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Esempio differente costituisce la Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo390, ultimo testo che rileggeremo e che data due anni prima della morte di Giacomo Debenedetti. Peculiare è la relazione che vi si istituisce tra il discorso critico e l’oggetto dello studio; non è un caso isolato come spiegavamo nel commento al saggio su D’Annunzio (di cui abbiamo parlato nel momento in cui appariva nella parabola storica dei Saggi critici perché si evidenziasse la portata storica della tecnica). Si tratta cioè di una strategia interpretativa già presente in filigrana nei suoi saggi da tempo:

Chiamo personaggio-uomo quell’alter ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. (Debenedetti 1999d: 1283)

Questo personaggio-uomo pare di una sostanza tanto storica quanto letteraria. Non è infatti un personaggio in particolare, collegato a un referente preciso; ma riunisce e sintetizza in un’unica figura alcuni tratti fondamentali dei personaggi dei romanzi novecenteschi, secondo l’idea di un destino condiviso tra uomini e loro speculari identità di finzione. Luigi Baldacci ha parlato di romanzo storico riguardo la Commemorazione e, più precisamente, di un

carattere eminentemente artistico e romanzesco della critica di Debenedetti: e quando tale “romanzo” ha per oggetto la crisi del personaggio-uomo del naturalismo, la sua disfatta, la sua possibile rinascita sotto altre spoglie, esso diventa un’analisi acutissima, estremamente veridica: si fa, diciamo così, romanzo storico. (Baldacci 1969: 90)

Come avveniva anche con la poesia di D’Annunzio, il saggio di Debenedetti ha creato il proprio oggetto di studio; non lo ha preso fedelmente dal mondo dei romanzi. Ha costruito un modello ideale, mentale; un nome immaginario e suscettibile di possedere un’identità narrativa che descrive un percorso condiviso tra i destini di quelle rappresentazioni letterarie e quelli delle nostre vite, entrambe influenzate dai cambiamenti della nostra società e dalle virate improvvise della Storia. Romanzo storico, quindi, perché la Commemorazione percorre la vicenda di un personaggio-uomo fittizio che tuttavia segue la cronografia del nostro tempo. Per questo il personaggio-uomo viene dotato di un certificato di nascita, come abbiamo noi tutti, da cui la sua storia prenda avvio come fosse una vita (proprio come in una narrativa naturalistica):

È dunque già cominciata, per il personaggio-uomo, una vita grama […] Egli appare, gli viene imposto un nome e uno stato civile, poi si dissolve in una miriade di corpuscoli che lo fanno sloggiare dalla ribalta, è richiamato solo nel momento in cui serve a incollare i suoi minutissimi cocci. (Debenedetti 1999d: 1291)

Il calendario su cui segnare le sue date importanti è lo stesso su cui dovremmo riportare le nostre: le une e le altre sono in minoranza rispetto i punti che indicano eventi discreti ripetuti nelle settimane, nei mesi e negli anni. Il personaggio-uomo sta prefigurando l’autobiografia che più ci assomiglia e che tiene insieme i pezzi della sua vita come della nostra. Quando Debenedetti riconosce la rottura della narrativa novecentesca rispetto al romanzo tradizionale391, introduce un esempio, quello di Joyce, dove osserva che l’orizzonte temporale dell’ambientazione dell’Ulysses è una giornata qualunque, il sedici giugno 1904; un tempo insomma né significativo né significante ma scelto arbitrariamente, e confronta questa scelta con le tecniche usate da Proust:

