Cinzia rabusin



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2. Siena nel Trecento

2.1. Cenni storici


Con la disfatta del regime ghibellino nel 1270 e con il successivo instaurarsi di quello guelfo, il maggior problema da affrontare per il governo dei Trentasei fu il contenimento del potere delle famiglie nobili ostili all’autorità statale (Salimbeni e Tolomei principalmente), problema che si iniziò ad affrontare con le leggi antimagnatizie del 127732. I nobili furono così esclusi dalle cariche maggiori dello Stato e costretti in una determinata categoria politica e sociale. Anche se il loro potere fu ben limitato in città, in contado invece, esso continuò a svilupparsi. Il governo oligarchico dei Nove Governatori e Difensori del Comune e del Popolo di Siena, che dal 1287 detenne il potere cittadino, fu, in qualche modo, una conseguenza dell’emarginazione dei magnati dagli uffici pubblici. Esso risultava composto dalle famiglie dedite alla mercatura e alla finanza, le quali rimasero costantemente alla direzione della città sino alla rivolta del 1355. Il regime dei Nove, alla Repubblica di Siena, portò la stabilità politica, la prosperità economica, la massima fioritura dell’edilizia cittadina e una notevole espansione demografica (ca. 50.000 abitanti): molti storici hanno intravisto, in questo “periodo d’oro”, la nascita dello Stato territoriale senese33.

Dalla fine del Duecento, dopo le guerre antighibelline, iniziarono quelle contro gli Aldobrandeschi che si conclusero appena verso la metà del Trecento. Furono acquisite Montepulciano nel 1294, Montieri nel 1326 e Massa Marittima nel 1335. Tale espansione territoriale, nonostante fosse facilitata dall’alleanza con Firenze all’interno della Lega Guelfa, incise notevolmente sul bilancio comunale. Per il finanziamento del deficit si puntò sulle risorse messe a disposizione da mercanti e banchieri, i quali furono ripagati con la concessione di appalti e monopoli. La crisi economica, che interessò dai primi decenni del XIV secolo l’intera Europa, si accentuò in Toscana intorno al 1340 con la calata in più riprese degli eserciti mercenari che taglieggiarono le città, e con la Grande Peste del 1348. Tale situazione mise in evidenza le carenze politiche e sociali del regime novesco, consistenti nel disinteresse per l’agricoltura e per la gestione diretta di importanti fonti d’entrata del Comune, il quale preferì demandare queste ultime a esponenti dell’oligarchia o dei magnati. Nel 1355 la situazione esplose: le corporazioni artigiane maggiori assieme ad esponenti della nobiltà, approfittando dell’arrivo in città dell’imperatore Carlo IV, destituirono il governo con lo scopo di avviare una riforma istituzionale. In breve tempo, senza lasciarsi scappare il momento propizio, molte comunità soggette alla Repubblica si ribellarono al dominio senese (Montepulciano, Grosseto, Massa, Casole, Montalcino, … ). Il dominio politico senese fu ben presto ristabilito sul contado, ma la situazione interna alla città rimaneva alquanto precaria. Nonostante che il governo dei Dodici (1355-1369) e quello dei Riformatori (1369-1385), guidati entrambi dai ceti urbani professionali e dagli artigiani maggiori, avessero compiuto innumerevoli sforzi per sanare la situazione, non si raggiunse la stabilità politica e sociale. Uno stato endemico di sollevazione interna si mantenne sino alla conclusione del secolo. Organizzata per clan - capeggiati dai Tolomei, dai Saracini, dai Piccolomini e, principalmente, dai Salimbeni - la nobiltà continuò ad essere emarginata dagli uffici e lasciata invece libera di agire nel contado. Nel 1371 divampò una rivolta popolare che fu violentemente repressa e che portò ad una maggiore estensione dell’apparato di governo; dal 1385 al potere salì una coalizione composta da sostenitori dell’oligarchia novesca e da membri dei Dodici, dei Riformatori e dei Popolari. L’ultimo decennio del XIV secolo vide inoltre Siena costantemente impegnata, sul fronte esterno, ad arginare l’avanzata viscontea. Nonostante gli sforzi impiegati, la città cadde nel 1399 in mano a Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Siena rimase assoggettata al dominio visconteo sino al 1404, anno in cui i Senesi riuscirono a liberarsi da tale ingerenza straniera34.

2.2. Le magistrature
Fu nel periodo novesco che il Comune di Siena conseguì il suo sviluppo e la sua maturazione politica. Il Podestà avrebbe dovuto essere a capo di tutte le magistrature, ma in realtà il potere maggiore risiedeva nel Concistoro, ovvero l’organo istituzionale che rappresentava la signoria. Esso era composto dai Nove e dagli Ordini della città, ovvero dai tre Consoli dei Cavalieri - o Capitani di parte guelfa - dai quattro Consoli della Mercanzia e dai quattro Provveditori o Provvisori della Biccherna35.

I Nove, nel loro regime, assorbirono gradualmente le prerogative dell’ufficio del Podestà che, già dalla metà del XIII secolo, aveva iniziato a condividerle con il Capitano del Popolo.

Il Podestà convocava e presiedeva il Consiglio Generale - detto anche Consiglio della Campana - e qui presentava le proposte di legge. Egli esercitava un’ampia giurisdizione civile e penale assieme ai suoi giudici, conduceva la milizia civica alla guerra e rappresentava il Comune nelle relazioni con le altre potenze. Al fine di preservarlo dal coinvolgimento nelle fazioni politiche senesi e dall’abuso di potere, gli Statuti comunali del 1262 e del 1309-1310 trattarono esaurientemente delle sue prerogative e funzioni. Principalmente si imponeva al Podestà l’osservanza degli statuti e delle ordinanze; inoltre gli si richiedeva la presenza in città un mese prima dell’inizio del suo mandato, che era semestrale e partiva il primo di gennaio o di giugno.

La Biccherna tratteneva poi dal suo stipendio 500 lire, a titolo di cauzione, che gli sarebbe stata resa, soltanto a ufficio concluso, dopo aver superato positivamente la revisione del suo operato.

Egli non poteva essere riconfermato Podestà per i successivi 5 anni e nessun cittadino della sua città di provenienza poteva ricoprire la medesima magistratura nei 12 mesi seguenti alla fine del suo mandato.

Riguardo all’entourage che lo seguiva, esso era solitamente composto da cavalieri, giudici, notai, scudieri, siniscalchi e armati a piedi che servivano sia come sua guardia personale che come forza di polizia cittadina. Si prescriveva che tali collaboratori non dovessero essere ostili alla Repubblica, noti ghibellini, esiliati o condannati per ribellione, ma dovevano essere credenti nella Santa Chiesa36; essi venivano remunerati direttamente dal Podestà, attingendo al suo stesso salario.

Tutti gli Ordini, compresi i Quattro Provveditori della Biccherna, partecipavano alla selezione del Podestà che avveniva in Concistoro. Forte influenza sulla scelta aveva la città di provenienza del candidato, la quale doveva essere meno potente di Siena per evitare ingerenze esterne37. In situazioni particolari, come le spedizioni imperiali in Italia dei primi decenni del XIV secolo, la politica straniera e le alleanze militari giocavano un ruolo fondamentale nella selezione dei magistrati stranieri poiché questa prevedeva un rafforzamento d’intesa con le loro terre d’origine.

Solitamente il Podestà apparteneva a casate nobiliari, a volte minori, a volte capisaldi del guelfismo; spesso però rientrava in una categoria professionale vera e propria che vedeva, nel servire l’ufficio pubblico di diverse città, la possibilità di far carriera e di migliorare così lo status sociale.

Oltre a convocare il Consiglio Generale38 e a presentare proposte di legge non da lui formulate, il Podestà, durante i processi giudiziari, non emetteva sentenze, ma soltanto proclamava il giudizio dei giudici che componevano la corte. Dal 1310 circa egli perse progressivamente la maggior parte delle sue funzioni chiave, le quali furono condivise o demandate ad altre magistrature; il suo agire per il Comune avvenne sempre più in senso simbolico. Dal 1320 invece egli dovette condividere il comando delle truppe non soltanto con il Capitano del Popolo, ma anche con altre figure istituzionali39.
L’ufficio del Capitano del Popolo fu creato nel 1252, durante gli anni del regime ghibellino, in cui il Popolo riuscì ad avere forte ascendenza sul Comune, grazie non tanto al suo potere economico (popolo grasso) quanto alla sua reale consistenza numerica e alla sua organizzazione impeccabile.

Fu però durante il dominio dei Ventiquattro (1236-1271) che il Capitano in questione divenne un ufficiale pagato dalla Biccherna, equiparabile in importanza al Podestà. Lo Statuto del 1262 trattò esaurientemente delle modalità della sua elezione e delle sue funzioni, obblighi e remunerazione. Egli stava a capo del Popolo e del suo Consiglio, composto da 50 uomini per Terzo.

