Il mito del Vietnam nella cultura italiana degli anni ’60


Liberalsocialisti, eretici e laici



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Liberalsocialisti, eretici e laici


Il Vietnam appassionò anche componenti non comuniste, di orientamento laico e socialista o liberalsocialista, che videro nella causa al tempo stesso nazionale e sociale di Ho Chi Minh e dei suoi compagni le buone ragioni di chi combatteva per l’affermazione di un diritto conculcato dopo il 1954, quando a Saigon si era affermato un regime illiberale e sanguinario sostenuto dagli americani, che avevano impedito si applicassero gli accordi scaturiti dalla Conferenza di Ginevra di quell’anno. In quest’ambiente laico e progressista non pregiudizialmente antiamericano, dalla spiccata ascendenza antifascista ma alieno da ogni contiguità con i comunisti, e talvolta legato all’esperienza partigiana di un movimento come Giustizia e Libertà, in cui molti diedero vita a una diaspora politica che li vide nel Psi, tra i radicali o in posizioni indipendenti, vennero ben presto accolte con simpatia le istanze anticoloniali e le lotte di liberazione nei paesi del Terzo Mondo. In quegli anni però il Vietnam non faceva veramente parte delle riflessioni degli ambienti politici italiani (con l’eccezione del Pci), né tanto meno della cultura.

Solo all’inizio degli anni ’60 iniziarono ad essere pubblicati in periodici come Il Ponte o Comunità i primi articoli sul Vietnam. Comunità (la stimolante rivista voluta da Adriano Olivetti in cui si coniugavano arte e sociologia, politica internazionale e letteratura dando prova di grande apertura), ospitò uno dei primi contributi sulla questione vietnamita nella primavera del 1963, e si trattava significativamente di un appello di intellettuali e di personalità americane a favore della pace che era apparso originariamente sul New York Times. Gli interventi sul Vietnam non furono molti, in realtà, ma volti a fornire informazioni di dettaglio sulla situazione politica del paese asiatico, e soprattutto a chiarire le peculiarità di una storia e di una società in quegli anni non note, o conosciute assai imperfettamente, in Italia.

Un ruolo culturalmente affine a Comunità, ma assai più rilevante in termini di mobilitazione, oltre che di passione politica e umana, svolse Il Ponte, un mensile legato a quello che era stato il Partito d’Azione fiorentino, e nel cui ambito gravitavano figure luminose come Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Giorgio Spini. All’inizio degli anni ’60 iniziò a collaborare al Ponte Gildo Fossati, docente universitario a Genova ed esperto d’arte asiatica, che fornì una puntuale informazione sugli avvenimenti in Vietnam. In quello che era probabilmente il suo primo articolo sul Ponte, apparso nell’estate del 1963, Fossati analizzava nel dettaglio la situazione politica nel Vietnam del sud, parlando di guerriglia e di villaggi strategici, del regime di Ngo Dinh Diem e della crisi connessa alla crescente protesta degli ambienti buddisti, della politica americana nell’area.

Questi sviluppi, e soprattutto il colpo di stato militare sostenuto da Washington per defenestrare il dittatore Diem nel novembre 1963, vennero puntualmente osservati e commentati dallo stesso Fossati negli anni successivi. Nel 1965 il direttore del Ponte, Enzo Enriques Agnoletti, si affiancò a Gildo Fossati nel trattare una questione vietnamita ormai assurta a grave crisi internazionale.

La posizione del Ponte, e di molti suoi sostenitori di orientamento socialista, in questi anni tese ad affiancarsi e talvolta a coincidere con la linea del Partito comunista. Non a caso, con il varo nel 1964 di un governo di centro-sinistra che vedeva associati la Democrazia cristiana e il Psi, si erano andati acutizzando i dissapori in seno alla variegata opinione socialista che sul piano politico aveva portato a scissioni (con la nascita nel 1964 del Psiup) e a riunificazioni come quella che nel 1966 riportava il Psi e il Psdi in una unica organizzazione, il Partito socialista unificato. In questa temperie, le questioni internazionali avevano assunto un ruolo non secondario, e per vari aspetti contribuivano a far superare la divisione tradizionale del movimento operaio italiano in rapporto al ruolo dell’Unione Sovietica. Il Vietnam, così, fu per molti socialisti di sinistra l’occasione per condividere sulla base di parole d’ordine accettabili, e sovente di carattere pacifista, strategie volte a sostenere l’emancipazione dei popoli senza essere fagocitati in una logica di puro schieramento tra i blocchi. Si trattava di posizioni che in verità si limitavano ai membri di una élite, poiché la politica internazionale ufficiale dei socialisti, ormai parte di un governo dominato dalla Democrazia cristiana e legato a precisi obblighi atlantici, non poteva permettersi troppe libertà, come fu evidente nel caso delle scelte concernenti l’ammissione della Cina all’Onu o il riarmo nucleare. D’altro canto, i socialisti eretici o di sinistra, anche se godettero di un significativo successo elettorale (nel 1968 il Psiup ottenne il 4,5% dei suffragi), erano comunque una forza minore.

