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L’elaborazione di Schaeffer ritorna invece utile anche per approfondire il particolare abbraccio metaforico, aggrovigliatosi nei secoli, tra il nome generale di genere e la sua incoronazione a classe delle opere. Lo studioso risale fino ad Aristotele per rintracciare l’origine del paradigma naturalistico affermatosi poi nell’Ottocento61. In particolare, si può isolare un passo della Poetica, laddove Aristotele scrive che la tragedia s’arrestò nel suo sviluppo interno nel momento stesso in cui espresse appieno il proprio potenziale:



Poi la tragedia crebbe a poco a poco, mano a mano che i poeti ne sviluppavano le manifestazioni, e dopo avere attraversato molti mutamenti si stabilizzò, avendo raggiunto la propria natura. (Poetica: 1449 a 12-15)

Il termine di tragedia, commenta Schaeffer, è qui usato da Aristotele non come il nome collettivo scelto per un insieme di testi, ma come una sostanza dotata di un proprio sviluppo interno62. La tragedia si trasforma così in un organismo pressoché biologico:



È nota la fortuna storica di questo paradigma organicista che è di fatto una delle metafore centrali dell’estetica occidentale […] Ammettere che i generi hanno una dunamis interna, ammettere che possono passare dalla potenza all’atto significa perciò considerarli come sostanze. (Schaeffer 1992: 20)

In tal modo, Aristotele aggiungerebbe al carattere normativo anche un carattere essenzialistico: vedrebbe cioè nella catarsi una finalità interna della tragedia. Il filosofo passerebbe allora dalla normatività (quel mito, racconto deve avere nella tragedia la catarsi come caratteristica) a una posizione essenzialistica (essa è un suo aspetto naturale), dacché la tragedia si evolve fino alla propria perfezione (nella realizzazione della sua dynamis, potenzialità). La teoria normativa rischierebbe di confluire in quella essenzialistica e il genere essere determinato sulla base di una propria natura interna: «se le opere poetiche hanno una natura interna, non possono che essere conformi ad essa (un feto umano non può esitare fra diventare un uomo o un cavallo)»63. Stabilendo un’identità tra natura e letteratura, insomma, qualsiasi combinazione generica in un’opera verrebbe percepita come un’ibridazione che impedisce non solo la corretta forma del genere, ma anche il dispiegamento del suo completo potenziale. Proprio per il germe di un paradigma naturalistico attecchito nella teoria, l’ibridazione si concepisce come un elemento di contrasto al genere stesso, invece che un fenomeno di contaminazione delle opere che non cancella i loro condizionamenti generici. Tuttavia, Aristotele conserva pur sempre al proprio interno gli altri due criteri, quelli normativo e strutturale, su cui si sofferma soprattutto Gérard Genette e che completano il quadro dell’interpretazione di Schaeffer della teoria aristotelica dei generi. Essi assumono il ruolo di vero e proprio antidoto al pericolo naturalistico precedentemente intravisto in alcuni punti della Poetica.

Per illustrare questi altri due fondamenti aristotelici della teoria dei generi si può seguire Genette. In Introduction à l’architexte costui parte da una precisazione: l’attribuzione a Platone e Aristotele della teoria dei tre generi fondamentali (lirica, epica e dramma) va considerato un errore storico64. Nel terzo libro della Repubblica, Platone circoscrive la poesia alla rappresentazione d’avvenimenti, escludendo in tal modo il genere lirico. Il suo sistema prevede il ditirambo come indizio del modo narrativo; mentre la tragedia e la commedia sono caratterizzate dal modo mimetico e l’epopea, infine, da un modo misto tra i due precedenti65. Per Aristotele, invece, essendo la poesia un’arte d’imitazione in versi, la triade platonica viene ridotta a un duopolio: modo narrativo e modo drammatico. Il modo narrativo puro di Platone risulta insomma espulso66. Dalla loro combinazione con le categorie d’oggetti, la materia o argomento delle opere, Genette ricava il noto schema a quattro caselle, lo stesso che ha riscontrato grande successo nella teoria dei generi67: i modi drammatico e narrativo creano con l’oggetto superiore e con l’oggetto inferiore una griglia a quattro classi (tragedia, epopea, commedia, parodia68). Si determina dunque una classificazione gerarchica in Aristotele (benché Platone ne avesse già accennata una con il bando del poeta mimetico dalla città): tragedia ed epica in alto, commedia in basso.