La giornata era e doveva essere scelta a caso: essa presentava, al pari di tutte le altre giornate di tarda primavera nella Dublino di quegli anni, lo stesso numero di probabilità statistiche che vi si verificasse una certa quantità di eventi significativi, tra un certo gruppo di personaggi che l’autore voleva raffigurare. (Riscontro pedantesco ma doveroso: è puramente casuale che sia proprio quel certo nucleo a esplodere nel ciclotrone tra gli innumerevoli altri nuclei eguali ed equivalenti; ma il fisico prevede, con le più formali assicurazioni statistiche, che l’evento si produrrà.) E la Recherche di Proust? Essa procede e si rilancia su una serie di imprevedibili reviviscenze della memoria involontaria, ma il suo arco è sorretto dalla fiducia, o addirittura certezza statistica che, in un certo giro di tempo, si verificheranno spontaneamente le occasioni che faranno scoccare quelle reviviscenze. (Ivi: 1293-4)

La storia che racconta il personaggio-uomo si racchiude anch’essa in una vicenda quotidiana, come quelle che si possono vivere all’infuori di azioni epiche, di vittorie o tragedie e dove accadono eventi apparentemente normali, cui ci si sforza di conferire senso e valore. Anche la sua morte non presenterà poi particolari livelli di efferatezza; la sua Nekuia (per usare una parola cara a Debenedetti) è quella concessa ai comuni mortali, vale a dire che non consente risalite. L’intera società occidentale, con tutti i suoi membri, lo potrebbe seguire senza traumi per fare posto ad altro e ad altri. Difatti, morto un personaggio, ne subentra uno nuovo. Il colpo di scena (l’unico di questa mediocre cronaca) arriva proprio durante la sua Commemorazione, quando appare nella storia qualcuno finora mai visto che cambia le sorti del funerale:

La controproposta meno esosa pare ancora quella di accettare la metamorfosi del personaggio in una intrascendibile unità naturale ed estranea, analoga (e qui l’analogia non è più losca) alla particella della fisica. Slogan per slogan: noi ora assistiamo alla metamorfosi del personaggio-uomo nel personaggio-particella. (Ivi: 1295)

Quel personaggio-particella non è semplicemente una seconda etichetta di Debenedetti da apporre sopra la prima. Si tratta di un’altra categoria di classificazione per altri e nuovi oggetti letterari; di fronte a una modificazione delle storie, il critico non cessa di seguire la sorte comune di quelle peripezie e non si ferma ad argomentare soltanto una spaccatura tra due identità in antitesi; anche per la seconda conia un personaggio-tipo. In questo senso, esiste una fabula costituita dalla storia della cultura e della letteratura su cui Debenedetti costruisce l’intreccio della biografia dei suoi personaggi-uomo e –particella.

Emanuele Zinato ha parlato di critica narrativizzata riguardo i corsi universitari tenuti da Debenedetti nel corso degli anni e riuniti nel volume postumo Romanzo del Novecento392: formula che pare certo potersi estendere anche alla Commemorazione. Di altre finzioni critiche la Commemorazione fa un impiego scrupoloso ma diffuso, comprendendo nell’analisi anche i personaggi del cinema e soprattutto consentendo l’incontro tanto patrocinato tra letteratura e scienza. Lo si vede bene in un dialogo, l’ennesimo attribuito a due voci, le quali, stavolta, non nascondono alcun nome di persona ma vengono connotate da una X e una Y. Sembrano anonime, ma si capisce che provengono dalla scienza fisica e della letteratura narrativa393:

Oggi tutte le strade sembrano condurre all’antipersonaggio, alla particella.

Al punto che un immaginario dialogo sui rispettivi personaggi, tra un fisico e un romanziere degli anni Sessanta, rischierebbe di creare i più deplorevoli equivoci sui nomi degli interlocutori:

X – Il nuovo personaggio “crea una serie di contraddizioni con le idee classiche e col buonsenso, nato per l’appunto dalle esperienze sensoriali”.