In questa élite laica e liberalsocialista, in ogni modo, Il Ponte trovò molti sostenitori nella sua disinteressata e passionale campagna d’opinione. Enzo Enriques Agnoletti, senza indulgere ad incongrue tentazioni di tipo rivoluzionario, diede senz’altro un contributo rilevante all’informazione sulla questione vietnamita e sulle campagne internazionali che in quegli anni iniziarono ad essere organizzate per denunciare la politica americana. Nel 1967, in particolare, Il Ponte fornì tempestivamente una copiosa documentazione sulla guerra del Vietnam pubblicando le testimonianze, i materiali, le dichiarazioni rese note alle sessioni del Tribunale Russell tenutesi a Stoccolma nel maggio, e a Copenhagen nel novembre di quell’anno.

Sempre in un ambito che poteva definirsi liberalsocialista spiccavano le figure originali di Danilo Dolci e Aldo Capitini. Il primo, limpida figura di pacifista e di non violento legato allo stesso Capitini, impegnato contro la miseria e la mafia in Sicilia, nel 1966 divenne membro del Tribunale Russell e l’anno successivo organizzò una marcia per la pace nel Vietnam che attraversò l’Italia, chiedendo al governo di prendere le distanze dall’intervento americano in Asia sud-orientale. Anche più significative le posizioni di Aldo Capitini, l’organizzatore nel 1961 della prima “marcia della pace” tra Perugia e Assisi. Antifascista e democratico, pacifista e non violento, animato da un profondo e libero spirito religioso, Capitini scrisse nel 1964 alcuni articoli sulla guerra del Vietnam. In questi scritti, l’intellettuale perugino sottolineava significativamente il ruolo dei buddisti vietnamiti che, vittime del regime di Diem, furono al centro della crisi dell’estate del 1963 destinata a favorire di lì a poco la caduta del dittatore sud-vietnamita. Commentando i roghi dei bonzi, Capitini scriveva che «il suicidio diventa l’estremo tentativo di protesta scegliendo tra la morte dell’altro e la propria – come se al sommo una morte ci voglia per mutare la situazione – la propria morte». Si trattava di azioni che esaltavano il «metodo nonviolento» e fornivano «una lezione data a tutti: agli oppressori, che si vedevano scavato il terreno sotto, nel pericolo della ribellione degli stessi soldati di religione buddista; ai comunisti, perché i martiri hanno lottato per la libertà che non deve mai mancare, anche in ogni forma di società socialista …; ai cattolici, perché quei fatti stimolano i migliori a lottare sempre più decisamente contro i correligionari troppo alieni dalla nonviolenza e dal socialismo; e anche a noi, amici della nonviolenza, perché … ci si senta sereni davanti alla morte finché essa avverrà, e l’unità d’amore tra tutti gli esseri non sarà riuscita a consumarla del tutto».

Il riconoscimento di un siffatto valore alle manifestazioni estreme della protesta dei buddisti portava Capitini a indicare nel neutralismo la sola e auspicabile possibile prospettiva politica. «Non solo nel Viet-Nam, ma anche altrove vale questo orientamento: costruire la neutralità …, e se la neutralità è infranta, ricostruire sulla base unificante del metodo nonviolento. Gli americani per contrastare il comunismo e stabilire posizioni strategiche, credettero di trovare in Diem l’uomo adatto … Non è da escludere che dopo il fallimento … gli Stati Uniti passino a un dominio ancor più visibilmente imperiale. Sia lode ai buddisti di aver fronteggiato l’oppressore».

Sulla scorta di questi convincimenti, Capitini aderì alle iniziative pacifiste organizzate dal movimento americano contro la guerra, indirizzando alla fine del 1964 un appello all’ambasciata Usa in Italia in cui si paventava «il pericolo dell’estensione del conflitto nel Viet-Nam».



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