Al contempo, dobbiamo anche aggiungere che Aristotele rivendica la necessità di dotare la tradizione di un canone, una misura tecnico-formale identificata in un autore o in un’opera esemplare e dalle caratteristiche ben riconoscibili. Come poi scriverà Auerbach in Mimesis, si crea una corrispondenza perfetta tra contenuti, forme e distinti livelli di pubblico: la legge retorica della separazione degli stili, come la chiama lo stesso Auerbach69.

L’elemento portante di questo discorso resta che Aristotele, limitandosi a definire la tragedia, l’epopea, la commedia sulla base di tratti pertinenti oppositivi, permette di definire i generi letterari prescindendo da (sue dirette) considerazioni essenzialiste (per Schaeffer)70. Si comprende bene come Aristotele racchiuda in sé già quelle concezioni antitetiche della teoria dei generi che si scontreranno e prevarranno a fasi alterne durante tutta la storia letteraria. L’atteggiamento normativo sarà infatti quello che dominerà fino al Settecento, per poi essere sostituito dall’atteggiamento essenzialista-evoluzionista nel Romanticismo e raggiungere l’apice nel pensiero di Ferdinand Brunetière: proprio quest’ultimo costituisce per la discussione del paradigma naturalistico il nostro punto di arrivo.

Se davvero questa tentazione naturalistica si nasconda già in Aristotele o se, come sostiene Bagni, la sua apparizione vada individuata in Goethe71, è certo che fra i due spetta proprio a Goethe una prima rivendicazione, pur sintetica. Goethe, in due annotazioni, Dichtarten e Naturformen der Dichtung72 al West-östlichen Divans distingue tre forme naturali (Naturformen), l’epica, la tragedia e la lirica, che definisce come modi poetici (Dichtweisen).

Diese drei Dichtweisen können zusammen oder abgesondert wirken […] die Dichtarten bin ins Unendliche mannigfaltig, und deshalb auch so schwer eine Ordnung zu finden, wornach man sie neben oder nach einander aufstellen könnte. (Goethe 1948: 480-481)

Tali Dichtweisen, spiega Goethe, possono operare sia insieme che separati, mentre a un altro ordine possono essere disposte quelle che egli chiama Dichtarten: ode, sonetto, dramma, ecc. I Dichtweisen sprofonderebbero le loro radici nella natura della lingua umana, nel suo spirito, e assumerebbero la funzione di veri e propri modi dell’espressione, anche se Goethe non si soffermerà a elaborare una classificazione dei generi sulla base di tali Dichtweisen (proporrà l’idea di un cerchio tripartito da cui i generi storici possano innervarsi e derivarsi, ma questo sarà rappresentato da Petersen soltanto nel 192573). Tali “forme naturali” occupano un livello superiore che condiziona quello dove poggiano le Dichtarten. Proprio quest’ultime restano le sole interpretabili come generi storici (dacché Goethe non usa mai il termine tedesco per genere (Gattung). Ma Goethe si sofferma esattamente sul legame che intercorre tra tali forme e la natura biologica quando compara la ricerca delle leggi che governano le Dichtarten a quella della relazione che lega minerali e piante con le rispettive componenti interne:

Der Versuch jedoch wird immer so schwierig sein, als in der Naturkunde das Bestreben, den Bezug auszufinden der äußeren Kennzeichen von Mineralien und Pflanzen zu ihren inneren Bestandteilen, um eine naturgemäße Ordnung dem Geiste darzustellen. (Goethe 1948: 482)

