobilitazione promossa dai comunisti in Italia a favore del Vietnam fu effettivamente efficace, di massa come si diceva allora, e capillare. Nel novembre 1965, nel contesto dell’inasprimento degli scontri tra esercito nord-vietnamita e unità americane (la battaglia del fiume Ia Drang, che segnò una svolta tattica nella condotta della guerra per il massiccio impiego da parte di Washigton di forze elitrasportate), la mobilitazione si estese, e la stampa comunista segnalò tutte le manifestazioni a favore della pace in Vietnam che si tenevano in Italia, negli Stati Uniti e negli altri paesi europei. Il 27 e il 28 novembre vennero organizzati in molte città italiane raduni, veglie, cortei. A Roma, nella notte tra il 27 e il 28 novembre venne organizzata al Teatro Adriano una “Veglia per il Vietnam” che vide la presenza di vari esponenti politici e uomini di cultura.
Il mondo della cultura e il Vietnam
L’adesione di molti intellettuali rappresentò un caso esemplare e significativo di successo della mobilitazione del Pci. Le iniziative a favore della pace in Vietnam videro la mobilitazione (talvolta spontanea, talvolta direttamente guidata dal Pci) di un variegato ambiente intellettuale, che si prestò in varie forme a sostenere una causa ritenuta giusta.
Aveva probabilmente ragione Mario Spinella, su Rinascita, a segnalare una nuova disponibilità degli ambienti intellettuali, il cui impegno a favore del Vietnam appariva già, alla fine del 1965, «vasto e deciso». Un dato che fu confermato senz’altro dal famoso “Appello dei quarantasei”, firmato da artisti e intellettuali europei e pubblicato sul New York Times alla fine del 1965. Accanto a Sartre, Böll, Prevert, Simone de Beauvoir, Margherite Duras, Max Ernst, e poi Günter Grass, Enzensberger, Stockhausen e altri, vi erano anche otto italiani. Michelangelo Antonioni, Cesare Zavattini, Francesco Rosi rappresentavano il coté cinematografico, ma firmarono anche lo scultore Giacomo Manzù, gli scrittori Alberto Moravia, Ignazio Silone (le cui tormentate vicende politiche e biografiche non accreditavano come un semplice strumento dei comunisti), Lorenza Mazzetti, e un anticomunista democratico, cosmopolita ed eretico come Nicola Chiaromonte.
In quegli anni molti intellettuali e artisti accettarono di “sporcarsi le mani” con la politica e la storia. Non si trattava, peraltro, del fascino del solo Vietnam, di cui si sapeva ben poco. Tendeva piuttosto a prevalere un senso o un gusto per le vicende dei paesi del Terzo Mondo in generale, dove erano in corso processi di tipo rivoluzionario: Cuba e l’America latina, l’Algeria, la Cina e, appunto, il Vietnam. Moravia, nel 1967, scriveva della rivoluzione culturale cinese, e alla XXVIII Mostra del cinema di Venezia, nello stesso anno, concorsero film dai titoli evocativi, ma forse fuorvianti, come “La cinese” di Jean-Luc Godard e “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio. Tra gli altri vi erano Renato Guttuso, che proprio in quel periodo firmava opere piene d’inventiva e di forza (anche di forza civile), e Italo Calvino che nel settembre 1966 accettava di scrivere per un editore britannico un breve testo contro la guerra del Vietnam. Calvino, che aveva lasciato il Pci nel 1957 e alla metà degli anni ’60 era probabilmente assai distante da ogni forma d’impegno, affermava che «in un mondo in cui nessuno può essere appagato di se stesso o in pace con la propria coscienza, in cui nessun paese o istituzione può pretendere di incarnare un’idea universale e neppure soltanto la propria verità particolare, la presenza del popolo del Vietnam è la sola che getti un raggio di luce». In un Vietnam unito «sotto la pioggia di bombe e di napalm», proseguiva Calvino, vi erano tre immagini esemplari: «gli uomini giusti e pazienti di Hanoi che governano un paese vittima di un’eccessiva e abominevole violenza»; la guerriglia delle campagne del Vietnam del sud, «che di tutte le lotte partigiane del nostro secolo è la più diffusa … la più sostenuta dagli abitanti, la più ingegnosa»; i monaci buddisti, «che per gridare la parola pace più forte dei rumori della guerra» fanno parlare «le fiamme dei loro propri corpi irrorati di benzina».