La caduta del ghibellinismo in Toscana, segnata dalla battaglia di Colle di Valdelsa del 1269, portò profonde trasformazioni nella società e nella direzione dello Stato senese che ebbero riflessi anche sul Popolo e il suo Capitano. Il cambiamento sostanziale avvenne nel 1271, con l’ascesa al potere dei Trentasei, una coalizione composta da nobili del partito guelfo e dalle più importanti famiglie della finanza, del commercio e dell’industria (popolo grasso). Intorno a questi anni, il Popolo, il suo Capitano e il suo Consiglio caddero in desuetudine e vi rimasero sino all’avvento dei Nove nel 1287. Alla ripristinata magistratura fu assegnata la nuova intitolazione di “Capitano del Comune e del Popolo della Città di Siena”, il quale, quest’ultimo, aveva il compito principale di difendere l’onore e l’ufficio del Podestà. La durata del suo mandato fu fissata a sei mesi, con inizio al primo di novembre o di maggio; egli avrebbe dimorato non nel Palazzo Comunale, ma in un edificio, preso in affitto dal Comune, nei pressi del Campo. Fu però lo Statuto del Capitano del Popolo del 1290 a definire la nuova natura di tale carica. Esso ne fissò lo stipendio, pagato dalla Biccherna ( molto inferiore rispetto a quello del Podestà) e la designazione, voluta ora dai Nove e non più dal Consiglio del Popolo. Il Capitano era ancora a capo del Consiglio del Popolo, ma i 50 uomini per Terzo che lo componevano venivano scelti dalla signoria, la quale ora selezionava pure i membri del Consiglio Generale. Egli non ebbe più il potere di convocare Consigli (nemmeno il suo) né di assegnare vessilli e stendardi alle compagnie armate, senza la presenza del Podestà o il permesso scritto dalla signoria. Il Popolo quindi, rispetto al periodo dei Ventiquattro, possedeva un potere politico decisamente inferiore. Al Capitano del Popolo rimasero comunque delle funzioni presenti dalla creazione dell’ufficio; egli mantenne ancora la giurisdizione su crimini particolari e poteva essere presente ai casi d’appello di competenza podestarile. La sola autorità che egli riuscì a conservare pienamente fu la difesa degli oppressi dal potere, in particolare da quello dei magnati.

Poiché dal 1310, il Capitano del Popolo acquisì una speciale giurisdizione riguardo l’organizzazione sulle milizie civiche (basate sulle compagnie in cui era suddiviso il popolo della città) e sui vicariati (i maggiori distretti militari del contado), nel 1314 la sua intitolazione mutò ancora in “Capitano del Comune e del Popolo, difensore delle Compagnie e dei vicariati della città di Siena”. Egli disponeva di spie all’interno e all’esterno della città, le quali lo tenevano informato su coloro che potevano essere implicati in cospirazioni e tradimenti, e decideva chi di questi fosse necessario mandare al confino. Ma già in base allo Statuto senese del 1336-1337, il capitanato del Popolo dovette cedere la maggior parte di tali prerogative al Capitano della Guerra. L’autorità del Capitano del Popolo, un tempo alternativa a quella del Podestà, soffrì comunque, per tutta la seconda metà del XIV secolo, di una forte riduzione, a favore delle altre magistrature cittadine. Punti in comune con l’ufficio podestarile rimasero, per tutto il regime novesco, la provenienza straniera e l’ascendenza nobile del Capitano del Popolo 40.


Come Daniel P.Waley ha evidenziato nel suo lavoro “Condotte and Condottieri in the Thirteenth Century”, per il Capitano della Guerra - a differenza dei magistrati trattati in precedenza - non si ha la certezza che fosse un ufficio operante, in maniera continuativa, in molte città-stato; si tratta, sempre secondo il Waley, di un’istituzione veramente poco analizzata dagli storici41.

Se anche a Siena ebbe i suoi inizi occasionalmente, il capitanato di guerra divenne, in breve tempo, una magistratura permanente e di importanza rilevante (1323)42. Essa nacque come un’estensione del comando militare, data a comandanti competenti, allo scopo di condurre le truppe mercenarie senesi durante conflitti, che presupponevano periodi di manovra protratti nel tempo. La documentazione presente nella Biccherna del 1298, mostra il Capitano della Guerra a capo dei suoi 25 uomini a cavallo: egli appare quindi un conestabile, ingaggiato come tanti altri dal Comune, a cui veniva data una priorità di comando sui mercenari. Egli veniva scelto dai Nove e, per tale incarico, percepiva una modesta maggiorazione dello stipendio. Sino al 1323, l’ufficio probabilmente, quando non era ricoperto da Capitani di Guerra appositamente ingaggiati, veniva demandato ai magistrati forestieri presenti nel Comune (il Podestà o il Capitano del Popolo). Dal 1323 invece - come già accennato - esso divenne permanente e semestrale, ma, a differenza degli altri uffici maggiori, poteva essere ricoperto dallo stesso Capitano per più mandati. Tale continuità permise a quest’ultimo di sviluppare una certa familiarità con le svariate problematiche locali e di essere notevolmente richiesto nelle assemblee comunali. In breve tempo, egli acquistò sempre maggiore autorità riguardo la sicurezza della città e della sua signoria, nei confronti sia dei nemici esterni che interni, e potere d’intervento riguardo campi d’azione precedentemente riservati al Podestà e al Capitano del Popolo ( ricevere autorità, presenziare e dare sentenze, …). Anche le sue funzioni come condottiere militare mutarono, in parte, dal 1323; egli da allora condusse non soltanto le truppe mercenarie, ma anche le milizie civiche senesi, e - a discrezione della signoria - condivise il comando con il Podestà e il Capitano del Popolo (dal 1334 poi condivise con loro anche parte della sua giurisdizione sulla sicurezza in generale).

Lo Statuto senese del 1337-1339 definì nel dettaglio compiti, funzioni e ambiti di intervento spettanti al capitanato della guerra, qui denominato “Capitano Generale della città e del contado di Siena”. Il suo ufficio fu dichiarato perpetuo e la sua elezione affidata a un consiglio composto dai Nove, dagli altri Ordini e da un minimo di 20 buoni uomini per Terzo, di cui almeno 30 paciarii cioè pacificatori. Lo stipendio del Capitano fu fissato a 10.000 lire per un mandato semestrale che poteva iniziare il primo di gennaio o di luglio. Fu stabilita inoltre la composizione della sua famiglia: 50 armati a cavallo, 100 fanti, 3 trombettieri, 1 tamburino, 2 notai e 1 giudice. Il Comune poi, come per gli altri magistrati stranieri, si incaricava di provvedere all’alloggio del Capitano, che solitamente risiedeva al Palazzo Squarcialupi. Le sentenze e le pene da lui emesse, in materia di sicurezza, non davano possibilità né di appello né di trattativa.; egli aveva inoltre l’autorità di confinare i nemici della pace, decidendo, per essi, i limiti territoriali e temporali dell’esilio. Le compagnie cittadine, sempre secondo il medesimo statuto, dovevano fornirgli i nominativi dei 200 uomini per Terzo eleggibili per il servizio di ronda notturna della città. In tempo di guerra invece, egli avrebbe condotto solamente le truppe mercenarie a cavallo e a piedi.

La crescente autorità del Capitano della Guerra, nel periodo successivo a quello trattato sinora, è invece dimostrata dalla delibera del Consiglio della Campana del 14 dicembre 1341: sovrapponendosi alla precedente giurisdizione del Capitano del Popolo in tale materia, egli divenne il maggiore ufficiale pacificatore in città e nel contado riguardo invasioni, ribellioni e conflitti di fazione.

Il potere del Capitanato continuò ancora ad accrescere il suo potere e la sua autorità negli anni che seguirono la Peste Nera, probabilmente in relazione al generale sovvertimento sociale creato da tale calamità43.

Il Maggior Sindaco fu essenzialmente il “custode” degli statuti e suo compito era controllare che gli organi istituzionali operassero in modo da non contraddire tale legislazione; egli quindi presenziava ai Consigli Generali e a tutte le riunioni ufficiali di governo. Questa magistratura sembra essere stata creata nel decennio successivo alla caduta del regime ghibellino del 1271, poiché essa appare già in uno statuto del 1277; l’ufficio però si sviluppò maggiormente nei primi anni dell’oligarchia dei Nove. Il Maggior Sindaco veniva scelto da questi ultimi, era solitamente straniero, esperto in materia di legge e più che trentenne. Il suo mandato nel 1293 circa fu ridotto da 12 mesi a 6 e il suo stipendio, fissato dalla signoria, andava a remunerare pure il suo seguito formato, in genere, da alcuni notai e addetti alla sicurezza (“birri”). Come gli altri maggiori ufficiali del Comune, egli non poteva ricoprire nuovamente la carica alla fine del suo ufficio.