Paragonando la teoria dei generi a una ricerca sia naturale sia spirituale si mostra chiaramente la base dell’idea organicistica ed essenzialistica dei generi. Come scrive Schaeffer sarà poi il Romanticismo che interpreterà il nome di genere come la denominazione di una classe naturale sulla scorta di tale identificazione implicita tra esistenza storica ed essenza vitale dei generi letterari:



Non si tratta più di presentare paradigmi da imitare e di stabilire regole, si tratta di spiegare la genesi e l’evoluzione della letteratura […] il modo con cui le teorie essenzialiste si servono della nozione di genere letterario è più vicino al pensiero magico che non all’investigazione razionale. Per il pensiero magico, la parola crea la cosa […] il fatto stesso di usare il termine [di genere letterario] induce i teorici a pensare che si deve trovare nella realtà letteraria un’entità corrispondente […] Ciò che in Aristotele non era, tutto sommato, che una tentazione […] contro la quale egli stesso disponeva di un argomento decisivo, della distinzione cioè fra oggetti naturali dotati di una finalità interna e oggetti culturali piegati a una finalità esterna, diventerà l’atteggiamento dominante della teoria letteraria a partire dal Romanticismo. (Schaeffer 1992: 32-33)

Dopo il percorso su ibridazione e contaminazione, potremmo ricavare qualche pista di lettura anche dall’etimologia dello stesso nome di genere, perché in tedesco la sua radice favorisce la riuscita del paragone essenzialistico. Con Heinz Weinmann si può infatti osservare l’iscrizione di un paragone fondativo tra genere ed essere vivente sulla base di una comune radice etimologica, che ne mette in luce il carattere genealogico di conservazione delle proprietà nel tempo:



C’est la biologie, science de la vie qui nous rend à l’évidence que le genre, au prime abord, décrit une classe d’être en vue de sa procréation. Ce rapport intime du genre avec la vie, avec la procréation, sensible dans l’étymologie grecque et latine, saute encore mieux aux yeux en allemand où Gattung (genre) à travers Gatte (mari) et Begattung (copulation-procréation) a gardé le contact avec cette source bio-logique, créatrice, procréatrice de vie. (Weinmann 1989: 145)

Nella lingua tedesca, la parola per genere esibisce un radicale (gat-) condiviso dal campo lessicale della procreazione e della generazione. David Duff ricorda pure che l’impiego del termine “specie” in relazione ai generi era già utilizzato prima che “genere” lo sostituisse. Quando è comparso il nominativo “genere”, esso ha semplicemente rimpiazzato il precedente senza che la definizione del suo oggetto di riferimento fosse riconsiderata alla luce del cambiamento del dizionario. Così, “genere” ha ereditato anche la semantica soggiacente a “specie”: «the phrase “species of composition” was common in the eighteenth century, but this was before the word genre was in use, and the latter has simply replaced, rather than defined itself against, the former»74. Lo slittamento dei significanti non ha cancellato una connotazione di significati ben radicata nell’idea di genere e che non ha cessato di perpetuare una sua inclinazione biologica.

La similitudine sotto cui si nasconde la visione di Goethe svolge, in sostanza, la funzione di anticamera per la creazione del concetto stesso di categoria del genere letterario. Affinché il procedimento d’identificazione del genere letterario come classe funzioni ben al di là del paragone naturalistico ed esplicito di Goethe, deve tendersi un ponte tra due concetti così distanti. Soltanto a partire dal presupposto di un’uguaglianza tra genere e specie si è potuto fare riferimento al genere con gli attribuiti che ad esempio impiega Darwin per definire gli ibridi. La ricerca sui generi, proprio come la scienza rispetto alla descrizione delle leggi naturali, ha talvolta esplicitato la relazione tra opere e generi letterari per mezzo di espressioni metaforiche. Come dimostrato da diversi studi, si può verificare che tanto le scienze umane quanto quelle più sperimentali si servono di buon grado di procedimenti espressivi particolarmente evidenti in letteratura per nominare, esplicitare o addirittura determinare leggi a spiegazioni dei fenomeni dei loro studi75. Si tende a rifiutare l’abbondanza di tali elementi retorici ed espressivi nella comune idea di discorso scientifico; ci s’aspetta che «analogical language (metaphors, similes, etc.) should be expelled from the realm of scientific and true philosophical discourse»76. Invece, spesso le metafore costituiscono, come sostiene Fishelov, «the innermost productive core of the whole scientific endeavor»77. Non deve sorprendere che questa figura retorica possa rivelarsi produttiva anche all’interno delle teoria dei generi. Si può partire da una nota affermazione di Roland Barthes all’altezza del 1977, che riguarda la tendenza a un utilizzo della metafora in diversi registri discorsivi del sapere contemporaneo:

Le discours moderne est “catachrétique”, parce que, d’une part, il produit un effet continu de métaphorisation, mais que, d’autre part, il n’y a aucune possibilité de dire autrement la chose que par métaphore. (Barthes 2003: 489)

Le metafore si porrebbero come necessarie sostituzioni di alcune parole, idee, argomentazioni affinché un discorso dell’oggi non resti senza linguaggio nella descrizione dei fenomeni che gli interessano. Benché non sia necessario appoggiare in toto tale posizione, si può certo convenire con Barthes sulla facilità con cui un discorso anche teorico-letterario possa servirsi di metafore provenienti da altri campi di studio, per lo più scientifici78. Se Richard Boyd afferma che nelle discipline umanistiche «il compito di spiegare una metafora è tipicamente distinto dal compito della sua produzione», nelle discipline scientifiche «rientra nei compiti della costruzione di teorie scientifiche implicanti metafore (o qualsiasi altra sorta di terminologia teorica) offrire la migliore spiegazione possibile della terminologia impiegata»79. Dobbiamo allora riconoscere che, per quanto riguarda i generi letterari, la metafora si presenta costitutiva per la loro teorizzazione: la produzione di metafore da parte delle teorie dei generi, in poche parole, non è mai disgiunta dal tentativo di una spiegazione del concetto stesso di genere. In particolare secondo Marielle Macé, una delle ragioni della fortuna e dell’apparente necessità di tali metafore anche in campo critico-letterario è dovuta al loro precedente utilizzo nelle discipline scientifiche. La teoria della letteratura, così, sconterebbe il fascino e il privilegio accordato alla scienza a partire dalla modernità, assumendone anche le più inventive risorse linguistiche:

Le travail scientifique implique la mobilisation de certaines métaphores dites “constitutives” qui s’imposent lorsqu’on ne dispose pas encore d’un terme technique, et qu’on ne peut pas donner une paraphrase littérale du phénomène visé […] ces métaphores sont réimplantées dans la langue commune et s’exemptent de toute validation, étant en quelque sorte déjà dotées de l’aura de la science faite […] L’usage de l’analogie reste incontrôlé. (Macé 2006: 280)

Tuttavia, un tale utilizzo della metafora a prelevare espressioni, idee e concetti da un campo del sapere all’altro comporta ovviamente alcuni problemi: ostacoli non da poco sul fronte dell’applicabilità di nozioni e strumenti spesso molto lontani. In particolare, Michael Sinding espone le difficoltà di traduzione per quei concetti operativi veicolati con delle metafore e ripresi per discutere dei generi letterari:

While genre theory draws on an extensive biological analogy, with concepts of patrimony, fertilization, inheritance, mutation, hybridization, evolution and degeneration, categorizing itself is sterile and lifeless. (Sinding 2002: 181)

La sostituzione del concetto di genere con quello di specie giungerebbe in supporto alla presunta povertà descrittiva dell’idea di categoria letteraria, rispetto alla ricchezza resa disponibile da quella di classe naturale, con tutto il suo bagaglio di concetti annessi, come la possibilità di rintracciare una sorta di genealogia delle forme letterarie.