Alla richiesta dei curatori di Authors take sides on Vietnam, avevano peraltro risposto altri italiani, Giovanni Arpino, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Berto e Mario Luzi (su circa venti interpellati). Non tutti espressero le stesse recise convinzioni di Calvino, ma tendenzialmente si manifestava ostilità alla guerra in sé. Arpino, pur ammettendo ovviamente di «non saper cosa suggerire per porre fine alla guerra», appariva convinto che «l’uomo bianco» non potesse lasciare il Vietnam con il proprio prestigio intatto. Un prestigio già «messo a repentaglio dai suoi bombardamenti». «Oggi – continuava lo scrittore – è necessario lasciare il Vietnam … per salvare quella civiltà che è pur sempre nostra e che noi possiamo offrire come esempio alle giovani nazioni» del Terzo Mondo. Se Bacchelli, invece, rinunciava a fornire una qualsiasi apprezzabile opinione, come Berto che classificava la questione del Vietnam tra le chiacchiere e il tempo perso della classe politica italiana, Mario Luzi argomentava con forza, denunciando l’intervento americano in Vietnam come esempio di una certa e vecchia politica di potenza. Un intervento destinato a «rovinare l’immagine della democrazia americana … e ad oscurare la luce che brilla in ogni uomo libero o che ambisce a diventare libero». «Non c’è dubbio – continuava il poeta – che in America l’opinione illuminata soffre per una guerra crudele a cui il suo governo ha erroneamente legato il proprio prestigio».
Se autori non pregiudizialmente ostili agli Stati Uniti, come Luzi e Arpino, ritenevano di non poter condividere le ragioni dell’intervento americano in Vietnam, altri accentuavano il proprio profilo antiamericano. Nel 1966, Luigi Nono aveva dedicato le musiche di “A floresta è jovem e chea de vida” proprio al Fronte di liberazione nazionale del Vietnam, e successivamente, nell’aprile del 1967, partecipando con altri a un famoso teach-in all’Università di Roma, rivelava opinioni decisamente radicali; le sue posizioni furono espresse compiutamente in un intervento pubblicato di lì a poco da Rinascita, in cui il musicista echeggiava temi molto dibattuti all’epoca negli ambienti giovanili e neomarxisti non legati al Pci, o che da questo partito erano delusi. «È possibile ancora limitarci a forme di solidarietà col Vietnam aggredito … – si chiedeva – le quali non tengano sufficientemente conto del fatto che il Vietnam … [è] anche in casa nostra, in Italia come in Francia … Il Vietnam in Europa è anche e soprattutto nella fabbrica componente essenziale della società, in cui il capitalismo esercita il massimo dell’oppressione e dello sfruttamento».
Una testimonianza significativa dell’epoca e del modo in cui si costruì il mito del Vietnam fu un articolo di Marcello Cini apparso su Rinascita nel maggio del 1967. Cini, professore di fisica teorica all’Università di Roma (comunista, ma destinato di lì a poco ad assumere posizioni politiche più radicali partecipando alla fondazione della rivista e poi del quotidiano Il Manifesto), aveva fatto parte della delegazione del Tribunale Russell inviata nel Vietnam del nord per documentare gli effetti dei bombardamenti americani. Ciò che il docente universitario italiano vide può essere ritenuto esemplare di un certo modo di intendere la questione vietnamita: la prospettiva di Cini, infatti, tendeva ad enfatizzare non tanto la lotta nazionale per comporre le ferite della decolonizzazione e ritrovare l’unità di un paese diviso sull’altare della guerra fredda, quanto l’originalità della società socialista che era stata costruita nel Vietnam del nord. Sottolineando ciò che ai suoi occhi era una forma genuina di partecipazione popolare alle decisioni, Cini (coltivando suggestioni e illusioni di tipo maoista) rilevava l’importanza del decentramento e la «dispersione nelle campagne di tutte le attività economiche, culturali e sociali». Un processo che appariva accelerato dall’estendersi del conflitto, ma apparentemente insito nella stessa concezione del socialismo dei «compagni vietnamiti». La visione mitica della costruzione del socialismo in Vietnam portava Cini a ritenere che i «sacrifici che la guerra impone … sono superati con lo slancio che deriva da questo processo di affratellamento di tutto un popolo, dalla consapevolezza che il superamento di contraddizioni tradizionali come quella fra città e campagna porta verso una sempre maggiore uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini». E ancora, applicando al Vietnam le suggestioni della propaganda maoista nella Cina della rivoluzione culturale, il metodo adottato per la costruzione di una società socialista sembrava quello di «svolgere una funzione di stimolo all’iniziativa delle masse, mai di una imposizione che burocraticamente faccia cadere dall’alto strutture precostituite». Le conclusioni erano inevitabilmente connesse al qui e adesso: «da parte del movimento operaio dei paesi capitalistici occidentali … l’appoggio al Vietnam deve andare al di là della doverosa protesta contro l’ingiustizia e della generosa solidarietà verso un paese aggredito, ma deve diventare consapevolezza della stretta interdipendenza che lega tutte le lotte per il socialismo nel mondo».
