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Con la contaminazione, oltretutto, lo stile saggistico di Debenedetti compensa la sua mancanza di organicità, almeno rispetto il modello della filosofia crociana. Vedremo che quelle rappresentazioni diventano particolari scene allegoriche per sostituire una virtù ad un’altra: la volontà del pensiero è trascesa dall’orgoglio morale; l’intelligenza (e anche l’invenzione, l’immaginazione) è ancora ancella dell’etica nella scrittura di Debenedetti. Nel secondo volume di Saggi critici (sottotitolo Nuova serie), che segue i primi saggi ma che precede la loro seconda prefazione dell’edizione del 1949, ne incontriamo qualcuna, ad esempio quando nella Prefazione 1945 alla raccolta Debenedetti introduce la terza sezione dell’opera, “Verticale del ’37”: una sorta di campionario della letteratura italiana prodotta in quel periodo. Un retroterra culturale apparentemente vitale viene paragonato a una festa di corte, in un lungo brano descrittivo che vale la pena di riportare interamente:

Strana festa. Chi vi fosse invitato, chi vi giungesse dal di fuori (era il caso del critico) subito riceveva un’impressione indefinibile, senza un dove, senza un perché: il malessere del “qualcosa-che-non-va”. Adesso, dalla prospettiva del poi, si direbbe ch’era come arrivare in una casa per un grande ricevimento con buffè e sonatori, ospiti di riguardo nonché eccellente compagnia, e ogni sorta di attrattive. Frattanto nelle casa, un’ora prima di quella fissata sul biglietto d’invito, una persona di famiglia è morta. Ma oramai gli ospiti non si possono più rimandare, i preparativi sono stati fatti, complicati e costosi, e la festa avrà luogo ugualmente. (Si potrà poi sempre dire che la disgrazia è avvenuta all’alba del giorno successivo.) E si dà il via all’orchestrina, ermetici servitori circolano coi rinfreschi, si mangia, si beve, si balla, l’atmosfera si fa conviviale, erotica, spiritosa. Nessuno sa, nessuno ha mia saputo, nessuno saprà mai di quel morto. Le donne sono più accese, gli uomini più intraprendenti del necessario: solo qualcuno dei presenti prova un indefinibile disagio. Vorrebbe intonarsi con gli altri, capisce la sconvenienza di quel suo impaccio, di quella sua ritrosia, di quel suo continuo sottolineare il “qualcosa-che-non-va”. Ma che è questo qualcosa? Impossibile dirlo, e chi non è contento, chi non si sente della partita, la colpa è del suo cattivo carattere. Lui si sforza, vorrebbe sorridere, e fa una smorfia. C’è qualcosa che non va, c’è quel cadavere all’insaputa di tutti in una stanza della casa in festa – o forse l’hanno portato ancor caldo nella serra, o in una rimessa, come usa nei grandi alberghi e nelle cliniche di lusso – c’è la presenza di quel cadavere, tanto più macabra perché ignota, c’è la “cattiva coscienza” di quel cadavere, che si aggira in incognito per la casa in festa, dove suonano le musiche e brillano le lampadine elettriche.

L’editore che nicchiò di fronte alla Verticale del ’37 e alla fine si rifiutò di stamparla, aveva dunque visto dietro il sorriso la smorfia, dietro la volontà di capire l’irrimediabile fallimento del tentativo d’amare. Quasi la denuncia, che noi invece ignoravamo, del “morto in casa”. E disse bene: quegli articoli non erano costruttivi. Non lo erano dal suo punto di vista, d’uomo che alla festa si divertiva. (Debenedetti 1999b: 376-377)