Questo passaggio era taciuto in Goethe. Bisogna arrivare fino a Ferdinand Brunetière perché l’identità sia davvero esplicitata; egli converte il comune radicale tra generi e specie naturali ad analogia per la costruzione di un metodo d’interpretazione applicabile all’intera storia letteraria. La volontà di Brunetière fu inizialmente quella di elaborare una critica «qui se fonderait sur l’histoire naturelle de Darwin»:

De là pour nous l’obligation – sans transformer ce cours de littérature en un cours d’histoire naturelle, – de là, l’obligation d’insister cependant sur la doctrine, ou, si vous l’aimez mieux, sur l’hypothèse de l’évolution. (Brunetière 1906: 18)

Quel che emerge nel corso delle sue lezioni al Collège de France del 1889, da cui sono estratte queste parole, è un percorso all’interno della storia della critica in Francia nell’evidente bisogno di convalidare, per mezzo di una valutazione retrospettiva dei metodi presenti e passati, una teoria evoluzionistica anche per i prodotti letterari. Ma Brunetière non traduce propriamente il metodo darwiniano in letteratura, non ha trasferito una metodologia scientifica dallo studio di esseri naturali allo studio di oggetti letterari80. È proprio la convinzione aprioristica di poter considerare i testi al pari di fenomeni naturali a consentirgli di non dover approfondire un proprio metodo testuale collaudato sui principi del darwinismo:

Comme les productions de l’homme, pour différer de celles de la nature, ne laissent pas pourtant d’avoir quelques traits de communs avec elles; et comme enfin, quand elles sont détachées une fois de leur auteur, les œuvres vivent, d’une vie propre et indépendante, on dit seulement que la connaissance des lois de la nature ne saurait manquer de jeter une grande clarté sur l’intelligence des lois qui gouvernent le développement des œuvres de l’homme. (Ivi: 275)

Per quanto riguarda la ricerca delle leggi dei generi basterà allora assumere un punto pressoché assiomatico, da difendere senza concedere sconti e da cui far discendere tutta la catena della successiva argomentazione: l’uomo produce un’opera che, in quanto suo prodotto, non va pensata come estranea alla stessa natura di cui l’essere umano fa parte. Così Brunetière, facendo leva sull’autorità della scienza eretta dal progressismo ottocentesco, equipara spensieratamente la specie umana a quella dei testi, sostenendo che entrambe sono le differenti membra di un tutto organico:

De même donc que toutes les parties d’un organisme vivant sont entre elles dans un rapport de corrélation ou de connexion nécessaire, ainsi, toutes les parties d’un œuvre, ou d’un homme, ou d’une époque, ou d’une civilisation, ou d’un peuple donné, forment ensemble un système lié, c’est-à-dire dont aucune partie ne saurait varier sans entraîner, dans sa variation même, une variation correspondante de tous les autres. (Ivi: 251)

L’analogia con l’organismo vivente, nel quale le singole componenti devono agire di comune accordo, non viene tanto da Darwin; basterebbe rivolgersi agli antichi precetti della retorica classica, medievale, rinascimentale o post-rinascimentale per intravedere dietro al velo di un baldanzoso scientismo il classismo retorico di un Agrippa e del suo apologo, quello di un’intera società concepita come l’insieme umano che agisce e si muove all’unisono, ma nella netta distinzione dei compiti e delle funzioni. Non si può però concludere che per Brunetière l’evoluzione dei generi obbedisca a una qualche teleologia generale, dacché egli ammette tanto fasi di sviluppo quanto di regressione. L’unico principio agente tra i generi letterari resta per costui il principio darwiniano della divergenza dei caratteri:



Sans doute, la différenciation des genres s’opère dans l’histoire comme celle des espèces dans la nature, progressivement, par transition de l’un au multiple, du simple au complexe, de l’homogène à l’hétérogène, grâce au principe qu’on appelle de la divergence des caractères […] à quels signes reconnaît-on la perfection ou la maturité du genre? […] En premier lieu, c’est l’Hérédité ou la Race, qui fait qu’un genre, comme l’épopée, toujours naturel, toujours prêt à renaître peut-être dans l’Inde, par exemple, sera toujours plus ou moins littéraire, et artificiel par conséquent chez nous. (Ivi: 20-21)