Le posizioni di Marcello Cini, che prefiguravano per l’insieme del movimento operaio internazionale una strategia di tipo rivoluzionario, non potevano essere condivise dalla leadership del Pci. Per i comunisti italiani, negli anni ’60 la questione vietnamita tendeva a intrecciarsi con le scelte strategiche di fondo del campo socialista, che riguardavano innanzi tutto gli interessi e le prospettive politiche dell’Unione Sovietica dopo la morte di Stalin e le traumatiche vicende del 1956. Si trattava di scelte che si dovevano collocare nel contesto della crescente e insanabile contrapposizione tra Mosca e Pechino, in un dissidio destinato a ripercuotersi drammaticamente nelle relazioni tra i partiti comunisti dei due paesi e del resto del mondo.
Il Pci, enfatizzando il ruolo e la funzione di una politica di coesistenza e di distensione, anche per ragioni di politica interna, intervenne a più riprese nel contenzioso sino-sovietico, anche se all’inizio in forme ammantate da reticenza e da cautele: per Togliatti, prima di tutto, era decisivo lo sforzo per mantenere l’unità del movimento comunista internazionale, e anche se vi furono nella sua elaborazione alcuni elementi critici (dal concetto di policentrismo alle note del Memoriale di Yalta del 1964) si trattava pur sempre di una visione sostanzialmente illusoria e deludente. Già nei primi anni ’60, infatti, i segni della degenerazione del campo socialista erano vistosi, anche se le crisi internazionali di quel periodo – e segnatamente la guerra del Vietnam – sembrarono accentuare la contrapposizione tra i sistemi tipica della guerra fredda.
I comunisti italiani erano sicuramente lontani dall’estremismo dei cinesi, a cui rimproveravano la responsabilità della divisione del movimento operaio internazionale; una divisione che, appunto, ostacolava la causa vietnamita. Negli ambienti del Pci (per influenza di Togliatti e di altri), tendeva a prevalere un’opinione sostanzialmente anticinese per convincimenti che erano connessi, ovviamente, al ruolo storico dell’Unione Sovietica nella formazione del movimento comunista internazionale, un ruolo che aveva condizionato l’esperienza e la storia personale di molti esponenti e militanti. Per queste ragioni, oltre che per motivi più precisamente strategici e politici, il Pci si era rivelato più favorevole ai sovietici nel contenzioso che opponeva questi ultimi a Pechino, anche se le posizioni dei comunisti italiani non furono necessariamente sommarie o appiattite sulle posizioni di Mosca. Il Pci, comunque, non poté impedire che l’influenza delle tesi cinesi sulla ineluttabilità della sconfitta delle forze imperialiste, diffuse in vari modi dal sistema d’informazione, alimentasse in Italia componenti sensibili a ritenere la guerra del Vietnam un modello applicabile anche nei paesi sviluppati dell’Occidente capitalista. Il conflitto vietnamita, dunque, fu ben presto condizionato, e non solo in Italia, da aspetti politici e propagandistici che tendevano ad occultare la sua vera natura di guerra limitata geograficamente e strategicamente, interna alla società vietnamita.
I temi che laceravano il movimento comunista internazionale, peraltro, vennero affrontati all’XI Congresso del Pci, nel gennaio del 1966, quando si scontrarono – elidendosi – componenti diverse (la sinistra interna rappresentata da Pietro Ingrao e la componente più moderata di Giorgio Amendola). Non fu uno scontro tra “filo-cinesi” e “filo-sovietici”, ma certamente in quelle assise venne sconfitta la proposta di una strategia politico-sociale caratterizzata da una maggior radicalità, portatrice, in qualche modo, di un messaggio improntato all’esigenza di trasformazioni profonde della società italiana. In quell’occasione, Longo, quale esponente del centro del partito, attaccò i comunisti cinesi, definiti «frazionisti», anche se non ritenuti responsabili delle tensioni in Asia sud-orientale: queste erano ascrivibili piuttosto all’aggressione americana. Un’aggressione responsabile non solo di una battuta d’arresto del processo di distensione, ma anche all’origine di quella che il segretario del Pci definiva una vera offensiva delle forze conservatrici e reazionarie mondiali.