Sorgono due osservazioni sul suo inserimento, apparentemente laterale rispetto il restante discorso prefatorio. In primo luogo, Debenedetti s’impegna a strutturare una digressione in qualche modo autonoma (per lunghezza e compiutezza) dove raccontare ai lettori dei suoi saggi la loro vicenda editoriale. Dopo aver testimoniato della mancata pubblicazione dell’intero volume, impedita dalla promulgazione delle leggi razziali nel settembre 1938, il critico menziona un altro suo fallimento editoriale, che riguarda proprio il gruppo di saggi della “Verticale del ‘37” precedentemente rifiutati da un altro editore. In secondo luogo, è ovvio che questa strana festa ha una funzione rappresentativa della scena culturale italiana ai tempi del fascismo. Dipingendo il quadro della “festa”, Debenedetti oppone ai caratteri conformistici e repressivi di quel contesto la volontà di un esercizio di critica improntato a paradigmi di veridicità e autenticità, di libertà di parola, che si coniuga ovviamente anche in una conseguente solitudine rispetto alla comunità di quei conviviati. Debenedetti dichiara per i propri saggi una precoce percezione della falsità e dell’artificialità, della censura e della costrizione all’autocensura per chi scriveva ai tempi del fascismo. Il fondale inquadrato dal critico costituisce un’immagine simbolica, il cui significato finale è la rivendicazione di valori assiologici diversi, non solo migliori ma anche propri, individuali rispetto a quelli che emanava l’allegra tregenda. Certo, la Storia (o meglio la storiografia) sembra voler entrare dalla porta di servizio nella scrittura di Debenedetti, come un discorso che rappresenta la base implicita di partenza della sua critica ma poi s’accontenta di continuare a scorrere in sordina. Ci sono parentesi, diversivi testuali che devono difendere le scelte dell’autore senza indugi, apertamente, mettendole sul tavolo prima che il lettore del Dopoguerra (più ricettivo e incline di oggi a valutare il presente alla luce del recente passato) possa sollevare dubbi sulla sua condotta o insinuare addirittura una sua mollezza di carattere, di morale; eppure qualsiasi vanto di fronte alla storia, soprattutto se assume una valenza anche politica (quasi inevitabile nel saggio), deve restare distinto da quell’autonomia della scrittura e dell’attività critica che Debenedetti riconosce necessario salvare come fondamenti epistemologici e strutturali del genere. Ciò che poteva essere una reticenza ad affermare un’inquietudine morale trova la sua strada in rappresentazione allegoriche iniziate come invenzioni immaginarie, ma in realtà subito svelate come rovine della storia, da denunciare, raccogliere e ricostruire a margine di un altro discorso da quello del saggio.

Nella parte dedicata a D’Annunzio, “Nascita del D’Annunzio”, inserita nell’edizione del 1955 della seconda raccolta di saggi, l’argomentazione si serve invece di un accumulo di metafore che narrativizzano l’oggetto382. Leggiamo il terzo contributo intitolato L’età dell’oro e pubblicato nella sua versione definitiva soltanto nel 1941383:

Cerchiamo di guardare, per un momento, al rallentatore il processo della creazione lirica. Destato da oscuri, inarticolati appelli; sollecitato dalla carezza evasiva e urgente di mille tentacoli ciechi, l’artista sente che nuove figure sono per nascere da lui. In quel loro primo sorriso e annunzio, esse paiono già palesarsi come forme: instabili forme, ora prossime in apparenza a lasciarsi ghermire, ora più distanti, labili, pronte per un fiato di vento a dileguarsi. Tenta egli di fissarle, ed ecco gli si rivelano per quello che sono: non forme ancora, ma semplici promesse di forme future […] l’artista ha coscienza di volere, eppure sente che la sua è, per il momento, “cattiva volontà”. Ma d’improvviso essa muta di segno. Dagli angoli più dimenticati della sua vita, da perdute latebre dell’anima, il poeta vede riemergere conoscenze ed esperienze che egli medesimo non sospettava di ospitare dentro di sé, e che con infinita e docile naturalezza, per se stesse mosse, accorrono a nutrire il fantasma nascente. Erano gravami inerti, tumori bui, parassiti indolenti – miracolosamente si mettono a lavorare, a collaborare: confluiscono, si intendono, congiurano, si trasformano in risorse inaspettate. (Ivi: 677-678)