L’evoluzione descrive nella storia della specie un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo nella costituzione delle sue caratteristiche biologiche81. Il percorso imposto dalla natura non è privo di conflittualità tra le creature e i loro gruppi. La storia dei generi diverrà per Brunetière l’espressione di una medesima opposizione, finalizzata all’instaurazione di un predominio locale e temporale di un genere sull’altro. E Darwin avrebbe anche aggiunto che in virtù di determinati condizionamenti ambientali un genere riesce meglio di altri nel processo di adattamento. Essendo fin troppo chiara l’uguaglianza arbitraria su cui poggia la teoria di Brunetière, non è stato complicato denunciare un fraintendimento di fondo così come fa Schaeffer:



Il romanzo di spionaggio e il romanzo poliziesco sono sicuramente affini l’un l’altro, cosa che non impedisce loro di coesistere pacificamente da decenni […] che al posto degli individui umani, i soggetti di questa lotta darwiniana, di questa struggle of life, siano i generi, che i generi letterari non siano quindi collezioni di opere ma individui biologici, tutto questo si basa su una mera confusione di categorie. (Schaeffer 1992: 53)

Tuttavia, né in Goethe né in Brunetière si riesce a risalire all’ipotesi iniziale, assunta poi come verità, da cui il genere viene interpretato come una sostanza naturale82. Dalla sola analisi non si può infatti indovinare quale sia l’esigenza di convocare principi naturali per fornire una spiegazione che sia volutamente compiuta di fenomeni tali i generi letterari, vale a dire di contesto storico-culturale. Ridurre il tentativo di Brunetière a una soluzione che ha seguìto come un riflesso incondizionato il moderno progressismo filosofico e scientifico non giustifica in alcun modo l’esigenza di introdurre, per l’espressione teorica, un’analogia con le specie naturali. Per esempio, se sappiamo che «l’unità della specie viene garantita dall’identità del patrimonio genetico»83, dovrà aver germinato da qualche parte il presupposto di un pari patrimonio genetico che si trasmette da opera letteraria a opera letteraria nel tempo perché il paradigma naturalistico possa attecchire nella teoria dei generi.

I testi non esistono per loro causalità interne (non si riproducono certo autonomamente), ma esistono perché qualcuno mentalmente li assembla e materialmente li produce. Dunque, l’identità tra tradizione letteraria e patrimonio generico deve in qualche modo imporsi sopra e a dispetto di evidenti divergenze. L’ambiguità, pur verificatasi a livello del concetto, deve nascondersi da qualche parte nelle parole, e soprattutto in una parola. Si ricordi con Max Black che “l’ambiguità è un inevitabile derivato della suggestività della metafora”84.

Per attribuire al genere letterario le caratteristiche di una specie, la metafora fornisce quell’impatto retorico in grado di rendere significativo il passaggio di due concetti diversi a un’identità, offuscando al contempo ciò che irrimediabilmente li divide: la tradizione letteraria per quanto riguarda il rapporto dei generi col tempo storico e il patrimonio biologico per quanto riguarda l’evoluzione delle specie naturali. Se parliamo di ponte metaforico, andando ben oltre (come vedremo) la definizione di analogia usata da altri interpreti, è proprio per rispetto alla complessità di questa “confusione”, come la chiama Schaeffer. Abbiamo cioè sollecitato la ricerca di una caratteristica che sembri comune a entrambi, tramite la quale appare un’unificazione, un nuovo concetto federatore dei due di partenza (genere letterario e classe naturale): il cosiddetto “genere naturale” applicato alla letteratura. L’analisi di questo processo inoltre spiega meglio l’evento della creazione metaforica dei nomi di generi così come appuntata da Hirsch e anche come il rapporto tra singole opere e i generi possa essere trasformato in quello tra le diverse unità e la loro classe di appartenenza.


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