In questo contesto politico, dunque, il gruppo dirigente del Pci utilizzò la questione vietnamita per rivendicare una sostanziale coerenza politica e ideologica con l’esperienza scaturita dalla rivoluzione d’ottobre, senza però sposare tesi che avrebbero rinnegato le scelte compiute faticosamente dopo la seconda guerra mondiale. Alla fine degli anni ’60, probabilmente, il Pci mascherava con il richiamo all’ortodossia ideologica un progetto politico assai innovativo che implicava un sostanziale allontanamento dall’Unione Sovietica e dai modelli del socialismo reale. Si trattava di una via che, in parte e in termini più propagandistici che politici, poteva forse colmare l’isolamento di un partito messo in difficoltà dal varo dei governi di centro-sinistra. Queste scelte, di fronte alle esigenze di mutamento che emergevano da vasti settori della società italiana e con il concorso della vacuità della politica socialista, si dimostrarono sul piano elettorale dotate di una certa efficacia (soprattutto tra il 1968 e il 1976), anche se scontarono da un lato la perdurante diffidenza degli ambienti moderati, e dall’altro il progressivo formarsi di pur minoritarie forze politiche di estrema sinistra.
I comunisti italiani, dunque, per precise ragioni interne ritennero prioritaria la campagna a favore della resistenza vietnamita, oltre a dispiegare un notevole sforzo diplomatico: dopo la missione di Pajetta del 1965, alla fine del 1966 un’altra delegazione ufficiale (composta da Enrico Berlinguer, Carlo Galluzzi e Antonello Trombadori) ebbe incontri al massimo livello in Vietnam (e in Cina). In realtà, come ebbe a ricordare Enrico Berlinguer, il Pci si dimostrò molto attivo nella stessa ricerca di una soluzione pacifica del conflitto, cercando di favorire l’avvio di trattative tra le parti in causa. Nel dicembre del 1966, infatti, la delegazione del Pci ad Hanoi aveva incontrato ripetutamente i massimi esponenti nord-vietnamiti, riportando le valutazioni e le posizioni di quelli che Berlinguer definì «ambienti responsabili del nostro paese». «Eravamo, dunque, in grado – continuava l’esponente comunista – di esporre valutazioni sul conflitto delle principali forze politiche del nostro paese e, quindi, di illustrare, a nostra volta, i punti di vista del Vietnam del nord». «Aggiungo – sottolineava Berlinguer – che fummo anche in grado di esporre ad Hanoi, in forma autorizzata, le opinioni del nostro ministero degli Esteri», di cui era allora incaricato Amintore Fanfani. La missione dei comunisti italiani, peraltro, riguardava anche la Chiesa cattolica. «Prima di partire – affermava ancora Berlinguer – avevamo avuto contatti anche con alte personalità ecclesiastiche che non avevano mancato di metterci in grado di riferire gli orientamenti dominanti al vertice cattolico, affidandoci, inoltre, richieste precise da trasmettere al governo di Hanoi». L’atteggiamento del Pci, in particolare tra il 1965 e il 1967, sembrava dettato dall’esigenza di ricercare alleati.
La politica delle “alleanze”, il Pci e il Vietnam
La mobilitazione per il Vietnam, nelle scelte del Pci, s’intrecciò con la questione delle alleanze di una compagine politica sostanzialmente isolata da quando, nel 1964, il Partito socialista italiano si era reso disponibile ad entrare in un esecutivo a guida democristiana, inaugurando la fase del cosiddetto “centro-sinistra”. La strategia del Pci (costretta dalla nuova fase politica entro gli asfittici confini della propaganda e dell’agitazione), doveva dunque fondarsi sul dialogo, e sull’apertura nei confronti dei cattolici e dei socialisti che avessero manifestato uno spirito “unitario” e si fossero dimostrati disponibili a discutere con i comunisti. Il Vietnam assunse ben presto la funzione del mezzo per permettere la convergenza politica tra forze altrimenti antagoniste. E in effetti, in quel periodo non mancarono convegni, incontri, discussioni pubbliche
I convegni e le discussioni pubbliche erano però soltanto manifestazioni secondarie di un processo politico che, per quel che riguardava il Pci, aveva assunto caratteri ben più rilevanti e implicava un’azione diretta nei confronti sia dei socialisti, sia, e soprattutto, dei cattolici. Questa politica unitaria, discussa ed elaborata nel corso degli anni ’60, era stata approvata dall’XI Congresso del Pci, tenutosi a Roma alla fine di gennaio del 1966. La strategia dei comunisti, peraltro, non riguardava soltanto la cosiddetta sinistra democristiana, ma la stessa Chiesa cattolica. I comunisti auspicavano di trovare un nuovo terreno di dialogo, se non d’intesa, con la Chiesa consapevoli che la guerra del Vietnam aveva contribuito a mostrare le contraddizioni del mondo cattolico e della stessa gerarchia vaticana. I segni di un’accresciuta libertà di coscienza in seno al mondo cattolico, e il ripudio delle crociate anticomuniste, dunque, sembravano offrire ai comunisti nuove opportunità politiche.