Dal 1295 le competenze del Maggior Sindaco iniziarono a includere l’annuale supervisione e revisione degli statuti cittadini e comitatini di corporazione, allo scopo di renderli compatibili con la legislazione comunale. Inoltre dal 1319 egli ricevette la giurisdizione su strade, ponti e fontane della città a del contado, e dal 1337 dovette anche supervisionare coloro che si occupavano ufficialmente dell’igiene e dell’edilizia pubblica (associazioni, commissioni, privati, …) e inasprire i provvedimenti riguardanti la prostituzione e la buffoneria. Egli certamente doveva godere di una forte autorità poiché lo Statuto del 1336-1337 negava il diritto d’appello alle sentenze da lui pronunciate.

Il Comune poi gli richiedeva, come a tutti i suoi magistrati, di essere un esempio di integrità, di competenza e di discrezione, e di provenire da città e fazioni politiche favorevoli al governo senese. Il regime dei Nove manifestò una certa preferenza nella scelta di candidati provenienti dalla Toscana: ciò probabilmente avveniva poiché le istituzioni, la legislazione e l’amministrazione comunale senesi erano molto simili a quelli dei loro luoghi d’origine44.

2.3. I Dodici
Verso la fine del 1354, con la discesa in Italia dell’imperatore Carlo IV, i Nove iniziarono a temere seriamente per la loro posizione. Carlo entrò a Siena il 23 marzo 1355 e fu alloggiato presso uno dei tanti palazzi in possesso dei Salimbeni. Poco dopo il suo arrivo scoppiò un tumulto, fomentato dalle maggiori casate nobiliari della città, sostenute ben presto da una folla di popolani. La catene, che tagliavano le vie trasversalmente, furono spezzate per dar modo ai nobili e alla cavalleria imperiale di caricare; il saccheggio era già iniziato. Rinchiusi nel Palazzo Comunale, i Nove nemmeno tentarono di reprimere la sommossa, probabilmente in attesa di comprendere le intenzioni dell’Imperatore. Egli il 25 marzo si presentò ai Nove, che stavano già subendo l’assedio della folla, li destituì e si mise provvisoriamente a capo del governo comunale. Il palazzo dei Consoli dei Mercanti, i magazzini pubblici del sale, l’archivio del governo, l’ufficio della Biccherna, i palazzi del Podestà e del Capitano della Guerra, in quanto simboli del potere sconfitto, furono depredati e distrutti. Gli ufficiali maggiori furono cacciati dalla città assieme ai familiari dei Nove. L’ Imperatore poi, rivolgendosi ai Senesi che affollavano il Campo, chiese la nomina, per acclamazione, di una commissione di 30 cittadini (12 nobili e 18 popolani), incaricati di creare il nuovo governo. Il 31 marzo, il nuovo Ufficio supremo di Dodici Signori e il Collegio governativo di Dodici Nobili, erano pronti a prendere il comando della città. Nel frattempo, l’Imperatore era già ripartito alla volta di Roma per ottenere l’incoronazione; sua intenzione era di rifare tappa a Siena durante il viaggio di ritorno. Nella città, egli lasciò l’arcivescovo di Praga, suo vicario, e - secondo il Villani - un Consiglio composto da importanti ghibellini toscani provenienti dal contado senese, da Cortona, da Arezzo e da Lucca45. Il 19 aprile, Carlo IV ritornò a Siena e trovò la riforma legislativa conclusa; tre giorni dopo il Consiglio Generale la approvò, dando così ufficialmente alla città un nuovo governo. L’Imperatore se ne andò definitivamente l’8 maggio, il suo vicario il 26 dello stesso mese (secondo il Villani in seguito a una sommossa popolare dovuta ai diversi interessi, riguardo la nuova gestione del potere, delle parti in causa: popolo minuto, popolo grasso, casate nobiliari, Arti)46.
In seguito agli avvenimenti del 23-25 marzo 1355 furono promulgate delle riforme che possono essere distinte in due periodi: quelle precedenti la partenza del vicario imperiale, che videro il potere equamente diviso tra nobili e rappresentanti del Popolo, e quelle seguenti alla sua partenza, nelle quali vennero tolte ai nobili le prerogative, considerate eccessive, concesse loro nel momento successivo alla sommossa.

Il 31 marzo, colui che probabilmente diresse i lavori della commissione legislativa, Pietro di Salomone dei Piccolomini, presentò il progetto di un governo ripartito ugualmente fra popolani e nobili. Una lista - compilata dal Consiglio dei Riformatori - rendeva noti i candidati che tra i popolani, per estrazione, potevano andare a formare i componenti dell’ufficio bimestrale dei Dodici Governatori e Amministratori. La commissione avrebbe compilato poi, sempre allo stesso modo, una lista di nobili dalla quale sarebbe stato formato il Collegio di Dodici Nobili. I Governatori erano sempre tenuti a discutere le loro proposte in presenza di tale Collegio: questi due organi riuniti, eleggevano i Quattro Esecutori di Gabella e i Quattro Provveditori di Biccherna, i quali, entrambi, dovevano essere per metà nobili e per metà popolani. Fu probabilmente per opporsi alla tendenza dei Nove ad attribuire così tanta importanza alla finanza del Comune, che i Provveditori di Biccherna furono esclusi dal consiglio governativo; i Consoli della Mercanzia invece vennero soppressi47. Il 17 aprile si determinò il sistema di elezione e la composizione del Consiglio Generale: 400 cittadini (250 popolani e 150 nobili) vennero eletti, per la prima volta, dai Riformatori e successivamente dai Governatori e dal Collegio ogni sei mesi (in realtà per raggiungere il quorum era sufficiente la presenza di 150 consiglieri). In tal momento, nobili e popolani lavoravano ancora in accordo e armonia. Raggiunta la stabilità politica, dopo l’emergenza dettata dalla rivoluzione, si risentì preponderante il bisogno di ridurre il potere della nobiltà e di ritornare alla legislazione antimagnatizia del 1277. Il periodo successivo alla partenza da Siena del vicario imperiale vide la soppressione del Collegio e la sua sostituzione con la commissione dei Tre Difensori Nobili. Nessuno statuto vietava però alla nobiltà di rientrare in delegazioni speciali o in ambascerie; al Consiglio Generale i nobili furono sicuramente ammessi in numero variabile, in relazione alle disposizioni dei Dodici.



Novità, rispetto al regime dei Nove, risultarono essere le modalità di elezione dei Provveditori di Biccherna e degli Esecutori di Gabella; essi infatti non vennero più scelti dalla signoria, ma furono eletti dal Consiglio Generale. E’ da evidenziare la possibilità che venne data ai magnati di servire in queste magistrature, fondamentali per lo Stato e seconde, in ordine d’importanza, soltanto alla signoria vera e propria. Inoltre i Podestà e i Capitani, inviati dal Comune nei luoghi strategici del contado, furono selezionati soltanto fra i nobili: iniziativa che risultò alquanto contraddittoria dopo i notevoli e continuati sforzi fatti dal precedente governo per liberare il territorio senese dalla loro supremazia. I Tre Difensori e gli Esecutori andarono poi a sostituire nei precedenti Ordini della città i Consoli dei Cavalieri e i Consoli dei Mercanti: dal precedente governo dei Nove soltanto i Provveditori continuarono ad esercitare il loro ufficio ininterrottamente. Risulta quindi accertato che i magnati furono, negli uffici del nuovo governo, molto più numerosi di quanto non lo fossero stati in precedenza. La documentazione ufficiale riguardo elezioni e consigli segreti in Concistoro riporta la presenza costante, nella pratica decisionale, delle maggiori casate (Tolomei e Salimbeni principalmente)48.
Per quanto riguarda il Capitano del Popolo, il provvedimento del 9 giugno 1355 stabilì che fosse eletto dalla signoria e che i capitani, i gonfalonieri e i soci delle compagnie fossero ai suoi ordini. Egli radunava loro ogni tre mesi per presentare nuove proposte, le quali , se accettate, venivano sottoposte all’approvazione del Consiglio Generale. Tale magistrato inoltre aveva il compito di perseguire e punire i perturbatori dell'ordine pubblico, ribelli e congiurati compresi. Rispetto al periodo dei Nove, non si verificarono trasformazioni importanti in questo ufficio, tranne per il fatto che ora, secondo sempre lo stesso provvedimento, si richiese la cittadinanza senese a quanti venivano chiamati a ricoprirlo. Al tradizionale titolo venne poi aggiunto quello di Gonfaloniere di Giustizia; le sanzioni, che colpivano coloro i quali avevano osato attentare alla sua persona, furono notevolmente inasprite con la richiesta della morte e della confisca dei beni dei colpevoli. Il Capitano aveva anche la possibilità di convocare il Consiglio delle Compagnie, che si adunava in assemblea deliberativa nella Sala Grande del Palazzo Pubblico; l’approvazione da parte del Consiglio Generale di tali proposte di legge era una pura formalità. Lo Statuto del Capitano del 7 agosto 1355, prevedeva che venisse eletto dal Consiglio Generale sulla base di una lista di candidati preparata in precedenza da una specifica commissione. Presente regolarmente con potere deliberativo a tutte le riunioni dei Signori, egli poteva così dirigerli e controllarli e poiché il suo era un incarico semestrale, a fronte di una durata bimestrale di quello dei Dodici, egli rappresentava anche la continuità del governo. In conseguenza all’accrescere del potere del suo Capitano, il Consiglio del Popolo vide - dopo il 1355 - aumentare la sua importanza costituzionale. Il suo titolo mutò in Gran Consiglio delle Società e dei Rettori delle Arti della città di Siena e tale ufficio ebbe, da allora, la possibilità di prendere provvedimenti riguardo la sicurezza dello Stato e di promuovere importanti riforme ( riordinamento della “Libra” cioè della principale imposta sui beni , ripristino del Podestà dopo 8 mesi di assenza di tale ufficio, …)49.
Alla rivoluzione del marzo 1355, seguì, nei mesi successivi, una riforma dettata principalmente dai provvedimenti dell’1, del 9 e del 29 dicembre 1355 e del 17 novembre 1356. L’organizzazione delle Arti venne profondamente modificata; i Consoli furono sostituiti da una magistratura collettiva - i Dodici Priori delle Arti - nella quale tutte le Arti vennero rappresentate in maniera paritaria e nella quale si mantenne il sistema direttivo delle corporazioni basato sui Rettori e i Consiglieri. Ogni sei mesi Rettori, Consiglieri e camerlenghi eleggevano il Priore della loro Arte, ma, dal novembre 1356, l’ufficio di quest’ultimo fu ridotto a due mesi e la sua elezione passò ai Signori, al Capitano del Popolo e all’assemblea dell’Arte composta dal Priore uscente, dai Rettori, dai Consiglieri, e da almeno un quinto di capomastri, “piazzesi” o altre persone appartenenti a quell’Arte detti “suppositi”.

