In Italia, gli anni ’60 furono per molti aspetti segnati da una prima, anche se contraddittoria, e a tratti intensa volontà di dialogo tra forze che in termini culturali e storici si erano rivelate sostanzialmente estranee e antagoniste, come quelle rappresentate dai comunisti e dai cattolici. Negli anni del Concilio Vaticano secondo, al tempo dei pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI, la domanda di rinnovamento del mondo cattolico portava a discutere del ruolo dell’individuo nella società, di “impegno”, aprendosi anche ad istanze sociali che storicamente erano state fatte proprie soprattutto dal movimento socialista e comunista di matrice marxista. In questo contesto di cauta apertura e, come si diceva, di “dialogo”, il Vietnam giunse ad occupare una posizione significativa, quasi fosse un denominatore comune, un elemento di unità acclarata e certa fra tradizioni altrimenti distanti, anche se permaneva una notevole pluralità nelle opinioni del mondo cattolico in relazione al conflitto, e gran parte dei credenti, probabilmente, condivideva per anticomunismo le posizioni filoamericane della Democrazia cristiana, ribadite in anni cruciali dallo stesso Aldo Moro che mostrava «comprensione» per la politica di Washington in Vietnam.
Alcune voci di dissenso, tuttavia, assunsero un ruolo importante. Spiccava, in particolare, la figura di Giorgio La Pira. Formatosi alla scuola di Mounier, Maritain e Sturzo, democristiano della sinistra sociale di Dossetti, l’ex sindaco di Firenze interpretò un ruolo significativo e spesso non ufficiale al margine di eventi e questioni internazionali di rilievo, animando vari movimenti culturali a favore della pace e contro il pericolo della guerra nucleare. Nel 1959, La Pira visitò Mosca, nelle vesti di ambasciatore ufficioso intento a favorire il dialogo tra le grandi potenze; nel 1964 andò negli Stati Uniti e, l’anno successivo, ad Hanoi, dove all’inizio di novembre incontrava Ho Chi Minh. Al ritorno in Italia, La Pira si fece latore di un messaggio dell’esponente vietnamita destinato a raggiungere (per il tramite di Amintore Fanfani, all’epoca ministro degli Esteri e presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite), Dean Rusk e lo stesso presidente Johnson. La leadership di Hanoi, infatti, segnalava a Washington la propria disponibilità per una soluzione negoziata del conflitto, sulla base degli accordi di Ginevra e senza la condizione del ritiro preliminare delle truppe americane. Questa iniziativa, irrituale e per certi aspetti venata di ingenuità (il carteggio venne reso pubblico da parte americana per far cadere ogni prospettiva di dialogo), portò alle dimissioni di Fanfani da ministro degli Esteri, il 28 dicembre del 1965, aprendo in Italia un vero caso che coinvolse e divise le forze politiche nazionali sul tema della politica estera.
Un’altra voce di rilievo in seno al mondo cattolico italiano, e sul piano culturale non distante da La Pira, era quella degli intellettuali che si riconoscevano o gravitavano intorno ad altre riviste, come Note di cultura, di Firenze, poi Il Confronto, a Bologna Il Regno e, sebbene con un profilo assai differente dai periodici citati, anche Il Mulino. Le posizioni di questo mensile erano peculiari, poiché Il Mulino in generale non prestò soverchia attenzione al Terzo Mondo, all’Asia e al Vietnam; per certi aspetti poteva trattarsi di un’omissione sorprendente, vista l’apertura e l’assenza di provincialismo che si riscontravano nella linea redazionale della rivista. I primi riferimenti al Vietnam apparvero solo nel 1966, con un commento al “rapporto La Pira”, e soprattutto con la pubblicazione di un documento anonimo presentato come un’originale e attendibile analisi del dibattito politico interno al regime di Hanoi. Ben poco d’altro fu pubblicato negli anni cruciali del conflitto, a testimonianza d’interessi e di posizioni evidentemente assai distanti da quanto accadeva in un angolo, per Il Mulino, davvero sperduto dell’Asia. Peraltro, il progressismo cattolico degli ambienti che gravitavano intorno alla rivista bolognese aveva radici democratiche e liberali, profondamente innervate in un humus capitalistico e borghese di stampo occidentale che mal si coniugava, all’epoca, con i turbamenti terzomondisti di altri osservatori.
