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Non s’intenderà questa digressione (isolata anche graficamente in una parentesi), questa riscrittura narrativa del testo-oggetto solo come uno dei modi, forse il più semplice e immediato, disponibili per inserire una scrittura letteraria in un saggio. Il discorso saggistico rivendica qui la propria autonomia generica assumendosi in carico il contenuto del testo-oggetto; un’imprecisata consonanza tra i temi e i sentimenti di Serra ricerca direttamente una parola scritta, una materia testuale. Pur incorniciato in un discorso narrativo368, il commento si appropria del ruolo di rilievo e si autodetermina come garante dell’altra testualità, sovradeterminandola, ricomprendendola nel proprio atto creativo. Il discorso saggistico, da solo, limiterebbe l’interpretazione della Connaissance in un mero commento delle impressioni e delle immagini scaturite dalla lettura se non intervenisse anche l’appropriazione tramite la riscrittura; Serra aggiungerebbe che la ballata «non bisogna analizzarla; ma ricantarsela, col suo sospiro che sale e che scende»369. Tuttavia, il saggista si dimostra anche consapevole dell’insufficienza di questa operazione fintanto da riconoscere gli estremi raggiunti dal proprio discorso:

È inutile andar avanti, con questo sforzo di fissare nei suoi elementi una grazia, di cui l’essenza è la mobilità, la sorpresa […] Il poeta cammina, si ferma, s’incanta, si diverte […] si sentono le cose tutt’intorno a lui, colte a volo nella loro rivelazione lieta, le cose nuove, quasi immateriali nella limpidità del mattino, ognuna al suo posto, con la sua brina e il suo silenzio. (Ivi: 508)

Il testo di Serra non vede nemmeno da lontano l’esigenza di un’interpretazione della ballata come oggetto letterario autonomo. Anzi, per indicare nuovamente la sua dipendenza dal soggetto stesso, e quindi dalla sua lettura e dalla sua parola convoca di nuovo la prima narrazione, e ritorna simbolicamente alla cornice, al risveglio370, alla passeggiata, dichiarando l’uno e l’altra come fatti compiuti e collocando la fine di quella sequenza lasciata inizialmente aperta dentro il suo stesso commento. È infatti la lettura che costituisce l’ultimo anello di quella narrazione, laddove la passeggiata di Fort e quella di Serra giungono allo stesso traguardo e al medesimo termine:

La passeggiata è finita, anche per me. Sento che dovrò tornarla a fare un’altra volta, passo passo, con più curiosità, con più minuzia. Ma per adesso son contento […] Io mi contento oggi della mia ballata. Questa è stata il principio e a questa dovevo tornare. Questa mi ha lavato, mi ha liberato gli occhi e l’anima della stanchezza, mi ha lasciato quasi nella gioia.

La quale sospirava dentro, mentre già attendevo ad altro, e cresceva e fluiva da me come un bisogno di ringraziare. Così ho fatto, dunque. Tanto umilmente da conservare alle mie parole la loro ingenuità superficiale e sentimentale. Non come un ornamento: come una verità, come una mortificazione. (Ma non bisogna dirlo! se no, non c’è più merito. Dirò anche questo, dunque.) (Ivi: 509-510)

Il Ringraziamento si conclude con queste frasi, in cui l’analisi “minuziosa” – è detto – andrà rinviata a una seconda occasione, perché la ballata fu sempre posta al servizio di altro, di uno scopo personale; minimo comune denominatore della critica di Serra, la quale – come concluderebbe Luigi Baldacci –

aveva bisogno di un’occasione immediatamente e contigentemente legata alla propria biografia e oseremmo dire alla propria topografia sentimentale, fino alla percezione di un se stesso in quanto persona fisica, perno e ragione di giudizio, in quel luogo e in quel momento. (Baldacci 1969: 36)

La volontà di scrittura di Serra necessitava di un oggetto materiale in cui rinchiudere i limiti d’estensione del suo saggio, senza però che la riflessione esaurisse l’oggetto e lo studio, esattamente come avveniva in Montaigne. D’altronde, la scrittura del saggio critico non prevede certo arresti definitivi riguardo le possibilità d’interpretazione dei testi letterari. L’inserimento di una cornice è un altro modo per completare il saggio pur accettando che l’analisi non lo sia. La relazione metatestuale è intanto mantenuta, ma da essa fuoriesce un’interpretazione irrisolta o, peggio, non completamente pervenuta. Il Ringraziamento esprime il processo interiore della lettura di un individuo il cui sostrato sentimentale viene opportunamente enfatizzato per concludere infine sulla pluralità, spesso anche contrastante, delle sue impressioni.