Inoltre il provvedimento del 17 novembre 1356 soppresse quello che nello Statuto dei Nove, escludeva cavalieri, medici, notai, giudici, etc., dagli uffici governativi maggiori, poiché considerato contrario all’unione dei cittadini. I Priori godevano di molta autorità; eleggevano il Consiglio Generale assieme ai signori, al Capitano del Popolo e agli Ordini della città. Chiunque fosse stato da essi escluso dall'Arte, non poteva più ricoprire uffici pubblici. Anche se non invitati, i Priori avevano la possibilità di intervenire ad ogni assemblea e consiglio convocato dalla signoria; essi partecipavano poi alla formulazione delle liste degli eleggibili all’ufficio dei Dodici Governatori e Difensori del Comune e del Popolo50.


Al Capitano della guerra, sempre in tal momento, venne mutato il titolo in Conservatore della Città. Il suo seguito venne ridotto, ma, le sue funzioni rimasero fondamentalmente quelle del precedente periodo novesco. Dal luglio 1360 furono cambiate le modalità della sua elezione, la quale, da allora, avveniva grazie alla votazione di una commissione composta dai Signori in carica e da quelli usciti dalla carica detti i Simili o i Somiglianti; i Savi, scelti fra tutto il Popolo vennero perciò sostituiti da questi ultimi. I Dodici preferirono, se soddisfatti, riconfermare, anche più volte consecutivamente, l’ufficio allo stesso Conservatore (ciò invece non fu mai permesso al Podestà, allo scopo di tenere tale carica imparziale ed estranea alle fazioni interne); probabilmente, si preferiva che egli, in quanto incaricato della polizia politica, avesse più esperienza possibile nel suo ufficio51.
Il governo dei Dodici si poteva sicuramente ritenere un potere oligarchico; nonostante i tentativi di arginare la loro supremazia, furono deliberate disposizioni dirette invece a stabilizzarne il potere. Esse avevano lo scopo di riservare gli uffici maggiori soltanto ai membri dell’oligarchia e di rendere quest’ultima compatta politicamente. Nell’aprile 1357 si creò perciò il Consiglio dei Somiglianti, un’assemblea deliberativa composta dai circa 100 Signori già usciti dalla carica; poiché essi erano circa 170 nel 1362, si può dedurre facilmente che furono più volte rieletti. Tale Consiglio avrebbe dovuto riunirsi una volta ogni due mesi, ma sembra che lo facesse invece molto più spesso, sino a rendere il Consiglio Generale e quello del Popolo solamente organi atti alla ratifica delle sue decisioni. I Simili riuscirono a riservare a loro stessi le cariche maggiori (ad esempio quella del Capitano del Popolo), ad estendere le loro immunità, ad aggirare i provvedimenti riguardo la supervisione del loro operato a mandato concluso e ad accrescere la loro guardia personale. Essi crearono inoltre l’ufficio dei Provveditori del pacifico Stato, a cui diedero l’incarico di rendere la cittadinanza favorevole ai Dodici e di sedare le conflittualità interne ai Somiglianti.

Dal 24 gennaio 1361 il Capitano del Popolo fu autorizzato ad indagare, se necessario, sulla fedeltà dei Dodici e dei Somiglianti allo Stato52.


La rivoluzione del 1355 riportò, alle comunità del contado senese, la speranza di potersi rendere completamente indipendenti. Montalcino e Grosseto si ribellarono, appoggiate dai Senesi avversi al regime entrante (nobili ribelli, banditi e noveschi principalmente). Colpire il contado significava colpire la città nel suo motore, poiché essa viveva dei suoi prodotti e della tassazione impostagli. Il contado poi, oltre ai danni causati dai ribelli, dovette subire pure la devastazione operata dalle incursioni delle grandi compagnie di ventura che dal 1355 colpirono senza tregua ( Compagnia Bianca, Compagnia di San Giorgio, Compagnia della Stella, Compagnia del Cappello, …). I Dodici si trovarono poi a sedare anche le lotte accesasi tra famiglie nemiche, quali i Salimbeni e i Tolomei, che, tra il 1355 e il 1368, dettero vita ad accaniti scontri in città. L’equilibrio politico di quest’ultima poteva pure esser messo in pericolo dalle divisioni interne ad una singola casata, come avvenne per i numerosi rami dei Salimbeni. A tal proposito si ricordi l’importanza di Giovanni d’Agnolino Salimbeni, il quale ebbe un’influenza fondamentale nella rivoluzione del 1355 e nei fatti successivi. Egli seppe intromettersi fra il Comune senese e quelli ribelli, senza che gli venisse conferito alcun particolare potere, ma sfruttando solamente la sua autorità personale. Nel 1363, entrato, assieme a tutta la famiglia, in conflitto con il Comune, riuscì a diventare signore di Montepulciano53.
Sommosse e mutamenti politici si susseguirono a cavallo del 1368-1369; già però dall’aprile 1367, un supposto viaggio in Italia dell’imperatore Carlo IV mandò in crisi i Dodici. Essi temevano che i nobili ghibellini - e, in particolar modo, Giovanni Salimbeni - chiedessero un nuovo governo a Carlo; nessuno all’infuori dei Somiglianti si sarebbe opposto a tale cambiamento. La stessa oligarchia dei Dodici presentava una divisione interna tra coloro che seguivano i Salimbeni (i Grasselli) e coloro che invece appoggiavano i Tolomei (i Canischi). Va riferita a ciò la congiura diretta da Mejo di Rinaldo Tolomei, appartenente ai Somiglianti, dell’aprile 1368, a cui sicuramente parteciparono i Canischi. Nel settembre dello stesso anno, in concomitanza della seconda discesa dell’Imperatore nella penisola, una coalizione di tutti i nobili spodestò i Dodici e riformò il Comune; i Salimbeni, per accattivarsi il popolo, ne presero le parti e, in quanto ben voluti da Carlo IV, ebbero dalla loro, l’intervento di quest’ultimo. Il 23 settembre il “governo dei nobili” fu rovesciato da una coalizione formata dal Popolo, dai Salimbeni e dal Malatesta - luogotenente dell’Imperatore – e lasciò al Popolo pesanti obblighi nei confronti dei Salimbeni. A tale rivoluzione, seguì l’esilio in massa dei nobili che significò, per Siena, un danno economico e politico non indifferente. La città, incapace di sostenere alcun conflitto senza l’appoggio della nobiltà, dovette all’occorrenza richiamare i ribelli ed elargire loro rilevanti concessioni54.

2.4. Il fisco


L’amministrazione delle finanze del Comune di Siena, fin dal XIII secolo, fu diretta dalla Biccherna, e dall’Ufficio della Gabella55.