Si dibatte della creazione lirica nel poeta; Debenedetti ne descrive il tormento creativo come il compimento di un lungo processo interiore, evocando intuizioni embrionali che evolvono dallo stato di larve fino a quello di immagini poetiche, escono dal rimosso psichico e si depongono sulla pagina scritta. Il critico vuole risalire a monte del prodotto, allo stadio precedente la realizzazione letteraria; considera suo testo-oggetto più la creazione medesima che i risultati di quella di D’Annunzio. In tal caso, l’oggetto del saggio sembra aver abbandonato le sue proprietà testuali per assurgere a una forma seconda, a materia narrativa che è già un’interpretazione dei testi in quanto rappresentazione delle tracce della loro formazione. La ricostruzione di Debenedetti funziona da espediente retorico per mostrare quell’argomento del suo saggio che non può venire portato a prova come una comune citazione. Invece di istituire una relazione di commento tra il discorso critico e certe poesie, il saggista ne introduce una di auto-commento, cioè di tipo metatestuale tra la sua argomentazione e una narrazione da lui stesso preparata. È opportuno segnalare questo intervento del critico sulla costituzione del testo-oggetto prima della sua convocazione nel saggio, perché nella Commemorazione del personaggio-uomo Debenedetti agirà con la stessa strategia.

Vediamo un ultimo scenario di finzione che contiene un’immagine allegorica della società moderna nella Terza serie dei Saggi critici. In Personaggi e destino del 1947 (testo che occupa da solo tutta la quarta sezione dell’opera384), il destino individuale di Debenedetti si lega strettamente all’attuale situazione storico-letteraria. Si tratta ancora una volta di un frammento considerevole per lunghezza:

Ogni vero romanzo, ogni romanzo risolto a fondo, ha contenuto una sua Nekuia […] Nell’Ottocento, per esempio, essi [inferni] erano penitenziari modello, collocati nel mezzo di una società zelante dei propri istituti e bravissima nel difenderli contro qualsiasi infrazione: vedi l’inferno di M.me Bovary, rea di avere contravvenuto alla fedeltà coniugale, o quello di Julien Sorel, reo d’essere voluto uscire dalla classe in cui era nato […] I nostri contemporanei invece sembrano collocare l’inferno in un prima dell’azione, nei luoghi donde i personaggi traggono nascimento […] Si è visto di recente Moravia nel cospicuo e, per molti aspetti, bel romanzo della Romana combinare un finalone a strage quasi indiscriminata. E lascia l’impressione di essere lui, Moravia, a volersi arbitrariamente disfare di quella gente, che ormai l’avrebbe costretto a una più impegnativa e forse dolorosa interrogazione del destino: diciamo pure, a una Nekuia donde sarebbe tornato conscio della vera sorte dei personaggi […] Per noi, in anni recentissimi, quella Nekuia forse provvidenziale che i nostri scrittori rifiutano a se stessi e ai loro personaggi, si è invece compiuta nella realtà. E anziché un solo eroe, un immaginario ambasciatore, siamo stati tutti quanti, collettivamente, noi cittadini d’Europa, ad attraversare il varco oscuro. La sorte dell’Europa occupata dai tedeschi ha infatti ripetuto, con liturgica esattezza, l’antico rito. Sui luoghi sacrificali regnavano nebbia cimmeria e notte: Nebel und Nacht. Chiamati dal sangue delle vittime, furono uditi gli oracoli. Dicevano che il sacrificio non era inutile, se doveva propiziare il ritorno di quella che propriamente è vita […] Non pare possibile che, usciti a rivedere le stelle, gli uomini non abbiano anche ricuperato il senso delle costellazioni, questa primordiale immagine che vuole le sorti umane legate al giro e all’influsso degli astri. Ed è un modo di esprimere l’intuitiva certezza che il nostro destino sia scritto; non casuale, né gratuito, né insensato […] Ma tutto ci porta a pensare che il cielo più favorevole al pronunciarsi di un’epica sia un cielo a cupola, lungo le curvature della quale i destini dei personaggi si iscrivono e prendono disegno. Lanciati verso un cielo svasato, questi destini si perdono come stelle filanti, o ricascano addosso in un groviglio. È inteso tuttavia che quella cupola di cielo dobbiamo essere noi a volgerla sulle nostre teste […] Quanto al domani, procuriamo che i nostri figli trovino un padre al loro fianco, e non sentano il bisogno di guarirsene. (Debenedetti 1999c: 918-920)