Prima di spendere le ultime parole su una filiazione spirituale facilmente proponibile con Montaigne, bisogna terminare la valutazione della contaminazione di questo saggio riguardo ciò che si crea tra il piano della narrazione e quello del commento. La cornice iniziale costituisce uno sfondo fittizio (l’arrivo, l’incamminamento, la biblioteca…) che a sua volta cade in un evento, quello della lettura di una ballata di Fort. Pertanto ogni commento relativo alla Connaissance sembrerebbe derivato dall’atto di narrazione, in virtù della sua precedenza lungo la fabula del Ringraziamento. Potrebbe sembrare allora che questo sia un vero e proprio racconto con al suo interno una parte vagamente saggistica. Invece, il testo di Serra rispetta sia l’invariante metatestuale, sia la differenza stilistica tra i discorsi subordinando la cornice al commento della lettura della poesia di Fort: ciò che qui incarna il vero discorso critico. Dalla prospettiva più ampia possibile, cioè quella della costruzione dell’intero saggio, lo sfondo memoriale serve infatti per spiegare come la lettura riesca nella sua funzione di acquietamento dell’indicibile e del perturbante esistenziale tramite una catarsi prettamente musicale. Quella cornice funziona solo in rapporto con la riflessione critica di Serra; non possiede nessi interni tra gli eventi, ma soltanto quelli esterni che la memoria riesce a ricavare e ad allacciare dalle impressioni uscite dalla Connaissance. Soltanto per l’intreccio scelto da Serra (sfondo>commento), la sequenza del risveglio balza in primo piano, ma la costruzione dei rapporti causali tra le rappresentazioni resta determinata dall’analisi successiva della lettura. Questa scelta di Serra appare quasi un obbligo se ci rivolgiamo a indagare gli scopi da lui inseguiti con la scrittura del Ringraziamento e quanto gli consentiva un normale saggio critico, vale a dire uno più “neutro”, senza alcuna contaminazione.

In Un europeo di provincia, Ezio Raimondi ritrova l’origine del rapporto con Montaigne proprio nella tendenza di Serra a cercare «nel commercio con i suoi autori un “plaisir”, un “secours” per il suo viaggio umano, come un esercizio dello spirito senz’altro frutto che quello di imparare a conoscersi, di coltivare, di conversazione in conversazione, d’incontro in incontro, la gentilezza di un’anima “ben nata”»371. Come evidenzia lo studioso, tra i due autori così distanti nel tempo si può presupporre una medesima visione dell’uomo:

Montaigne trasmette al falso umanista di Cesena la certezza irriducibile del molteplice, la diffidenza verso ogni sintesi finale della totalità che falsifichi e violenti la finitudine unica dell’individuo […] Lo stile, allora, non è altro che una scelta morale, un costume, un modo di esprimere e vivere la propria verità imperfetta. (Raimondi 1993: 229)