La Biccherna (dal bizantino blacherne cioè il quartiere di Costantinopoli dove avevano sede la maggior parte degli uffici pubblici della città) era retta dai Quattro Provveditori, i quali rimanevano in carica sei mesi, partendo dal primo gennaio o dal primo luglio. Durante il governo dei Ventiquattro (1236-1271), essi venivano scelti dal Consiglio Generale, ma, con il regime dei Nove, si introdusse un più stretto controllo su tale organo istituzionale, preferendo incaricare della selezione l'élite dominante e i quattro Consoli dell’Arte della Mercanzia. I Provveditori, i Consoli e i Nove, assieme ai tre Consoli dei Cavalieri o Capitani di parte guelfa, costituivano gli Ordini del Comune e ne formavano il Concistoro. L’accesso all’ufficio dei Provveditori era diviso equamente fra i tre Terzi in cui era spartita amministrativamente la città (San Martino, Terzo di Città e Camollia). Ogni Terzo dava un Provveditore, mentre il quarto di tali ufficiali, veniva ricoperto a rotazione. I familiari dei Nove in carica, dei Consoli della Mercanzia e del notaio dei Signori subivano, come per molte delle maggiori magistrature senesi, l’interdizione temporanea, la quale impediva a più di un membro della stessa famiglia, di ricoprire la carica di Provveditore nello stesso semestre. Inoltre coloro che avevano già ricoperto tale carica, non potevano più farlo nei successivi 18 mesi. Solitamente l’età minima per accedere alle cariche pubbliche era di 20 anni, ma, dal 1306, i Provveditori dovevano averne almeno 30 (all’occorrenza però questa disposizione veniva ignorata). Spesso essi garantivano, a proprio nome, il Comune nei confronti dei suoi creditori. A differenza delle altre cariche, non si possiedono i requisiti minimi di ricchezza richiesti ai candidati per concorrere a tale ufficio: sicuramente dovevano provenire dalle famiglie più benestanti della città. Solitamente tra i Quattro Provveditori almeno un membro apparteneva ai magnati – esclusi dalla massima magistratura - e un altro ai Nove. All’indomani della loro elezione, i Provveditori erano tenuti a scegliersi il camerlengo, vale a dire il tesoriere responsabile della custodia del denaro entrante e dei pagamenti a lui disposti. Il Costituto del 1309-1310 richiedeva che egli fosse un religioso, poiché, si sperava fosse meno soggetto alle tentazioni del denaro, e che non avesse relazioni strette con le famiglie senesi, i cui membri ricoprivano le alte cariche in Biccherna, allo scopo di poter esercitare su di loro un maggior controllo; per molto tempo infatti tali funzioni vennero esercitate da un monaco di San Galgano. Nel suo incarico, il camerlengo era assistito da un notaio personale; il suo stipendio si aggirava, di solito, intorno alle 50 lire. Altri funzionari minori erano impiegati in Biccherna: i custodes, che avevano l’obbligo di vigilare sugli uffici di giorno e di notte, i nunzi e i notai. Questi ultimi rilasciavano pure copie ufficiali degli atti dei funzionari di Biccherna a chi ne richiedeva, rammentavano ai Provveditori e al camerlengo gli obblighi statutari e avevano l’obbligo di richiedere inchieste, in caso di scorrettezze e omissioni d’ufficio.

I Quattro Provveditori avevano il controllo pressoché assoluto su tutto il denaro trattato dal Comune. Entrate ed uscite avvenivano solo in presenza di almeno due di questi e venivano riportate in registri appositi: due in carta, destinati all’annotazione in volgare, e due in pergamena, assegnati alla trascrizione ufficiale in latino e utilizzati dal Consiglio Generale per il controllo dei conti pubblici56.

Occupandosi dell’amministrazione delle entrate e delle uscite, la Biccherna interveniva in molteplici aspetti della vita comunale, quali la difesa e la sicurezza dello Stato (ad esempio essa pagava gli addetti alle catene fissate in città per impedire le cariche di cavalleria, custodiva le armi sequestrate, teneva l’elenco dell’equipaggiamento assegnato alle fortezze comunali, versava gli stipendi delle truppe mercenarie, …), la riscossione delle multe e delle decime giudiziarie, la registrazione delle comunità del contado, dei banditi e dei condannati (tali annotazioni avvenivano su di un volume particolare detto Libro delle Chiavi probabilmente dal fatto che i prigionieri non potevano essere rilasciati senza il consenso della Biccherna che ne notificava pure le somme da loro pagate per la scarcerazione), l’amministrazione e il controllo del contado, la supervisione dei registri dei funzionari comunali, … 57.

Questa apparente onnipotenza della Biccherna nelle questioni finanziarie era illusoria; il potere reale era in mano ai Nove, i quali potevano disporre delle casse comunali senza la ratifica del Consiglio Generale, e stabilire i metodi per l’acquisizione di denaro. Nessuna somma poteva invece essere spesa se non con la loro approvazione.

Il ruolo egemone della Biccherna nella finanza fu minacciato, alla fine del XIII secolo, dall’ascesa dell’ufficio della Gabella Generale. Compito principale di tale magistratura fu l’amministrazione delle entrate che provenivano dalle gabelle cioè da ogni forma di tassazione non basata sulla Lira o sull’estimo. Essa probabilmente si diramò dalla Biccherna, nel corso del XIII secolo, come sezione specializzata della gestione delle gabelle. Alla sua direzione vi erano tre Esecutori, uno per Terzo, scelti dai Nove e dagli altri Ordini; tali funzionari avevano carica semestrale a partire dall’inizio di gennaio o di luglio. I candidati, per essere eleggibili, dovevano possedere una rendita di almeno 3.000 lire e non dovevano aver già ricoperto il medesimo ufficio nei precedenti due anni. La remunerazione simbolica che percepivano (15 lire), rendeva tale mansione onoraria. Gli Esecutori di Gabella quindi spesso provenivano dal gruppo sociale che forniva pure i Provveditori di Biccherna. A questa magistratura collaboravano pure un camerlengo, alcuni notai e alcuni custodes; il tesoriere controllava, anche qui, le entrate e le uscite della Gabella. I Nove e gli Esecutori nominavano un Giudice Esattore di Gabella, forestiero e fornito da una famiglia composta da notai, stranieri anch’essi, e da “birri”; egli multava e bandiva coloro che contravvenivano le disposizioni della Gabella Generale58.
Il reperimento delle entrate, necessarie per sopperire alle crescenti esigenze di bilancio, fu tra i problemi maggiori con cui il Comune di Siena si trovò a lottare dal tardo XIII secolo. Innanzitutto esso doveva provvedere agli stipendi dei suoi funzionari un numero in costante crescita con l’articolarsi e lo specializzarsi dei campi d’intervento dell’organismo comunale. Le remunerazioni poi ebbero un notevole aumento negli ultimi anni del regime dei Nove, in relazione alla carenza di personale esperto, ridotto drasticamente dall’epidemia di peste del 1348.

Grande impegno economico fu, per Siena, pure lo sviluppo e il mantenimento del suo sistema di approvvigionamento idrico penalizzato dalla mancanza di un corso d’acqua importante.

Il periodo novesco vide poi una considerevole crescita dell’edilizia pubblica; durante l’ultimo decennio del XIII secolo partì la costruzione del Palazzo Comunale e il Consiglio Generale impegnò, a tal fine, cospicue somme per l’acquisto di edifici e terreni nell’area del Campo. Il governo dei Nove contribuì anche alla pavimentazione e alla ristrutturazione del sistema viario cittadino e del contado, e ad opere di bonifica e di irrigazione. Notevoli spese si ebbero inoltre in conseguenza all’acquisto di nuove terre per ampliare lo Stato; l’area a sud-ovest della città - nel territorio verso Massa Marittima e Grosseto - e quella costiera della Maremma, ricche di sale e minerali, erano gli ambiti preferiti per l’espansione e gli investimenti senesi. In tale progetto si inserì pure la creazione di nuovi consistenti insediamenti, in cui si incoraggiò il trasferimento concedendo esenzioni, immunità e appezzamenti fabbricabili e coltivabili (v. Castelfranco di Paganico e Talamone).

Un ulteriore e costante drenaggio dalle entrate comunali è rappresentato dalla distribuzione di elemosine agli ordini religiosi e alle istituzioni di carità cui la Biccherna veniva obbligata dagli statuti ad elargirli. Dalla fine del XIII secolo, carestie ed epidemie incisero sul bilancio comunale, poiché si investirono grosse somme in grano da distribuire gratuitamente o a sottocosto ai bisognosi. L’approvvigionamento della città risultò sempre una necessità immediata; il costante problema della scarsità di grano fu affrontato amministrando attentamente le risorse a disposizione e ammassandole in depositi, oppure importandolo. Il Comune cercò inoltre di controllare la distribuzione del grano prodotto nel contado, affinché fosse disponibile per le masse cittadine, ma spesso la necessità di acquistarlo dal mercato obbligava il governo ad impegnarsi in prestiti volontari o forzosi con notevole ricarico di interesse.