Il tema della pace minacciata spiegava la campagna del Pci a favore del dialogo, mettendo in evidenza da un lato la questione del rapporto con i cattolici, e dall’altro l’interpretazione delle «vere cause» della guerra vietnamita. Si trattava di un processo tutt’altro che lineare, e destinato a non modificare la collocazione di forze significative del mondo cattolico, se Enrico Berlinguer, allora astro nascente della gerarchia comunista, poteva scrivere che «il momento della responsabilità e della chiarezza è venuto o sta per venire per tutti. Anche per quelle forze dirigenti della Chiesa cattolica che, pur essendosi mosse in generale, in questi ultimi anni, secondo una fondamentale ispirazione di pace, incomprensibilmente, proprio negli ultimi tempi, sembrano aver rinunciato a far sentire tutto il peso della loro autorità. O forse si esita proprio perché gli sviluppi più recenti della situazione hanno reso evidente che vi sono oggi questioni concrete e decisive (ad esempio, e prima di tutto, la questione della sospensione dei bombardamenti) di fronte alle quali i generali appelli alla pace non sono più sufficienti?». Le speranze di dialogo alimentate dai comunisti, infatti, si spensero all’inizio del 1968, quando il cardinale Giacomo Lercaro di Bologna (esponente, con Dell’Acqua e Casaroli, della componente più aperta della gerarchia vaticana) venne destituito per aver duramente condannato i bombardamenti sul Vietnam del nord.
Le ragioni di questa politica delle alleanze implicavano anche l’insorgere di una polemica che proprio in quegli anni si andava delineando, innanzi tutto negli ambienti della sinistra radicale e neomarxista. Una polemica che emerse in termini clamorosi durante una delle più significative iniziative a favore della resistenza dei vietnamiti. Nell’aprile del 1967, l’Unione dei goliardi autonomi di Roma aveva organizzato presso la Facoltà di Fisica, alla Sapienza, un teach-in sulla guerra del Vietnam, imitando una tecnica di mobilitazione e di “controinformazione” assai diffusa a quel tempo negli Stati Uniti. Si trattava di un’iniziativa studentesca sostenuta dalle redazioni di alcuni periodici schierati a favore della resistenza vietnamita, come Rinascita, Testimonianze, Astrolabio, Quaderni Rossi, La sinistra. Al teach-in parteciparono alcuni esponenti della politica e della cultura di spicco, tra cui Aldo Natoli e Lelio Basso, Renato Solmi, Luigi Nono, Italo Calvino. Nel dibattito affiorarono toni che l’estensore della cronaca per Rinascita, Franco Bertone, definì estremistici e velleitari. In questa occasione Franco Fortini pronunciò un intervento destinato a lasciare il segno, affermando che sul Vietnam non ci si univa, ci si divideva. Una considerazione irrituale, e agli occhi dei comunisti, provocatoria. Claudio Petruccioli rispose, su Rinascita, qualche giorno più tardi. «Sul Vietnam ci si deve unire con tutti coloro che hanno posizioni non contrastanti con quelle indicate dai vietnamiti … indipendentemente dalla loro collocazione nello schieramento politico nazionale». L’esponente comunista, poi, proseguiva: «Quando Franco Fortini … giunge a dire che sul Vietnam non ci si unisce ma ci si divide, o gruppi di provocatori fischiano Codignola e La Pira che aderiscono senza equivoci e reticenze alla lotta per la pace e la libertà del Vietnam, allora esiste un ostacolo, un pericolo che dobbiamo abbattere e spazzare via». I comunisti attribuivano un ruolo fondamentale alla costruzione di uno schieramento unitario a favore della pace in Vietnam che coinvolgesse esponenti cattolici e socialisti; e a questo fine agirono con determinazione, animando sulle pagine della propria stampa una vera campagna d’opinione.
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