Tuttavia, il genere del saggio si è modificato dai tempi di Montaigne per poter esprimere la stessa, imperfetta verità: l’obiettivo, lo scopo racchiuso in una parola che si stagliava proprio nel congedo del Ringraziamento. Il modello positivista del saggio anglosassone ha sviluppato il genere in un’altra direzione da quella inseguita oggi da Serra. Come ci ricordava Huxley, le forme del saggio hanno storicamente spaziato dal polo del soggetto, come si osserva nelle sue relazioni cognitive con un oggetto, a quello delle caratteristiche fenomeniche dell’oggetto come le uniche verso cui la mente si deve sforzare di procedere, anche al prezzo di allontanarsi dalla sua specificità soggettiva (appunto, cioè, come se la mente degli uomini fosse sempre la medesima per tutti). Cambiare genere o operare qualche aggiustamento: tra queste due soluzioni l’incipit del Ringraziamento testimonia quella percorsa da Serra; l’interesse dell’autore resta focalizzato sul testo letterario in quanto possibile fautore di risposte. Nel momento in cui uno scrittore novecentesco come Serra si ritrova dinnanzi al problema di voler utilizzare il genere saggistico diversamente, riterrà la scrittura di un dettagliato commento testuale come un perfetto passo indietro. Come sarebbe conservata infatti l’azione cognitiva del critico? Invece di appianare le differenze per trovare la continuità, il saggio dovrà mettere in rilievo le distanze tra gli uomini entro le quali possono insinuarsi in profondità testi tra loro diversi, perché complementari a fessure di molteplici tagli e grandezze. E forse proprio perché è prossimo a Montaigne per filosofia e convinzioni, Serra decide di non darsi per vinto e tentare la scrittura di un saggio differente. Allora, il saggista mantiene la relazione metatestuale con la ballata di Paul Fort e, allo stesso tempo, vi collega una rappresentazione del proprio mondo interiore tramite una cornice narrativa, uno sfondo composto da sequenze autobiografiche e memoriali, perché ormai solo forme discorsive eterogenee all’argomentazione possono riportarlo più vicino alla propria origine concettuale, secondo il modello di Montaigne. La contaminazione del saggio con una cornice narrativa resta il modo con cui il genere mostra come insufficiente l’attrezzatura di una pronta “scatola dei concetti” e chiarisce, o ribadisce che non tutto dell’oggetto può essere spiegato; un testo ci può dire qualcosa di noi stessi che corrisponde a verità, la intuiamo e sulla spinta di una certa epistemologia ci affanniamo a ricercarne le prove, a dimostrarla. Ma è difficile afferrare l’imperfetto (come le verità di Montaigne e di Serra secondo Raimondi): appare e sparisce dalla mente con intermittenza, mentre quella verità cui dà forma e ci riguarda sembra rimanere incagliata in una scrittura non nostra.

A differenza del Ringraziamento, i tre volumi di Saggi critici pubblicati da Debenedetti rispettivamente nel 1929 (cui viene aggiunta nel 1952 un’importante prefazione), nel 1945 (poi in un’edizione notevolmente aumentata nel 1955) e nel 1959 mostrano dal titolo scelto la loro iscrizione nel genere che ci interessa. Come raccolte di contributi su argomenti, testi, autori disparati palesano già dalla loro struttura paratestuale una concezione del saggio discesa direttamente da Montaigne. Ma nei Saggi critici Debenedetti impiega anche modalità propriamente drammatiche in maniera costante nell’economia generale di uno stile di scrittura quanto mai particolare e personale. Il tipo di saggio di Debenedetti, perfezionato lungo decenni d’attività, gli ha consentito di riprendere più agevolmente alcune caratteristiche inerenti al modello di Montaigne e, soprattutto, di sostituire le sue divagazioni con scenari propriamente rappresentativi, se non narrativi e finzionali. Ciò che qui troveremo non sarà più una cornice di quel tipo a un discorso argomentativo, ma la coabitazione di due modi discorsivi separati di cui quello narrativo scorre parallelo all’altra, accompagnando l’interpretazione con continue rievocazioni a un determinato contesto storico. Invece, nell’esperimento finale ed estremamente originale della Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo (1965), il critico tenterà di approfondire questo sviluppo parallelo del modo narrativo adottando un comune oggetto mentale di riferimento: un personaggio su cui una critica e una narrazione possano entrambe svolgere la loro rispettiva funzione discorsiva372.

Il tentativo che può essere assunto a prima prova della contaminazione in Debenedetti si trova in Probabile autobiografia di una generazione (Prefazione 1949373), un saggio dal titolo da “resa dei conti” che data maggio 1949, come riportato in calce dallo stesso autore, e diviene la seconda introduzione ai Saggi critici (Prima serie). Già dalla prima pagina si dispiega una parte estranea ai modi della prefazione. Debenedetti esordisce con un dialogo a due voci, di calco teatrale (che avrà grande importanza in tutta la sua opera). Esse rispondono a due nomi, quelli di “Professore” e di “Critico”, e convogliano le fattezze di personaggi che si riveleranno fortemente biografici e particolarmente attinenti alla storia personale di Debenedetti. Prima che si sollevi il sipario e la recita abbia inizio, l’autore fa precedere al suo pezzo una spiegazione:

È scritto che ognuno si deva imbattere in un personaggio che antagonista non può dirsi e neppure demone, quantunque dell’uno tenga la natura provocatoria e dell’altro quella influitiva e parente. Si tratta della propria ombra […] Tra gli incontri fatali, c’è anche quello del Critico col Professore di Belle Lettere. Supponiamo, per fissare le idee, che il critico sia quello che avete sott’occhio. (Debenedetti 1999a: 97)

Non si conosce ancora il nome del Critico, ma quel dramma sembra ospitare una controfigura dello stesso Debenedetti. C’è anche un interlocutore, un “Professore”, una sorta di antagonista ideale; molti ne hanno sottolineato il ruolo di reagente per la critica di Debenedetti374. Il critico, definito poi anche «Giovanotto»375, deve difendersi per aver ridato alle stampe la prima edizione dei suoi Saggi critici. Le sentenze filosofeggianti del Professore al riguardo, delineando limiti e mancanze, profilano un personaggio grottesco e stereotipato, il classico accademico italiano avvolto nella sua aria di superiorità ingiustificata proprio quando si dimostra incapace di comprendere la raccolta del giovane, che sembra allora venire criticata quasi a esercizio di tutela sociale (benché l’ipocrita si vanti di avere addirittura difeso il libro alla sua prima apparizione). Il rapporto di forza si orienta presto nei termini di una sopraffazione. Ben prima della fine del dialogo il Professore si palesa come la voce a tutti ben riconoscibile di un’egemonia culturale. I contrappesi espressi da una finzione riproducono insomma quelli ben presenti nella Storia: si proiettano da un piano autobiografico; sono già mimesis del discorso della cultura nei suoi portavoce, negli echi provenienti dalle schiere della classe intellettuale divisa tra le istituzioni conservatrici del potere e le individualità impegnate nella società civile, entro cui si autocolloca Debenedetti. A un certo punto l’identità fittizia del Professore viene svelata, quando l’autore spiega perché si sia servito di un tale espediente teatrale:

La storia della critica italiana nel Novecento è stata raccontata a perdifiato. Perciò abbiamo proposto di riassumerla nell’allegoria dei dottori che recitano la tragedia greca. I motivi sono talmente noti, che si può accennarli alla tiravia. Per esempio, tutte le volte che il Croce ha lasciato sedersi al suo fianco qualcuno di quei critici, nella menzione onorevole era sempre sottinteso: “Costui non ha evocato la Spirito della Terra”. (Ivi: 104)

Scoperto anche il secondo personaggio, l’intero scenario perde ogni valore allegorico e si mostra per ciò che è stato: una finzione (o un teatro) autobiografica(-o). Vi è stato rappresentato lo stretto habitus sociale da cui muove l’opera di Debenedetti, un retroscena forse più umoristico che drammatico; ma è una descrizione laterale, circoscritta, che non organizza una cornice narrativa esterna da cui la critica segue come diegeticamente (secondo quanto avviene in Serra); come esplicita Alfonso Berardinelli, ogni costruzione autobiografica da parte di Debenedetti resta sempre parallela alla costruzione della sua critica:

L’autobiografia non precede la critica né la segue, la rende possibile e si costruisce insieme ad essa, se ne alimenta, si manifesta e si nasconde nella critica, evitando di costituirsi come racconto autonomo. (Berardinelli 2001: 35)

Il discorso esplicativo e quello teatrale sono tra loro perfettamente complementari. Quando il Critico interrompe il Professore e arrischia a dire la propria, annuncia gli stessi concetti che ritroveremo nell’auto-spiegazione di Debenedetti in calce alla fine del dialogo:

Non mi fulmini, Professore, se arrischio l’opinione che tutta la storia della critica italiana negli ultimi trent’anni, sia una storia di uomini che recitano la tragedia greca: voglio dire, si appoggiano a un testo teorico, a una falsariga o copione di accertata autorità […] e questa mia storia, questo mio dialogo con lei, questa nuova prefazione ai miei vecchi Saggi sono puri pretesti per un altro discorso, che potrebbe eventualmente intitolarsi: probabile autobiografia di una generazione. Nella quale io non debbo apparire se non come la figura approssimativa, sfrangiata di gesso, che il geometra disegna sulla lavagna per dimostrare il teorema: il povero quadrato un po’ fortuito che per un attimo si trova a riassumere le proprietà di tutti i quadrati come lui e meglio riusciti di lui, a confessare che purtroppo non sono nati per risolvere la quadratura del circolo. (Debenedetti 1999a: 102)

Uguali parole, medesime evocazioni di una “tragedia greca” rimbalzano dal teatro alla descrizione della realtà storica, quella in cui vive ed opera il critico Debenedetti. Questo dialogo interpreta un ruolo apodittico rispetto all’intera produzione del volume, ma precisa anche una consonanza più profonda tra realtà contingente e sua creazione stilistica. Esiste una solidarietà profonda tra lo scopo comunicativo della scrittura saggistica di Debenedetti e il piano della storia culturale e sociale di primo Novecento. Se al mondo finzionale dei personaggi del Critico e del Professore corrispondono Debenedetti e Croce, essi si schierano anche a rappresentanti di uno scontro non solo intellettuale; quelli incarnano un conflitto generazionale tra due gruppi che difendono interpretazioni e azioni incompatibili nello stesso momento storico. Nel passo appena citato, il Critico rilancia la propria irriducibilità alla persona fisica di Giacomo Debenedetti e si auto-legittima come approssimazione di un collettivo: la nuova generazione di giovani intellettuali. Non siamo perciò di fronte al discorso di un soggetto, di un “io” solamente autobiografico, ma a una rappresentazione che porta il pronome proprio del saggio, quello che designa assieme i suoi mittenti e destinatari sociali: “noi”. Tuttavia, perché servirsi di un modo drammatico se l’identità dei suoi personaggi viene subito svelata? Quale la necessità di introdurre una struttura parallela se l’argomentazione principale ripeterà le stesse cose di quel dialogo? Edoardo Sanguineti, presentando una definizione del critico Debenedetti destinata a riscuotere successo376, trovava nella sua saggistica le basi di una concezione drammatica dell’esercizio critico-letterario:

Tentiamo una definizione, e diciamo allora, se vogliamo, un critico narratore […] un critico che nel tessuto del proprio discorso pone, come momenti essenziali (almeno strutturalmente), in assoluto rilievo, quegli stacchi drammatici che l’arte narrativa gli ha appresi e per i quali può additare, maestro indiscutibile (almeno secondo la sua interpretazione), un De Sanctis […] il “racconto” è rimasto pur sempre, nella metamorfosi critica di Debenedetti, la struttura dominante della sua oratio soluta, il suo genere letterario. (Sanguineti 1961: 184-185)

Riprendendo questa suggestione, Francesco Mattesini propone l’espressione “romanzo sul romanzo”, considerando nella sua totalità il progetto di Debenedetti come tentativo antropologico-culturale, la comprensione del destino collettivo attraverso lo studio di un genere letterario particolare, il romanzo377, e condotto per mezzo di una scrittura mimetica all’oggetto stesso, cioè di modo altrettanto narrativo. Pur avendo centrato probabilmente la definizione, nessuno dei due studiosi si interroga sulle motivazioni di una tale contaminazione saggistica. Cerchiamo di risalirvi accumulando altri elementi. Dopo la seconda Prefazione, quella che segue l’Autobiografia nei Saggi critici e che apriva la loro prima edizione nel 1929, Debenedetti colloca immediatamente il saggio Sullo “stile” di Benedetto Croce (apparso inizialmente su «Primo tempo» nel lontano 1922). L’autore vi descrive l’opera di Croce come un «romanzo cosmico che trova, nell’ininterrotto svolgersi della vita, la materia per sempre nuovi episodi»378. Se teniamo presente questa definizione e ritorniamo all’Autobiografia, il ruolo di Croce nel contesto sociale qui rievocato ci appare subito più chiaro:

Freudianamente parlando, il Croce è un insigne modello di rimozione andata bene. È, anzi, il filosofo di un mondo e di una società che, avendo con tanto successo compiuto quella rimozione, ne traggono legittimo orgoglio, congiunto a meritato senso di benessere e sicurezza […] la società di cui parliamo si comporta come se avesse preso molto alla lettera la distinzione tra corpo e anima, tra anima e spirito. E si fosse poi accorta che lo Spirito è la parte più pulita e ammodo, quella con cui si fa sempre bella figura […] Rimossi corpo e anima, essa ha potuto risolvere nello strato dello Spirito tutto il tremendo fenomeno vita. (Debenedetti 1999a: 113)

Croce si muoveva tra coordinate storiche che oggi sono mutate; il suo sistema funzionava nei limiti prima di quella situazione, entro estremi temporali e confini sociali scomparsi. Anche Croce andrebbe allora storicizzato. Nel 1949, la sua filosofia totale appare a Debenedetti un astratto rifugio dalla complessità della vita. Innegabilmente, l’ottica con cui Debenedetti legge la Storia le riconosce più forti implicazioni sociali di quanto avrebbe potuto fare Croce379. In particolare, per Debenedetti l’uomo d’oggi

ha bisogno di veder chiara la figura del proprio destino: eterno destino degli uomini, e tuttavia insoddisfatto delle vecchie immagini in cui si calava, e bisognoso di riconoscersi su immagini che somigliano all’oscuro, ma impellente senso che oggi ha la vita. (Ivi: 122)

La nuova generazione non può più avanzare con quei paraocchi, con una vista offuscata dalle mirabili acrobazie concettuali del romanzo cosmico di Croce, perché certi contenuti vitali vi sarebbero stati rimossi affinché le profondità dell’anima apparissero superfici da tagliare agilmente con la lama della logica e della retorica. Per Debenedetti, la più dannosa e nociva dicotomia aperta dal pensiero crociano va ritrovata nella critica alla scienza; perché oggi, egli aggiunge, «gli uomini che lavorano nel cuore delle strutture si accorgono che i loro punti di vista sono sorprendentemente analoghi, quasi che il momento li prema in cui diventeranno addirittura permutabili»380. La filosofia di Croce viene allora additata come una delle causa del divorzio intellettuale italiano della vita dalla storia e anche di quello tra le due “culture”, umanesimo e scienza (la stessa che farà la fortuna di Snow dieci anni dopo). Forse, Debenedetti coglie la possibilità di una convergenza di tutti questi elementi scegliendo il genere del saggio.

Nell’Autobiografia l’autore cita tutte le difficoltà, le battute d’arresto, anche i protagonisti e gli sconfitti della sua generazione al confronto con la dominante ideologia crociana. Quell’egemonia culturale non deve solo essere convocata, illustrata e spiegata; bisogna mostrare i suoi condizionamenti sul soggetto intellettuale; bisogna raccontare una situazione psicologica comune a chi s’avvicinava alla vita culturale del paese: un diffuso senso, o anche complesso, di inferiorità381. Il pensiero crociano diviene un romanzo cosmico perché comincia ad affastellare un po’ di tutto, pur sorreggendosi su fondamenta non complete: la sua esaustività è allora un’apparenza, una finzione, una chimera. Da più parti il complesso perde acqua ma l’ideologia italiana gli è solidale e ne comprime dall’esterno la fuoriuscita. Davanti a un ipotetico tribunale sociale, il saggio di critica letteraria soccombe alle arringhe di un ben oliato sistema filosofico. Unica speranza è avvalersi di non sole strategie argomentative, ma di essere più persuasivi portando direttamente il contesto intero a testimone di fronte a quel tribunale. Con le dinamiche autonome dell’arte – avrebbe detto Bourdieu – prima o poi bisogna fare i conti. La critica di Debenedetti presuppone un alto gradiente di rappresentazione storica che solo una narrazione separata dal discorso metatestuale può equilibrare con la struttura generica dei suoi saggi, perché quella stessa critica deve preservare il proprio spazio discorsivo come campo d’azione consapevole delle influenze esterne, ma deve anche agire in autonomia per salvaguardare i criteri di giudizio e i parametri di linguaggio indipendenti dall’eventualità di altre usurpazioni politiche.


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