Ben altro ruolo ebbero la gerarchia ecclesiastica e la diplomazia vaticana. Attenta allo sviluppo degli eventi che segnavano all’epoca molti paesi del Terzo Mondo, la Chiesa cattolica – nel contesto dei profondi ripensamenti del Concilio Vaticano secondo, che si concluse nel dicembre del 1965 dopo tre anni di lavori – discusse dell’atteggiamento da assumere di fronte alle montanti tensioni e alle guerriglie dei popoli poveri dell’Asia e dell’America latina. La guerra del Vietnam, in sé, fu un tema di grande interesse per la gerarchia vaticana se nell’enciclica Christi Matri di Paolo VI si esortava a «trattative leali», adottando apparentemente una posizione di apertura volta a smussare gli atteggiamenti oltranzisti e tradizionalmente filoamericani dei cattolici vietnamiti (che negli anni ’50 avevano espresso un esponente discutibile come Ngo Dinh Diem, e ricevuto l’appoggio del cardinale Spellman in una vera crociata anticomunista). Lo stesso Paolo VI, a partire dalla fine del 1965, inviò ripetutamente messaggi a favore della pace agli esponenti delle parti belligeranti, scrivendo a Ho Chi Minh e Nguyen Van Thieu, a Johnson, a Mao, a Podgornij.
Alla fine del settembre 1966 venne inviato monsignor Sergio Pignedoli (che su Rinascita veniva significativamente descritto come «un uomo aperto») presso la Conferenza episcopale sud-vietnamita, per favorire l’incontro e la trattativa tra componenti diverse, e sostenendo una “terza forza” in grado di evitare a Saigon l’alternativa tra un regime sostenuto da Washington e uno appoggiato da Hanoi. La missione di Pignedoli era volta, innanzi tutto, alla “pacificazione”. Tra cattolici e buddisti, e significativamente tra cattolici e cattolici: l’arcivescovo di Saigon, Nguyen Van Binh, aveva usato toni assai polemici nei confronti del regime sud-vietnamita «a riconferma di una larga opposizione di sacerdoti e laici che fanno causa comune con i buddisti». Il documento conclusivo della Conferenza episcopale sud-vietnamita esortava all’unità dei cattolici e disponeva che gli ecclesiastici si tenessero lontani dalla vita politica; inoltre, e si trattava di un elemento nuovo e inusitato, concedeva ai cattolici la libertà di aderire a partiti non cattolici (ma che fornissero comunque garanzie di rispetto della religione e della persona umana).
Le posizioni della Chiesa, peraltro, si erano andate definendo, e all’inizio del 1967 un’altra enciclica di Paolo VI – la Populorum Progressio – aveva posto l’accento sulle ansie di rinnovamento di una parte del mondo cattolico. Il riconoscimento del rilievo assunto dalle questioni sociali su scala mondiale, tuttavia, era bilanciato dall’esigenza di non giustificare le rivoluzioni e le ribellioni armate: «si fa più violenta la tentazione di lasciarsi pericolosamente trascinare verso messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni. Chi non vede i pericoli che ne derivano, di reazioni popolari violente, di agitazioni insurrezionali, e di scivolamenti verso le ideologie totalitarie?» Ma si trattava di un rifiuto che a sua volta, per inciso, era temperato: «sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine».
In questo clima culturale spiccava la posizione del mensile fiorentino Testimonianze, che riservò al Vietnam un notevole rilievo. Espressione di ambienti cattolici impegnati e radicali, legati all’esperienza della comunità dell’Isolotto, Testimonianze divenne sede di ricorrenti, prolungati e intensi dibattiti su vari temi ecclesiali e morali, oltre che politici, e sulle sue pagine si parlò anche della guerra in Vietnam, della legittimità della violenza per ragioni “giuste”. La guerra del Vietnam iniziò ad essere citata negli articoli del mensile fiorentino con maggior frequenza a partire dal 1966, mettendo in dubbio la legittimità della escalation americana. La questione vietnamita, in particolare, fu trattata in due importanti contributi alla discussione (un editoriale e un articolo di Ernesto Balducci) apparsi nel numero di settembre del 1967. Si trattava di riflessioni successive alla divulgazione della Populorum Progressio, il 26 marzo 1967, e in buona misura volte a commentare e a discutere quel testo.