Y – “L’aspetto un po’ inconsueto di questo mondo… ci rivela, al tempo stesso il carattere inconsueto del mondo che ci circonda: inconsueto, anch’esso, nella misura in cui ricusa di piegarsi alle nostre abitudini di apprendimento e al nostro ordine” […]

L’ultimo a parlare è stato il fisico, ma l’indovinello potrebbe prolungarsi. Così, quando il romanziere impone un nome proprio ai suoi personaggi, sospettiamo l’arbitrio, che Robbe-Grillet cerca di sventare, battezzandoli con le lettere dell’alfabeto. E delle particelle il fisico conosce solo i nomi collettivi (pioni, positroni, ecc.), ma non si sogna di distinguere con un appellativo specifico quel particolare pione o altro, che sta osservano nella camera a nebbia. (Ivi: 1304-5).

X e Y sono voci diverse dentro la coscienza del personaggio-particella. La perdita del nome proprio si prospetta come la sua distinzione più evidente rispetto al personaggio-uomo. La sua identità narrativa perde di rappresentazione antropomorfica; cancella le proprie fattezze più umane, il suo riconoscimento civile e si annuncia come una creatura senza carta d’identità: una natura metaforica, crepuscolare e minuscola perché apparentata da Debenedetti alle particelle della fisica. Dalla Commemorazione sembra quindi uscire qualcosa di simile a un oggetto sperimentale, come quelli usati in laboratorio per portare a termine certi esperimenti: viene ri-programmato continuamente a seconda di cosa si cerca e di cosa dovrebbe recare traccia. Il personaggio-particella è un’identità nulla che rappresenta l’assenza o la caotica incostanza dei fili del destino nella biografia dei contemporanei di Debenedetti, come dice quel “nome proprio” nostro e caratteristico ridotto a una sola lettera, X o Y: le stesse che si usano in matematica per parlare di grandezze variabili e che qui indicano la massa mobile, astratta dell’uomo senza individualità. Eppure, a differenza delle funzioni a una o due incognite, alle operazioni di Debenedetti sui romanzi degli anni Sessanta il vettore del nostro attuale destino risultava ancora incalcolabile.

Riassumendo: immediatamente dopo la guerra, l’idea di un’autobiografia critica penetrava all’interno della progettazione dei saggi di Debenedetti soprattutto in un senso di testimonianza di un determinato sfondo storico estratto dall’Italia fascita e post-fascista. Perciò, negli anni Quaranta, dalla sua saggistica affiorava sotto la spinta della memoria un residuo esistenziale che si poteva sottrarre dal discorso critico e rilanciare come un’auto-rappresentazione di valori etici. Successivamente, venuta meno l’esigenza di quella testimonianza, Debenedetti riesce dopo la parabola del Dopoguerra a inserire un modo narrativo direttamente all’interno del discorso saggistico, realizzando anche formalmente l’unione in un immaginario comune delle due culture. Qui, lo sfondo storico non è più quel periodo (la guerra, il fascismo), ma è ormai un continuum mobile da interpretare secondo un oggetto ideale, ricombinato e modellato ad hoc e ricostruibile soltanto tramite un racconto, se si vuole rendere conto del cambiamento del suo referente, quell’idea di destino degli uomini incarnata anche dai personaggi romanzeschi e che entrambi attraversiamo lungo l’asse temporale della storia della cultura.