Fu però il peso delle spese militari a colpire drasticamente le finanze di Siena. Ciò includeva il mantenimento e il restauro delle fortificazioni, il costo di armi, cavalli, cibo, la corresponsione di stipendi, … . A tal proposito, particolarmente gravoso risultava l’ingaggio delle compagnie mercenarie o il riscatto che queste richiedevano affinché lasciassero il territorio senese. L’incursione della compagnia di fra Moriale, nel 1354, portò al Comune un surplus di spesa quasi insostenibile; fallito il tentativo di avvelenarlo, i Nove furono costretti a sborsare ben 13.324 fiorini purché se ne andasse dalla Repubblica59.
Il Comune traeva i propri redditi da una straordinaria varietà di fonti. Vi contribuivano anche i versamenti di somme simboliche, fatti in riconoscimento della sottomissione a Siena, che solitamente venivano pattuiti al momento dell’incorporazione nello Stato senese. Pure la “cavallata”, ovvero l’obbligo di servire personalmente il Comune in cavalleria o di fornire solamente la cavalcatura, assunse, nel tempo, la forma di transazione pecuniaria, soprattutto per quelle categorie di persone che, a causa di svariati motivi, non potevano combattere (vedove, minori,…).Tra gli introiti di giustizia vi erano poi le decime, cioè i diritti spettanti ai tribunali del Comune e che variavano in relazione alle somme di denaro implicate nelle cause (di solito il 10%). Si traeva pure vantaggio dalla vendita di proprietà confiscate ai cittadini; il Consiglio Generale nominava dei procuratori con l’incarico di affittarle o di venderle ai migliori offerenti. Ulteriori fonti d’entrata risultavano poi le multe e i pagamenti versati per l’annullamento delle pene di morte: tutte queste somme venivano registrate sul Libro delle Chiavi. La legislazione del XIV secolo disponeva che colui che richiedeva la cittadinanza, dovesse versare alla Biccherna una data percentuale sul valore delle sue proprietà. Altri denari venivano incassati dal rilascio dei permessi per portare particolari armi in città e per esportare generi alimentari.

Fin dall’inizio del XIII secolo, particolarmente fruttuoso era a Siena, come altrove, il monopolio o dogana del sale; generalmente veniva data in appalto ai migliori offerenti, privati o compagnie. Tale entrata fu, di frequente, assegnata direttamente ai creditori del governo in carica, e non venne quindi riportata nei registri della Biccherna o dell’Ufficio della Gabella. Il prezzo d’acquisto del sale venne spesso stabilito dalle immediate necessità del Comune, senza badare al rapporto tra domanda e offerta. Numerosi diritti e proprietà comunali, dati in affitto a privati o a comunità, rendevano allo Stato somme considerevoli. Modesta, ma non trascurabile, fonte d’entrata risultò essere i lasciti ereditari alla città60.


Nonostante ancora nel 1323, il Consiglio della Campana avesse imposto il focatico, il sistema di tassazione diretta sotto i Nove si basò principalmente sul metodo valutativo conosciuto come la Lira; essa fu probabilmente introdotta a Siena, per la prima volta, tra il 1168 e il 1175. L’ allibramento o compilazione della Lira non fu regolamentata dettagliatamente da alcuna costituzione; ogni Lira veniva regolamentata singolarmente dal Consiglio Generale mediante un insieme di disposizioni specifiche. Secondo lo Statuto del 1292, i vecchi libri di valutazione e di accertamento fiscale dovevano venir bruciati per non creare un precedente: il governo senese desiderava infatti distribuire il carico fiscale equamente, in base alla reale possibilità del contribuente.

Dopo che il Consiglio Generale aveva disposto per un nuovo allibramento, i Nove, assieme ai Consoli della Mercanzia, sceglievano gli allibratori selezionando circa 20 uomini per Terzo; da questi si creava un gruppo più ristretto, il quale avrebbe “allibrato” gli stessi allibratori, i Nove, gli altri membri del Concistoro ed anche gli Esecutori di Gabella. Per venir scelti, gli allibratori dovevano possedere un imponibile minimo di 25 lire, salvo il caso in cui nessun cittadino soddisfacesse tale requisito. Si cercava comunque di nominare persone che avessero avuto già esperienza in questo complicato compito. Le commissioni di accertatori, sulla base degli elenchi sopravvissuti, risultavano costituite, per la maggior parte, dai noveschi e dai magnati, esclusi, per statuto, dalla più alta magistratura. Solitamente il lavoro totale richiedeva un minimo di due mesi ed era stipendiato con 2 soldi al giorno per ciascuno. Gli allibratori operavano in tre gruppi separati, uno per ogni Terzo, e usualmente si riunivano nella chiesa principale del loro settore di competenza. Lì, con l’ausilio di notai, religiosi e, talvolta, giudici stranieri, valutavano, in base alla loro personale conoscenza, i beni mobili ed immobili dei concittadini, sebbene richiedessero pure le dichiarazioni ai singoli contribuenti. Si eliminavano le sei stime più alte e le sei più basse, delle rimanenti, in genere tre, si faceva poi la media, ottenendo la cifra su cui operare successivamente. I patrimoni privati del clero non erano esenti da tale metodo di tassazione; gli indigenti o non venivano allibrati o lo venivano per una cifra minima fissa. I cittadini non soddisfatti dalla stima data ai loro beni, avevano il diritto d’appello. Nonostante le severe ammende, i contribuenti frequentemente tentavano di sfuggire all’allibramento e alla tassazione. Sovente l’evasione fiscale avveniva fingendo di aver donato o venduto beni immobili a istituti religiosi, o ancora fingendo di essere entrati in una confraternita esente dalle tasse, mentre si poteva poi godere comunque di quelle proprietà. Gli ingannatori scoperti venivano imprigionati con i loro figli, se maggiori ai 14 anni. I Frati Gaudenti, l’ordine laico dei Cavalieri della Beata Vergine Maria, tra il XIII e il XIV secolo a Siena, offrivano facilmente rifugio a coloro che volevano evitare il fisco e le altre imposizioni comunali.

Oltre alle implicazioni fiscali, l’impiego della Lira divideva la cittadinanza senese secondo gruppi sociali, economici e politici, in maiores, mediocres e minores (tale distinzione venne riportata anche dal Constituto del 1262); il Costituto volgarizzato del 1309-1310 invece suddivise la popolazione in Lira maggiore, mediocre e minore, in base alla ricchezza dei singoli allibrati (magnati, mercanti e popolani). Tale ripartizione risultava fondamentale anche nella scelta dei componenti delle commissioni, predisposte dal Comune a particolari scopi. Probabilmente pure il Monte, inteso a designare i membri delle famiglie che avevano partecipato ad una delle signorie senesi, è sorto anch’esso in conseguenza all’istituzione della Lira (v. Monte dei Nove).

La misurazione e la valutazione dei beni fondiari avvenivano invece sulla base della Tavola delle Possessioni, istituita da un decreto del Consiglio Generale del gennaio 1316. Si trattava di descrivere e di valutare i beni immobili interni alla città e al suo contado basandosi non più sulle dichiarazioni dei proprietari, ma sul rilevamento di agrimensori professionali e di commissioni comunali. La Tavola comprendeva anche un elenco dei beni mobili, registrati separatamente. Tale documentazione veniva raccolta in libri, custoditi e aggiornati da appositi ufficiali, detti Signori della Tavola, e da notai.