Nell’editoriale “Guerriglia e non-violenza nella strategia rivoluzionaria del Terzo Mondo”, la situazione internazionale (e segnatamente l’escalation dell’intervento militare americano in Vietnam, le rivolte dei neri americani, la guerriglia latino-americana), era ritenuta una fonte significativa per le riflessioni dei cristiani. Considerando la Populorum Progressio un documento volto a prendere atto delle trasformazioni in atto nel mondo, l’editoriale di Testimonianze sottolineava che «lo squilibrio fra i popoli dell’opulenza e i popoli della fame non è puramente economico, ma è di tale natura da esigere una contestazione radicale da parte dei paesi in via di sviluppo nei confronti delle strutture politiche delle società capitalistiche avanzate». Un’analisi che in parte e in una certa misura (nel riecheggiare accenti maoisti) rinviava ai temi già sollevati da Edoarda Masi e da Quaderni Piacentini che in quello stesso anno erano significativamente discussi e approfonditi. Soprattutto, in questo editoriale, era evidenziata la crisi della coesistenza pacifica a causa della «inferiorità economico-militare dei paesi socialisti … rispetto alla super-potenza statunitense». La politica «egemonica ed aggressiva» degli Stati Uniti trovava la sua conferma proprio in Vietnam, dove l’Urss si era rivelata incapace di impedire l’escalation americana e di neutralizzare la spinta «dell’imperialismo». Nel commento del mensile cattolico ciò equivaleva «a un superamento della “via pacifica al socialismo”» e alla giustificazione della guerriglia come forma di lotta. Ciò appariva particolarmente convincente proprio in relazione al Vietnam, dove «la violenza rivoluzionaria è apparsa ai suoi protagonisti come il solo mezzo per sovvertire situazioni di violenza oppressiva e repressiva». Pur rivendicando l’adesione ai metodi della non-violenza, l’estensore dell’editoriale osservava che la guerriglia «si sottrae alla logica del ricatto nucleare» e che essa «si presenta come reazione a una situazione di violenza». Le esperienze non-violente, peraltro, «non hanno saputo o potuto dimostrare ancora la propria efficacia rivoluzionaria. Esse suppongono una generale maturazione civile dell’esperienza sociale, un salto qualitativo rispetto alla barbarie della violenza e della guerra e sono pertanto di applicazione estremamente lenta e difficile. Ciò non toglie nulla alla loro grandezza e dignità, alla sostanziale verità della loro “profezia”, anche se le rende oggi … poco utili al Terzo Mondo».
Ernesto Balducci approfondì e rese più articolate, e problematiche e radicali, le posizioni espresse nell’editoriale di settembre, accentuando un approccio che scavava all’interno delle questioni ecclesiali. Ciò che premeva a Ernesto Balducci era il ruolo della Chiesa in relazione a quelli che definiva i “popoli nuovi”. «Essi – scriveva – non sono l’ondata irrazionale contro la ragione, sono la ragione nuova contro la ragione vecchia, o almeno sono i testimoni di un’alternativa possibile alla civiltà che abbiamo ereditato». Si trattava dei colonizzati o ex colonizzati di cui parlava Fanon, che Balducci citava. Il nocciolo della questione, per Ernesto Balducci, riguardava la natura della Chiesa e il suo ruolo nel mondo, sulla scorta di quanto era evidenziato nella Populorum Progressio. Ed era questa enciclica che l’articolo di Balducci sembrava commentare. «La Chiesa non può non riconoscere una totale parità di diritti civili ed ecclesiali a tutti i popoli e a tutte le razze, ma, in virtù della sua situazione effettuale, essa non può riconoscere fino in fondo quei diritti, per timore di perdere le garanzie umane della sua stessa sopravvivenza». Balducci richiamava dunque la Chiesa a gesti di coraggio. «In che modo – continuava – potremo farci banditori di pace e di mitezza ai negri, ai vietcong, ai guerriglieri di tutto il mondo, noi che nel passato abbiamo giustificato le guerre fatte per una causa giusta?». E concludeva: «Così, ci troviamo, per aver peccato contro gli imperativi assoluti della fede, ad apparire solidali con i popoli ricchi ed oppressori, e a non aver sufficiente prestigio morale … per dare un’anima evangelica al mondo della rivoluzione che si muove. Il segno di tanta angoscia lo ritrovo in me, convinto sostenitore della non-violenza, quando, di fronte ad alcune situazioni limite di questi tempi, mi sorprendo a domandarmi se la violenza non sia l’unica via imposta dall’amore». In conformità a queste riflessioni, dunque, una Chiesa dei poveri non avrebbe potuto fare altro che sostenere la resistenza vietnamita contro gli americani.
Le posizioni di Civiltà cattolica, vale a dire dei gesuiti italiani, illustravano nei confronti del Vietnam e più in generale verso i temi della legittimità della rivolta violenta degli oppressi, un’anima dotata di altra sensibilità e di difforme ispirazione politica rispetto a quella (minoritaria) di Ernesto Balducci.