Debenedetti decide di raccontare in prima persona quel destino storico dell’Europa del Dopoguerra che a suo parere la letteratura recente non è stata in grado di rappresentare. Due metafore si succedono a ritrarre uno stato collettivo partecipato da tutti gli uomini. L’“inferno” diventa la facile scenografia del conflitto bellico ma anche uno spazio simbolico condiviso da storia e letteratura: quest’ultima dovrebbe fornire rappresentazioni declinate anche in altri luoghi (ad esempio Debenedetti parla dei penitenziari, ambientazione di certi romanzi dell’Ottocento). Poi, una seconda metafora sostituisce la prima nella rappresentazione del contesto: un cielo senza costellazioni esemplifica un universo narrativo in cui i personaggi intessono trame senza alcun orientamento, disperdendo le stelle che li guidano alla deriva e lasciando chi legge senza un viaggio di cui essere l’attento spettatore. Un dato tempo e un ambiente storico localizzato restano il comune riferimento per entrambe le metafore, sia per l’“inferno” degli uomini e popolato anche dai loro personaggi, sia per il “cielo” in cui entrambi disegnano i loro oroscopi. Come nella festa fascista rievocata nella seconda serie dei Saggi critici, anche queste rappresentazioni riguardano un problema etico della letteratura, relativamente a un deficit di verità non rispettata nell’assimilazione degli eventi della storia. Esiste, insomma, una continuità di motivi legati a una contaminazione delle forme nei saggi di Debenedetti dell’immediato Dopoguerra.

Superiamo ora la produzione saggistica degli anni Quaranta e rivolgiamoci ai saggi da lui dedicati a uno dei suoi autori prediletti, Marcel Proust, e pubblicati nella terza serie dei Saggi critici. La quinta parte del volume s’intitola “Due capitoli su Proust”, il cui primo, Confronto col diavolo (1952385) contiene un importante annuncio per leggere il saggio successivo, poiché ne illustra i motivi ispiratori:

L’insorgere della critica complicata significa anche che si erano perduti il calore, la passione da cui erano animati i primi lettori di Proust; perché un discorso critico, mosso da vero entusiasmo, finisce sempre col trovare accenti semplici; le sue idee diventano visibili e profilate come personaggi. (Ivi: 926)

In questa dichiarazione, l’autore mostra di avere della scrittura critica un’idea simile a quella dei teorici che parlavano della drammatizzazione del pensiero nel saggio e dell’interazione tra le idee come quella tra diversi personaggi. In effetti, proprio in questa direzione sembra procedere un suo esperimento, in cui prende forma una vera e propria “messa in scena” di una presentazione critica di un romanzo incompiuto del giovane Proust. La chiarezza richiesta dalle esigenze del pubblico contro la “critica complicata” prova ad incontrare l’affermazione di uno stile ancora personale. D’altronde il testo, Radiorecita su Jean Santeuil, fu concepito espressamente per una grande diffusione, nel palinsesto del terzo programma della RAI, e venne trasmesso il primo ottobre 1952386. La Radiorecita non trova nessuna cornice drammatica come in Autobiografia, ma è il discorso critico che attraversa lo stesso dialogo teatrale, recuperando una lontana tradizione (di cui abbiamo già accennato) che viene almeno da Galileo e da Wilde, in cui la struttura saggistica è rispettata ma s’aggiungono altre voci a garanzia di un principio dialogico di confronto tra le diverse opinioni, soprattutto per discutere, problematizzare o confutare quella del saggista387. Incontriamo così la massima espressione nell’intera sua opera del fascino che il teatro e i suoi generi hanno esercitato su Debenedetti388. Come anche in Probabile autobiografia di una generazione, il critico premette una «Giustificazione» alla recita:

È un tentativo di dare forma dialogata ad alcune tesi di critica su Marcel Proust, precedute dalle notizie utili ad agevolarne la comprensione da parte del pubblico che, in genere, si ha il torto di supporre assai meno al corrente di quanto sia […] Ho semplicemente cercato se sia possibile valersi dei mezzi radiofonici – voci invisibili e suggerimenti musicali – per incorporare in personaggi abbastanza evidenti e, per così dire, antropomorfici, le istanze che vengono a contrasto durante il lavoro di un critico. La necessità, o la speranza, di essere capito a volo mi hanno costretto a contrarre in profili bruschi, senza sfumature, punti di vista, che in un normale discorso critico avrebbero richiesto dimostrazioni laboriose. (Ivi: 951)

La Radiorecita resta una semplificazione, insomma, che concerne le dinamiche ideali dell’interpretazione critica in modo da renderla largamente comprensibile. Le preoccupazioni di Debenedetti relativamente al proprio discorso sono declamate da «interlocutori», veri e propri personaggi più o meno antropomorfi: un “Prologo”, un “Critico”, una “Donna”, due “Lettori” e il “Pubblico”. Leggiamo l’avvio da parte del Prologo:

PROLOGO Lasciatelo dire al prologo, che è nato guasta-mestieri: un critico è come una mela, sempre in pericolo di essere spaccato in due. Da una parte lo tira il pubblico, che gli dice:

PUBBLICO Parla come parliamo tutti quanti, chiama pane il pane. Sarà, anche per te, il miglior collaudo che sei nel vero. (Ivi: 952)

S’annuncia immediatamente un antagonismo tra certi attori. In particolare, il Critico verrà messo sul banco degli imputati dal Pubblico ministero della doxa sulla scorta del solito pregiudizio che lo ritiene gregario della banda della “critica complicata”. Dopo quello dell’Autobiografia anche qui si rappresentano rapporti di forza, ma questi riguardano gli antagonismi che nascono nella comunicazione, soprattutto quella più intellettualmente orientata. Vediamone un esempio. Quando il Pubblico inizia a narrare la vita di Proust («Marcel Proust nasce a Parigi nel 1871…») soffermandosi sulla sua infanzia, il primo lettore interviene a leggere a titolo esemplare l’apertura della Recherche. Il Critico, annunciata voce della competenza, interrompe con una riflessione sulla struttura del romanzo. A questo punto, la reazione del Pubblico diviene prepotente e le voci dei personaggi si accavallano:

Come insiste sulla parola tempo: è quella che apre il primo volume, sarà l’ultima dell’ultimo. Proust fa subito come una magia musicale col nome del tempo, per fascinarlo, lui che va alla ricerca del più imprendibile dei tempi: quello che non è più, il tempo perduto.

PUBBLICO (spazientito) Abbiamo lasciato Marcel, mentre appena incominciava a perderlo. Scolaro, scriveva componimenti inaccettabili, veri modelli del “fuori tema”. (Ivi: 954-955)

Il personaggio del Pubblico appare interessato soltanto alla vicenda biografica dell’autore Proust o, semmai, a rintracciare nella sua opera i rimandi alla sua vita: la Donna lo taccia più volte di “biografismo”389 e in più di un’occasione interviene in difesa del Critico. Il personaggio femminile è infatti quello incaricato di mediare tra le diverse posizioni, interrompendo discorsi che rischiano di sembrare potenziali monologhi di Pubblico e Critico. Ecco ancora la battuta del Pubblico:

Va bene, compreremo il libro. Ma quello che vogliamo sapere, qui da voi, è il modo di usarlo.

(Dal Cavaliere della Rosa, atto II, lo squillo che precede l’entrata di Ottavio.)

DONNA (scattando) Voglio prendermi una rivincita. Mi avete presentata come una fabbricatrice di imbarazzi. Ma sono anche una donna. La donna è la depositaria del coraggio dell’uomo. So dove il critico vuole arrivare. So che vorrebbe arrivarci coi piedi di piombo. E invece, proprio io, la maestra degli scrupoli, stavolta gli dico: “salta a piè pari sulla conclusione. Se ti romperai le gambe, dopo le ingesseremo. E se invece hai trovato qualcosa di utile, ne prendiamo subito il brevetto”.

PUBBLICO In televisione, risulterebbe che adesso il rappresentante del pubblico sta parlando tra sé.