La Tavola fu soggetta, nella sua amministrazione, a continue sperimentazioni e modifiche; ciò dipese dalla volontà statale di superare le mancanze di tale sistema. In grossa difficoltà si trovarono gli ufficiali addetti al libro della Tavola soprattutto nel riportare i trasferimenti di proprietà e delle somme a questi legate, e nel dover valutare i beni in modo approssimativo. Nonostante le buone intenzioni, nel 1324 l’ufficio dei Signori della Tavola fu abolito, demandando tale compito ai Provveditori della Biccherna61.
Nella seconda metà del XIII secolo, a Siena come nella maggior parte dei Comuni toscani, il dazio e la Lira furono le più importanti forme di tassazione diretta; a Siena, esso si basò sulla Lira e, per breve tempo, sulla Tavola delle Possessioni. Vi si fece ricorso durante tutto il regime dei Nove, anche se in modo non continuativo; dal XIV secolo, il Comune iniziò a prediligere altre entrate, quali i prestiti e le gabelle. Gravi lacune presenta la documentazione relativa ai dazi; non si possiedono quindi indicazioni sicure neppure riguardo le modalità di imposizione e la misura in cui variavano. Solitamente erano i Nove ad imporre un dazio, a volte sostenuti dagli altri Ordini e dagli Esecutori di Gabella. Talvolta esso veniva invece richiesto da una commissione, voluta dal Consiglio Generale e selezionata dalla signoria, che comprendeva al suo interno molti noveschi e che principalmente si occupava di migliorare le finanze del Comune. I pagamenti avvenivano in due modi, o mediante un unico versamento o in più rate. Dell’esazione si occupavano gli ufficiali di Biccherna oppure le compagnie di banchieri senesi, le quali operavano su un diritto fisso, su una percentuale del globale riscosso oppure appaltando i dazi. I tassi di esazione di questi ultimi, a Siena, oscillavano tra l’1 e il 20 %, in relazione ai metodi di valutazione fiscali di riferimento. La maggior parte dei dazi probabilmente venivano applicati alla città e soltanto alcuni al contado; essi colpivano tutta la cittadinanza (tranne gli ecclesiastici, i poveri e coloro il cui reddito non superava il minimo fissato per l’esazione), i residenti delle Masse e delle comunità specificate, i nobili del contado. Taluni dazi venivano applicati soltanto a persone aventi un determinato reddito. A coloro che non versavano le imposte nei termini prestabiliti, veniva imposta una maggiorazione di 1/3 o di 1/4 sul pagamento richiesto inizialmente. Dalla quantità delle penalità imposte, si può dedurre che l’evasione era molto praticata e che la riscossione del dazio risultava un’ardua impresa in uno Stato forse non ancora pienamente organizzato a tali metodi fiscali. Siena non rinunciò, come fece invece Firenze, a questo sistema di esazione, poiché, oltre a costituire un’entrata considerevole, esso colpiva in modo più equo, poiché commisurato alle possibilità economiche di ognuno. La scelta del metodo di riscossione, per riempire con estrema rapidità le casse del Comune al bisogno, veniva sottoposta al Consiglio Generale, il quale doveva - tenendo conto della situazione politica economica e sociale della città - predisporre per quello più adatto. Dopo aver deciso tra l’allibramento, la Tavola delle Possessioni e le gabelle, i Nove, entro 8 giorni dall’approvazione del provvedimento, selezionavano una commissione, la quale passava a riesame il sistema optato e vi apportava cambiamenti se necessario. Le disposizioni apportate venivano presentate a un Consiglio, ritenuto dai Nove adatto allo scopo, il quale si occupava, se favorevole, della loro esecuzione62.
Dagli ultimi decenni del XIII secolo, al termine del governo dei Nove, le gabelle coprirono buona parte delle entrate comunali. Essendo difficile trovare una definizione che le descriva con precisione, in generale si può dire che esse comprendono ogni forma di tassazione comunale non basata sulla Lira o sull’estimo, e in ciò ricordano i prestiti forzosi. I residenti della città e del contado venivano colpiti su numerose e svariate voci: generi alimentari, introiti derivanti dagli affitti, contratti, materie prime,…Alcune gabelle tassavano direttamente le persone, richiedendo quote diverse in relazione alla fascia di età di riferimento. Estremamente redditizie, per il Comune, dovevano risultare quelle sugli stipendi: tutti ne erano soggetti, compresi i magistrati stranieri e i soldati mercenari. Il pagamento di tale imposta, da parte di queste due categorie, costituiva un cospicuo risparmio sulle uscite di denaro dalle casse comunali. Intorno al 1325 veniva trattenuto loro, direttamente dalla Biccherna, sei denari per lira (2,5%); alla vigilia della Grande Peste si arrivò a un soldo per lira (5%). Dopo il 1348 il governo unificò le gabelle sugli stipendi dei Senesi e dei forestieri, e nel 1354 - a causa della crisi finanziaria provocata dall’incursione, in terra senese, di Fra Moriale - si giunse a prelevare due soldi per lira (10%). Poiché la maggioranza delle gabelle veniva raccolta in città, i residenti del contado spesso riuscivano a sfuggirle; le istituzioni religiose e le organizzazioni assistenziali godevano, in merito, di particolari esenzioni. Sino al 1290, le gabelle venivano solitamente riscosse dagli ufficiali di Gabella, i quali dipendevano dai tre Esecutori e dal tesoriere; il Giudice Esattore di Gabella si occupava invece degli evasori di tali imposte.

I Nove optarono rapidamente per un sistema di appalto delle gabelle, cedendo il diritto di riscossione di queste, per un determinato periodo, in cambio di una somma concordata. Sino al 1348, furono i banchieri senesi a garantire l’adempimento del contratto per gli appaltatori; dal 1323 appaltare le gabelle divenne procedura usuale; per quelle appaltate per meno di 100 lire, erano gli Esecutori di Gabella a disporne nel modo ritenuto più conveniente, mentre tutte le altre dovevano essere bandite pubblicamente. Nessun membro degli Ordini della città poteva, per emendamento del 1337, comprare o affittare gabelle fino a sei mesi dalla conclusione del mandato.

Un’apposita commissione di Emendatori del Costituto di Gabella esaminava le ordinanze di Gabella e ne proponeva delle modifiche se ritenuto necessario. La documentazione esistente ben poco informa riguardo i tassi di esazione delle varie gabelle; essa però ne dimostra una staticità per il quarantennio dal 1292 circa al 1332. Per aumentare le entrate di tali imposte, il governo senese non procedeva adeguandone i tassi, ma raddoppiandone quelli di una o più, generalmente per un anno, poiché credevano, che così facendo, gli appaltatori avrebbero offerto cifre maggiori.

Spesso gli appaltatori dovevano versare le somme pattuite direttamente a banchieri senesi, i quali le avrebbero usate per il rimborso dei creditori del Comune (soprattutto per i soggetti al prestito forzoso). L’evasione fiscale perdurò anche con tale sistema di esazione, di conseguenza gli appaltatori presentavano offerte basse per l’ottenimento del contratto e pretendevano sconti sulle somme concordate.63



Merita una spiegazione dettagliata, la gabella grande o gabella delle otto gabelle, comprendente quella delle bestie o gabella “grascie” (sugli animali che attraversavano il contado per l’esportazione), quella sulla farina, sulla legna, sul carbone e sui pennuti trasportati in città e nei suoi borghi. Ma sicuramente la gabella del vino fu, tra tale tipologia d’imposta, la più redditizia: dopo le tasse dirette e i prestiti forzosi, era la fonte d’entrata principale. Essa si applicava a tutto il vino venduto al dettaglio dai commercianti nella Repubblica senese. Dal decreto del 1290, tranne brevi periodi, sembra sia stata appaltata sino agli anni della Grande Peste; successivamente i suoi proventi furono diretti al rimborso del debito comunale. Generalmente erano gruppi di agiati uomini d’affari (spesso anche magnati) ad acquistarne i diritti di riscossione. Allo scopo di assicurare la presenza abbondante e il prezzo accessibile di alcuni generi alimentari di base, all’inizio del XIV secolo questi furono colpiti, uscendo dalla città, da una gabella di valore doppio rispetto a quando vi entrarono. Diversi tassi di gabelle venivano poi imposti sulle merci, in relazione, ai tassi applicati a quelle senesi, dalle città destinate ad acquistarle64.
A Siena i prestiti forzosi, indicati come “preste” o “prestanze”, erano fondamentalmente di due tipi: la “presta generale”, imposta a tutti o perlomeno agli allibrati, e la “presta a balzi”, imposta a un ristretto numero di persone o a specifici gruppi. Dal XIV secolo s’iniziò però a distinguere tali prestiti in “minor presta”, per gli allibrati per cifre inferiori alle 500 lire, e “maior presta”, per gli allibrati invece per cifre maggiori alle 500 lire; le “preste a balzi” potevano pure fare riferimento a tale suddivisione. I membri di un gruppo sottoposto alla “presta a balzi” potevano essere colpiti tutti dalla medesima cifra richiesta o proporzionalmente alle loro possibilità economiche. Per statuto, l’imposizione di un prestito forzoso poteva essere decisa da un Consiglio segreto composto da un minimo di 150 uomini presieduto dai Nove o da una commissione nominata dai Nove, o da tutti gli Ordini della città, su mandato del Consiglio Generale. Questa commissione comprendeva due o tre uomini per Terzo oppure uno per ogni distretto amministrativo di Siena. Principalmente i prestiti forzosi colpivano i cittadini e coloro che avevano un stretto rapporto con il Comune, ma, in alcuni casi, essi si imponevano anche sulle Masse e Cortine nonché sul contado. I tassi di esazione erano stabiliti dal Consiglio Generale o dai Nove, per concessione di quest’ultimo, o dalle commissioni legislative. Solitamente il Consiglio Generale approvava la somma del prestito richiesto, la quale andava ripartita, secondo la condizione economica, tra i vari componenti del gruppo scelto allo scopo65; altre volte però, il contributo di ciascun membro veniva calcolato in base alla stima fornita da un allibramento già avvenuto o da definire. Riguardo il contado invece, dal 1291, il governo senese vi ripartì la somma del prestito forzoso in proporzione alla quota della gabella del contado spettante ad ogni comunità.