Civiltà cattolica, negli anni in cui la questione vietnamita si affermava gradualmente come tema di politica internazionale, fornì un’informazione puntuale, senza però enfatizzare quello che alla redazione doveva apparire come un tema non dissimile dai molti in discussione, all’epoca. Gli articoli, regolarmente anonimi ma scritti probabilmente dal gesuita Giovanni Rulli, erano inclusi nella sezione “Estero” della rubrica “Cronaca contemporanea”: si trattava evidentemente di una collocazione di basso profilo. La dignità di articolo, compreso nella prima sezione dei fascicoli del periodico cattolico, venne attribuita solo alle “Impressioni di un viaggio nel Sud Vietnam” di Rulli, e tre mesi più tardi, a “Una escalation sociale per il Sud Vietnam”, dello stesso autore. In questi articoli, d’ispirazione moderata e sostanzialmente filoamericana, l’autore sviluppava il tema del valore strategico degli aiuti umanitari che Washington riversava nel Vietnam meridionale con l’intento di sostenere il regime di Saigon. Giovanni Rulli sembrava attribuire un rilevante valore strategico a questo indirizzo della politica americana, al punto da ritenerlo un elemento sostanziale, in grado di sbloccare la questione delle trattative tra le parti. Un’opinione destinata ad essere smentita dalla recrudescenza del conflitto poche settimane più tardi. Quando il Vietnam si apprestava a diventare questione internazionale di primo piano, e si trasformava in mito, si riduceva fino a scomparire l’attenzione che gli prestava La civiltà cattolica, che non utilizzava neppure la competenza di uno dei suoi collaboratori, il sinologo Giorgio Melis, che in quegli anni scriveva sulle pagine del periodico dei gesuiti di Malesia e Indonesia, senza sfiorare la questione vietnamita.
Il tema della legittimità della violenza in un contesto rivoluzionario fu in ogni caso affrontato sulle pagine della Civiltà cattolica già in un editoriale del 1965, dove si affermava recisamente che «la guerra rivoluzionaria … che al presente insanguina il Vietnam del Sud … è anch’essa un procedimento ancora più illegale e immorale della guerra stessa». Più tardi sarà Bartolomeo Sorge a riprendere con sottigliezza la questione, rifiutando ogni forma di violenza rivoluzionaria.
Una conclusione
Il mito del Vietnam, pur nel contesto di movimenti che esprimevano una legittima e doverosa solidarietà, si alimentò anche di ambiguità e, spesso, di vere incomprensioni dello svolgimento storico. Coloro che enfatizzarono la riproducibilità dell’esperienza rivoluzionaria vietnamita, e la sua “esportazione”, non colsero il carattere specifico di quegli eventi. L’idea di poter diffondere una rivoluzione oltre i confini dello stato che l’aveva tenuta in gestazione, aveva ascendenze nobili ed europee (la Francia napoleonica, i moti ottocenteschi, l’ottobre russo), anche se l’imposizione sulla punta delle baionette di un particolare modello politico e sociale non portò necessariamente ad esiti felici e duraturi. La stessa strategia americana in Indocina, almeno dal 1950, quando Washington decise di finanziare la guerra francese dando inizio al suo intervento nell’area, era dettata dal timore di un’espansione comunista: la teoria del domino, infatti, prevedeva un “motore” (la Mosca di Stalin) e “tessere” periferiche destinate inesorabilmente a cadere una dopo l’altra. Dopo l’Europa orientale, e nel 1949 la Cina, sarebbe stata la volta del Vietnam, della Corea e degli altri paesi dell’Asia orientale e sud-orientale. I timori e le speranze riposti in un simile processo erano eccessivi. I vietnamiti, per quanto sostenuti da idee e da aiuti concreti che giungevano dall’esterno, vinsero per il concorso di fattori squisitamente nazionali. La stessa teoria del “momento favorevole”, elaborata da Ho Chi Minh (e da altri esponenti vietnamiti), riconosceva il carattere eccezionale della fase in cui sarebbe stata possibile l’ascesa e la vittoria delle forze rivoluzionarie. Anche senza rinunciare ai principi dell’internazionalismo proletario, i comunisti vietnamiti tendevano ad enfatizzare i compiti e i doveri di una missione che era eminentemente “nazionale”. Peraltro, proprio il rilievo che questa missione aveva assunto in Vietnam, oltre che in Cina, può spiegare la vitalità di sistemi che (riformati nel profondo) hanno saputo evitare, dopo il 1989, il destino dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti europei.