(Effetto di voce “a parte”.) Mi pare che quei due drammatizzino un po’ le cose, come se stessero per farci una rivelazione. Speriamo che ne valga la pena. (Ivi: 974)

La Donna combatte per accordare il bisogno di romanzesco del Pubblico, l’unico fattore che lo attrae verso la Recherche, con la volontà del Critico di svelare i contenuti più segreti dell’opera e spiegare anche in che rapporto stia con essa il Jean Santeuil; del discorso critico, soprattutto, la Donna traduce le parole di più difficile comprensione consentendogli un migliore inserimento nello scambio comunicativo. Vediamo infatti cosa avviene quando, dopo continue botte e risposte, al Critico è infine concesso di comunicare la sua tesi critica, la sua interpretazione:

Swann concepisce su Odette tutti i sospetti possibili, anche quelli che paiono escogitati dalla fantasia più smaniosa di tormentarsi. E gli tocca, cosa dopo cosa, di scoprire che erano tutti fondati. Interrogando, svela il romanzesco di Odette. Ma, nel corso di questo interrogatorio, definisce anche il romanzo del proprio personaggio. La Ricerca scopre e collega il romanzesco della vita, che nel Santeuil si era presentata come una collezione, un susseguirsi arbitrario di tanti atomi di romanzesco. (Ivi: 979)

Subito, la Donna spezza la continuità del discorso critico per ritornare alla pluralità del dialogo, cercando di placare le aspettative del Pubblico accollandosi l’onere di porre le domande giuste, quelle che questo non saprebbe nemmeno enunciare e che tuttavia riusciranno ad ottenere dalla voce del Critico le risposte capaci di soddisfare la stessa pubblica opinione:

Ancora una cosa. Pubblico, hai pazienza?

PUBBLICO (con un sospiro) Siamo qui per questo…

DONNA Come le mettiamo quelle “intermittenze del cuore”, quei ricorsi della memoria involontaria, che Proust considera la chiave di tutta la sua Ricerca?

CRITICO Non vorrei aver l’aria di un distributore automatico di soluzioni.

PUBBLICO È tardi per pentirti.

CRITICO Ma, insomma, il geloso conclude poco, quando prende le cose di petto. Le più preziose confessioni gli arrivano da sole, quando lui sembra chiudere un occhio. Con Proust, il passato, quell’essere di fuga, si comporta alla stessa maniera. Come se fosse sottoposto a un interrogatorio di gelosia. (Ivi: 980)

In sintesi, come si può facilmente osservare, nella Radiorecita la scrittura saggistica di Debenedetti si censura e si cancella sotto le pressioni di una situazione comunicativa in cui i suoi destinatari collettivi vengono direttamente rappresentati. L’autore non intende tanto restituire con questo testo il lavoro del suo pensiero critico come quella riflessione dell’io nella linea più volte sottolineata di Montaigne, quanto invece le costrizioni di un discorso intellettuale entro un contesto di tipo sociale. Debenedetti avverte cioè la necessità di confrontarsi con le possibilità relazionali del genere, interrogandosi non solo sul suo modo di divulgare idee con la scrittura, ma anche sulla sua efficacia. La resa in modo dialogico dell’interpretazione non cancella quest’ultima, ma soppesa il suo potere espressivo nonché il ruolo stesso della critica in un dibattito culturale contemporaneo, schiacciato dalle regole della comunicazione di massa (ricordiamo che il medium del testo era originariamente la radio). Il saggio novecentesco di Debenedetti non dà certo per scontato il tradizionale ruolo che il genere ha assunto nella circolazione del pensiero moderno, ma un confronto con il modo narrativo-drammatico favorisce la sua verifica di fronte al rischio di una ricezione non sempre in chiaro dei suoi messaggi e, oltretutto, sottopone a critica l’individualismo dell’interpretazione letteraria, lo stesso che lo ha raggiunto dal saggio di Montaigne e che oggi subisce una nuova messa in discussione per lo squilibrio raggiunto tra le sue capacità persuasive e quelle di ricezione delle persone che accedono alle notizie, alla divulgazione delle idee, ai testi letterari e non.


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