Da sempre, la mancanza per il saggio di una forma costituzionalmente altra (se non strettamente codificata dall’accademia o politicamente funzionale ad una certa militanza: come il saggio semiologico degli anni Cinquanta) ha permesso la proliferazione di forme soggettive tra loro sempre diverse come risposta immediata alla domanda d’individualismo della società moderna. Ciò non significa banalmente un’enunciazione orientata sull’“io”, come hanno sostenuto i teorici del Québec. Secondo quanto abbiamo visto nel caso di Serra o di Debenedetti, anche laddove la contaminazione piega il discorso alla rappresentazione di coordinate personali il saggio non prescinde dalla propria tensione conoscitiva e comunicativa, eventualmente mantenuta irrisolta tra la crescente crisi delle capacità individuali di giudizio e il mondo dei fenomeni culturali. La forma del genere si dimostra malleabile a sufficienza per trovare la strada di un’alternativa storica a quell’ideologia che ugualmente lo ha nutrito. La dissociazione del genere dalla filosofia di Montaigne ha richiesto che intervenisse un’altra forma espressiva dell’individualismo moderno, il racconto (più precisamente un modo narrativo “classico”, proveniente dal romanzo ottocentesco), a mitigare il rischio di un’oggettivazione scientifica del saggio, soprattutto in un momento di rinnovamento delle scienze umanistiche per mezzo di nuove discipline verso nuove interpretazioni della totalità della vita. All’interno della cultura del Novecento, il saggio in quanto genere non sembra così eludere le sue aspettative programmatiche anche se osservato nella sua contaminazione. Essa non farebbe altro che approfondire il problema centrale del genere, quello dell’eterogeneità della sua forma rispetto all’individuazione di un modello testuale organico.

Tuttavia, tra la cornice narrativa e il saggio parallelo sembra esistere anche una consecutività storica. Dalla cornice autobiografica o testimoniale forse prevalente fino al Dopoguerra, si passa a una contaminazione che cerca un maggiore stato di equilibrio dei modi discorsivi a partire soprattutto dagli anni Sessanta: momento centrale di quella ricostituzione dei saperi umanistici tradizionali e di assimilazione di sviluppi teorici precedenti da parte della critica letteraria, almeno in Francia e conseguentemente anche in Italia. Se si riflette infatti su alcuni saggi apparsi a quell’altezza, una certa tendenza ad usare logiche di costruzione parallele si rintraccia facilmente nella produzione saggistica europea. Ne costituisce un curioso esempio Glas (1974) di Jacques Derrida, il cui testo è strutturato secondo due colonne di sviluppo parallele a livello tipografico (una a destra e una a sinistra) senza né inizio né fine (manca cioè tanto la maiuscola d’inizio quanto il punto fermo finale), dove si discute rispettivamente del concetto di famiglia in Hegel e della scrittura autobiografica di Jean Genet394. Le due parti parallele non affrontano temi comuni, ma dal loro affiancamento possono crearsi indefinite allusioni, favorite dai molti spazi bianchi lasciati dall’autore in mezzo ai due discorsi, come se i testi fossero già preparati a rispondersi reciprocamente. Glas sembra allora il possibile prototipo di un saggio parallelo per la simmetria evidente nella processione dei due testi, ma certo non nel senso di una contaminazione con il racconto. Un parallelismo del saggio con un discorso narrativo conterrà invece – vedremo – Pinocchio: un libro parallelo (1977) di Giorgio Manganelli395, cui si sarebbe potuto aggiungere anche L’Orlando innamorato raccontato in prosa (1994) di Gianni Celati se egli non vi rivendicasse intenzionalmente uno statuto di traduzione interdiscorsiva del romanzo cavalleresco di Boiardo396.

I titoli di queste tre opere rifiutano il nome di saggio tradizionale così come un quarto testo, S/Z di Barthes: un titolo altamente simbolico, con quell’enigmatico e curioso asse trasversale che divide le due lettere e quasi annuncia una struttura bipartita dell’intero volume, un certo suo parallelismo interno. Quelle sono le iniziali dei nomi dei due protagonisti, Sarrasine e Zambinella, della novella Sarrasine di Balzac al centro del commento di Barthes; in mezzo, quel segno grafico esemplifica già l’interpretazione del critico, rappresentando la castrazione che interverrebbe nella storia e nella narrazione397. L’insofferenza di fronte al nome di genere essai appare insomma una caratteristica condivisa da più critici che in Barthes assume oltretutto toni espliciti a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui lavora al nuovo progetto strutturalista di S/Z (anche se sarà un rifiuto che non potrà estendersi in assoluto a tutto il suo pensiero se pensiamo al titolo scelto per i diversi libri degli Essais critiques). Eppure, un’intervista del maggio 1970, di poco precedente l’uscita di S/Z, ci suggerisce anche che si tratta di una riflessione da declinare in una prospettiva di rinnovamento del gesto critico risalente fino a Critique et vérité (1966) e alla “crisi del commento” allora prospettata398:

Je voudrais dire à ce propos que, si, en général, je n’aime pas beaucoup ce mot d’“essai” appliqué au travail critique (l’essai apparaît alors comme une façon faussement prudente de faire de la science), je peux accepter le mot si on l’entend comme “faire l’essai d’un langage sur un objet, un texte”: on essaie un langage comme on essaie un vêtement; plus ça colle, c’est-à-dire plus loin ça va, et plus on est heureux. (Barthes 2002h: 663)

Barthes vorrebbe evitare il termine “saggio” per indicare il (suo) moderno lavoro critico, a meno che non lo si intenda nell’accezione letterale degli Essais di Montaigne: cioè come prove, tentativi, esperimenti di una scrittura e di una nuova lingua da infondere in un testo. Apparsa anche prima dell’opera di Derrida, S/Z (1971) sembrerebbe destinata da subito a diventare la precorritrice di un nuovo tipo di commento, se non avesse poi mancato di imitatori futuri anche dopo un notevole successo. Ad ogni modo, è certo che questo libro rappresenta un cambiamento di paradigma per lo stesso Barthes399. In un’altra intervista, seguente l’uscita del libro, egli afferma che la storica Introduction à l’analyse structurale des récits (1966) e S/Z non solo sono separate dagli anni, ma corrispondono a due semiologie differenti, collocate agli estremi di un percorso fatto di aggiustamenti e di ripensamenti riguardo la tentazione di esplicazione totale del racconto da parte del primo strutturalismo. S/Z segna in questo senso un punto di valico in merito alle proposte metodologiche di Barthes. Soprattutto la relazione metatestuale del discorso critico sembra subire una svolta riformatrice:

Les causes de cette mutation (car il s’agit plutôt de mutation que d’évolution) seraient à chercher dans l’histoire récente de la France – pourquoi pas? – et puis aussi dans l’intertextuel, c’est-à-dire dans les textes qui m’entourent, qui m’accompagnent, qui me précèdent, qui me suivent, et avec lesquels bien entendu je communique. Je ne les cite pas, vous devinez desquels il s’agit, et ce serait revenir toujours aux mêmes noms du même groupe. (Barthes 2002l: 1005)

L’unica esplicita citazione di S/Z riguarderà soltanto l’articolo di Reboul400, a cui Barthes deve l’individuazione del tema simbolico della castrazione nella novella Sarrasine di Balzac: come dicevamo il motivo al centro del suo commento401. Ma lo stesso autore afferma a posteriori la presenza indiretta e nascosta di altri testi ancora. La relazione di commento con quel racconto non potrà allora essere l’unica e la sola ad attraversare l’opera. Il discorso di Balzac e quello di Barthes subiranno l’associazione in altri linguaggi e l’individuazione di reciproci rimandi e di lontani legami citazionali al sistema della cultura per evidenziare la comune partecipazione al nuovo regime dell’intertestualità. Siamo di fronte a un cambiamento di paradigma metodologico nemmeno troppo circoscrivibile a S/Z. In un altro contributo dello stesso anno, L’analyse structurale du récit. À propos d’Actes 10-11 (1970), che, pur più limitato negli scopi e ristretto nell’estensione del commento, spiega meglio questa nuova prospettiva. L’analisi critica non vuole più individuare un senso del testo:

L’analyse structurale ne peut être une méthode d’interprétation; elle ne cherche pas à interpréter le texte, à proposer le sens probable du texte; elle ne suit pas un cheminement anagogique vers la vérité du texte, vers sa structure profonde, vers son secret; et, par conséquent, elle diffère fondamentalement de ce qu’on appelle la critique littéraire, qui est une critique interprétative, de type marxiste, ou de type psychanalytique […] pour elle, toutes les racines du texte sont en l’air; elle n’a pas à déterrer ces racines pour trouver la principale. (Barthes 2002f: 461)