Di fatto, in Vietnam non fu creato un “modello” di rivoluzione applicabile anche in altri paesi, neppure in Asia, dove le condizioni sociali e le circostanze storiche non erano neppure eccessivamente diverse. Significativamente, la conclusione del conflitto, nel 1975, darà luogo non alla nascita di uno stato unitario rivoluzionario e anticapitalista, ma di una potenza regionale temuta innanzi tutto dal Laos e dalla Cambogia, oltre che dalla stessa Cina. Dopo il 1975, infatti, gli equilibri interasiatici non si assestarono intorno ad un coeso blocco socialista, ma portarono addirittura ad una serie di sanguinosi conflitti militari per l’egemonia tra paesi che in un altro periodo sarebbero stati definiti “fratelli”. Dopo la vittoria e la riunificazione, peraltro, il Vietnam socialista, che anche scontando le notevoli distruzioni e ferite della guerra si trovava sostanzialmente rafforzato in termini di risorse e di potenzialità, diede prova di una desolante inettitudine a procedere sulla via dello sviluppo.
Ancora più velleitarie furono le tesi sul Vietnam come banco di prova della rivoluzione nell’Occidente capitalistico. Anche se le proteste che alla fine degli anni ’60 agitarono vari paesi europei ebbero un forte, ma contraddittorio, carattere radicale, ciò non permise di cogliere un disegno strategico comune; coloro che all’interno della stessa nuova sinistra parevano particolarmente affascinati dal Vietnam non avrebbero saputo definire un programma in qualche misura coerente con le istanze della lotta dei vietnamiti e le voci che pur si levarono per «fare come i vietcong» (tra tutte quella di Oreste Scalzone) erano già allora tacciate di velleitarismo e di infantilismo. Prevalse piuttosto un episodico ed epidermico sentimento di simpatia e di comunanza, destinato ad alimentare proprio il carattere mitico della questione vietnamita; un sentimento che avrebbe mostrato la sua intrinseca fragilità alla prova di una pur approssimativa analisi dei fatti.
Nell’ambito della nuova sinistra, infine, si coltivarono varie suggestioni intorno ai rapporti tra il Vietnam e la rivoluzione cinese. In questi ambienti, soprattutto, si alimentò il mito di un Vietnam “maoista”, avanguardia di quei paesi poveri e arretrati – le “campagne” – che avrebbero circondato le “città” del mondo, le aree metropolitane e affluenti dell’Occidente. Si trattava di un approccio sostanzialmente superficiale, che da un lato misconosceva il carattere propagandistico, e a uso interno, di molte tesi cinesi e dall’altro non intendeva le ragioni strategiche della lotta dei comunisti vietnamiti. La Cina di quegli anni, in realtà, si dibatteva nelle convulsioni politiche e sociali della cosiddetta rivoluzione culturale, scontando di fatto un profondo isolamento internazionale. Questi aspetti non favorivano affatto la convergenza politica tra i due paesi e i due partiti. Se è pur vero che il movimento comunista vietnamita aveva trovato ispirazioni e connessioni concrete con l’esperienza rivoluzionaria cinese ben prima degli anni ’60 (a partire almeno dal decennio tra il 1920 e il 1930), in un rapporto che si era consolidato nel tempo, su molti elementi di fondo le dissonanze apparivano evidenti. Vi erano innanzi tutto divergenze di ordine statuale e nazionale, e se negli anni ’50 e ’60 queste erano poco visibili, sopite dalle comuni esigenze di difesa imposte dalla strategia americana al tempo della guerra fredda, dovevano diventare esplosive nel decennio successivo. Il conflitto tra Pechino e Hanoi, infatti, da potenziale diventò reale a partire dal 1968-69, anche se si manifestò apertamente solo dopo il 1975. A seguito della vittoria, e in particolare nel biennio 1978-79, si susseguirono eventi carichi di drammaticità: persecuzione della minoranza cinese in Vietnam, occupazione della Cambogia, guerra sino-vietnamita.
Peraltro, le differenze tra i cinesi e i vietnamiti si imperniavano anche su una scarsa affinità ideologica e politica. Contrariamente a quanto poteva apparire negli anni ’60, il Partito comunista cinese era nel suo complesso assai meno plasmato dall’esperienza sovietica e stalinista di quello vietnamita (a dispetto di un’opinione che voleva i cinesi ossequienti a Stalin in dispregio a Chruscev), e questo aspetto, anche se non fu probabilmente decisivo, favorì il riallineamento di Hanoi a Mosca successivo al 1975. Infine, le stesse strategie militari, che nella coscienza dei molti occidentali che negli anni ’60 e ’70 sostennero i vietcong erano improntate a un comune modello maoista (e addirittura non lontane dalle idee delle guerriglie latinoamericane), erano su punti cruciali assai diverse.
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