Tale prestito doveva venir rimborsato in rate semestrali, entro 4 anni; i cittadini venivano ripagati in contanti, i contadini ricevevano riduzioni sulla tassazione annuale del contado. I prestiti potevano essere richiesti in un unico versamento oppure in più rate. Il pagamento avveniva in tre modi diversi: agli ufficiali di Biccherna (o agli ufficiali di Gabella se si riscuoteva in contado), ai banchieri senesi o agli Ordini della città. Le entrate della Gabella Generale garantivano il rimborso; per la ritardata restituzione fu fissata una maggiorazione pari ad ¼ della cifra iniziale richiesta oppure di 5 soldi per fiorino ogni sei mesi (19-22% annuo)66; più volte comunque, nella prima metà del XIV secolo, il governo dei Nove cercò di stabilire il tasso d’interesse al 10%. Come garanzia ai creditori, il Comune vincolava alla restituzione alcune fonti d’entrata, quali la Gabella Generale, il monopolio del grano e la gabella delle porte. Riscuotere i prestiti forzosi, entro i termini previsti, non era certo impresa da poco; probabilmente erano molto gravosi per il contribuente. La penalità per il suo ritardo era una maggiorazione di ¼ della somma iniziale richiesta; essa forse rendeva la riscossione più rapida. Il Comune di solito preferiva evitare questo genere d’imposta, poiché il tasso d’interesse applicato lo rendeva poco conveniente; esso risultava però indispensabile nei momenti di grave crisi finanziaria. Per ovviare a tale problema, spesso il Comune, dopo la richiesta di un prestito forzoso, imponeva un dazio per cancellare i debiti dovuti ai prestatori. Questi ultimi erano inoltre soggetti alla diversa valutazione del fiorino al momento del rimborso67.


Il prestito volontario costituì, a Siena durante il regime dei Nove, una delle maggiori fonti d’entrata fiscale. Poiché non veniva registrato sui libri della Biccherna, molte sono le lacune nella conoscenza di tale imposta. Nonostante il Comune cercasse di fissare il tasso d’interesse a 10%, in realtà essi variavano solitamente dal 15 al 60%, ma talvolta raggiungevano anche il 100%. Il governo quindi spesso si trovava in competizione con gli interessi offerti da investimenti privati. I saggi d’interesse fissati venivano fatti rispettare dal Capitano della Guerra o dal Podestà.

I prestiti volontari erano in genere a brevissima scadenza (30-90 giorni) ed esigevano delle garanzie. Gli investitori potevano essere garantiti dai proventi della Biccherna, delle gabelle, o da qualunque entrata in generale e talvolta ricevevano due ricevute per il medesimo prestito: una da un procuratore comunale, l’altra da singoli magistrati comunali, i quali, anche se riluttanti soprattutto nei periodi di maggior indebitamento del Comune, vincolavano i loro beni al rimborso. Spesso erano gli ufficiali del Comune - in quanto così potenti ed influenti da farsi rimborsare secondo le modalità previste - a prestare denaro al governo; allo scopo di finanziare la Biccherna infatti, di frequente, i Provveditori anticipavano somme cospicue.

Oltre all’interesse, un’altra grossa attrattiva spingeva ad investire nel prestito volontario: se il governo aveva urgente necessità di contante era costretto ad impegnare ai prestatori proprietà di valore, le quali offrivano loro la possibilità di usufruire delle rendite e delle ricompense che il Comune elargiva per la difesa militare di questi suoi beni. Nonostante quest’ultimo fosse riluttante nel richiedere prestiti stranieri, spesso essi provenivano da compagnie forestiere (solitamente fiorentine) mimetizzate dall’operato delle compagnie bancarie senesi. Anche organizzazioni religiose, quali l’Ospedale di S. Maria della Scala, prestavano denaro alla città, per un conveniente interesse minore all’8%, e - secondo W. M. Bowsky - poiché Siena non poteva tassare enti ecclesiastici, è probabile, che ciò fosse, in realtà, un tentativo mascherato di tassazione. Notevole opera di persuasione, perseguiva il governo per spingere il clero locale a contribuire al mantenimento dello Stato, pratica che avveniva in particolare nei confronti del monastero cistercense di San Galgano68.
La gabella del contado o “tassazione generale del contado” fu, durante il regime dei Nove, l’imposta chiave richiesta alle comunità sottoposte a Siena, dall’agosto 1291. Nel periodo precedente, ad esse erano state applicate gabelle simili a quelle riscosse in città. Poiché tale sistema, vista la vastità del territorio sottoposto, risultava poco funzionale allo scopo, il Consiglio Generale approvò questa nuova gabella proposta, da una commissione legislativa nominata dalla signoria. Al cambiamento sopravvissero soltanto la gabella della vendita del vino al dettaglio, la gabella del pane cotto per la vendita, la gabella sulle carni e quella sui mercati; le comunità dovevano inoltre provvedere anche alla remunerazione dei rettori inviati a governarle. Al contado veniva ora imposto il pagamento, annuale in tre rate, di una somma suddivisa tra le comunità, in relazione alla loro possibilità economica (sistema già adottato a Prato e a Firenze). I nobili del contado e le Masse non ricadevano in tale imposta; le città conquistate, non incorporate ancora nel contado stesso, subivano trattamenti fiscali fissati provvisoriamente dai Nove e dagli Esecutori di Gabella. La somma, decretata dal Consiglio Generale, quale carico fiscale da imporre annualmente, veniva riconsiderata ogni 4 anni: invece che alla Biccherna, la sua riscossione fu affidata alla Gabella. I Nove e gli Esecutori di Gabella, nel gennaio di ogni anno, nominavano tre commissioni, composte ognuna da 4 uomini per Terzo, le quali decidevano le parti di gabella da accreditare alle singole comunità; dalla media di queste tre quote si ottenevano le cifre da richiedere. Il Consiglio o i Nove decidevano poi se applicarle. Con le comunità, Siena solitamente trattava tramite i loro procuratori o Sindaci, eletti secondo disposizione del Podestà e supportati da garanti senesi di condizione agiata.

Il contado era poi soggetto anche ad altri obblighi: il pagamento di dazi, prestiti forzosi e gabelle, gli stipendi dei Rettori, la manutenzione di ponti, strade e fonti d’acqua e la fornitura di truppe militari. Spesso però al mantenimento delle infrastrutture contribuiva pure il Comune con il 50% del loro costo; talvolta invece le comunità potevano detrarre tali costi dall’imposta sul contado. Per quanto riguarda le forze militari richieste, esse venivano solitamente definite al momento dell’incorporazione delle comunità nel contado; anche in questo caso Siena le rimborsava del servizio prestato, permettendo loro di sottrarre dalla quota della gabella del contado le spese sostenute a tale scopo. Al fine di attirare coloni in insediamenti di recente acquisto o di nuova fondazione, il governo concedeva loro generose immunità fiscali e riconosceva inoltre la necessità di accordare esenzioni fiscali alle regioni comitatine in eccezionale difficoltà economica. Caso particolare costituì quello delle “terre rotte” e cioè quello delle comunità che per il governo senese avevano fatto fallimento ed erano state sciolte per legge. In realtà ciò avveniva raramente, ma quando accadeva, erano stati solitamente gli insediamenti a dichiararsi in tale condizione; d’altronde le comunità veramente bisognose o “rotte” non dovevano più versare la gabella del contado e nemmeno le altre imposte. Le “terre rotte”, considerate fraudolente dopo l’ispezione degli ufficiali comunali, erano obbligate a ricostituirsi; se invece venivano definite non fraudolente, esse venivano aggregate, ai fini fiscali, alle comunità vicine. Se il contado quindi, oltre che a contribuire al sostentamento della città, doveva anche mantenere i propri comuni locali, i cittadini però erano più colpiti da dazi, prestiti forzosi e gabelle69.


Alla fine del XIII secolo, l’affermarsi dell’ufficio della Gabella Generale fu un fatto molto importante; tale magistratura, in quanto competenza, si estese rapidamente sino ad interessare diversi settori dell’amministrazione fiscale. Ad ostacolarla vi fu la rivalità amministrativa con l’ufficio della Biccherna che perdurò sicuramente sino alla caduta del regime dei Nove nel 1355; tale magistratura infatti non intendeva affatto rinunciare al suo precedente monopolio sulle entrate e sulle uscite.

L’amministrazione finanziaria senese presentò poi altri problemi quali la difficoltà della Biccherna e della Gabella Generale di riscuotere le entrate a loro dovute, l’usurpazione da parte di privati e di corporazioni di beni e diritti del Comune e l’inadeguata sorveglianza sull’efficienza e sull’onestà delle magistrature finanziarie. Le accuse di disonestà e di favoritismi a carico di queste ultime crebbero notevolmente negli ultimi anni del governo dei Nove fomentate dai nuovi ricchi e dalle casate nobili escluse dalle massime cariche. Questi cercavano di esservi ammessi o di reclutare alleati con i quali rovesciare il regime. Ma per i contemporanei, il principale problema da affrontare era quello di adeguare le entrate alle uscite e di mantenere una distribuzione equa dell’esazione fra gli abitanti dello Stato. Per quanto riguarda il debito comunale, il governo, con i suoi continui sforzi e tentativi, riuscì a liquidare del tutto l’indebitamento e a rendere l’investimento in prestiti e in gabelle conveniente. Siena vide, nel corso del XIV secolo, il moltiplicarsi delle sue fonti d’entrata: si ebbe uno spostamento dalla tassazione diretta a quella indiretta. Nonostante i prestiti forzosi fossero più frequenti dei dazi e, di solito, portassero proventi maggiori e più rapidi, entrambi furono presenti per tutto il periodo novesco; contemporaneamente le gabelle, in particolare quelle indirette, aumentarono notevolmente di numero, varietà ed importanza70.




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