Un nuovo discorso critico non deve più collegare senso e testi come due insieme biunivoci, ma deve mostrare come ogni singolo testo partecipi al discorso universale di altri e infiniti testi potenziali, e quindi di altrettanti sensi, secondo un rapporto indecidibile di attribuzione sistematica di uno soltanto di essi. La struttura critica e il commento tradizionale devono adeguarsi alla modifica della normale relazione metatestuale. Così, la consueta combinazione di testo critico e citazione, con un testo-oggetto che s’inserisce tra le pieghe del discorso critico e lo interrompe per essere spiegato, risulterà invertita in S/Z; il testo-oggetto – il racconto di Balzac – non è più raccolto in parziali ed isolate citazioni, ma invade completamente il testo-soggetto di Barthes; stavolta sarà il discorso critico quello che si insinua a far saltare la continuità del testo commentato, soffermandosi di frammento in frammento a discutere lo sviluppo di Sarrasine. Barthes chiama “lessie” i brani di volta in volta commentati, la cui divisione rimane un suo atto volontario e compiuto con un’interruzione soggettiva della continuità del racconto (il quale viene comunque riprodotto integralmente in fondo al volume402). Perciò, il critico compie un’interpretazione già nel momento in cui crea gli spazi per l’intreccio del proprio discorso lungo l’ordine narrativo del racconto di Balzac. Commentando linea per linea, il critico cerca di collegare ogni lessia al maggior numero possibile di altre con l’individuazione di codici comuni di propagazione dei sensi interni, ricavandone l’impressione di un’immensa pluralità della significazione dovuta alla fluttuazione dei codici che costituiscono quel racconto (da quello delle azioni che vi si compiono a quello dei simboli) fino ad ottenere l’accumulo di accessi diversi a sensi sempre molteplici. In dispetto a quanto risulterebbe da una critica guidata dalle proprie predilezioni a scendere in specifici frangenti ritenuti più interessanti o significativi, Barthes non accetta che vi siano aspetti marginali e secondari nel racconto, soprattutto nel caso di narrazioni ben costruite e suturate in ogni aspetto diegetico come quella di Balzac.

Più precisamente, nell’intervista del maggio 1970 l’autore lega la novità del suo metodo di analisi agli effetti di un nuovo modo di lettura dei testi:

L’un des gains de ces analyses est précisément que j’ai pu parler le texte, sans en faire le plan et sans éprouver jamais le besoin de le faire. Il n’y a ainsi en réalité pas d’autre structure dans ce travail que ma lecture, l’avancée d’une lecture comme structuration. En un mot, j’ai abandonné radicalement le discours dit critique pour entrer dans un discours de la lecture, une écriture-lecture. (Barthes 2002h: 659)

L’intertesto proviene da una lettura elevata ad autonoma attività critica. Considerata una pratica dotata di un suo valore e interesse speculativo già in Critique et vérité, in S/Z viene abolito quel desiderio di un proprio linguaggio che mutava il lettore in critico e divideva la lettura medesima dalla critica propriamente letteraria403. La lettura diviene adesso un processo di fruizione dell’opera da cui deriva direttamente la produzione di una nuova scrittura, comportando il conseguente allontanamento della critica dal genere del saggio tradizionale404. Per capire come cessi tale divisione, conviene aprire S/Z senza saltare la prima pagina; ci accorgeremo allora di una sua componente paratestuale. Una riproduzione del dipinto Le Sommeil d’Endymion405 (1791) di Anne-Louis Girodet precede talvolta in copertina o viene subito prima dell’inizio del testo (in genere viene conservata anche nelle traduzioni).


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