Cinzia rabusin



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IL REGISTRO DELL’UFFICIO DELLA CONDOTTA DI SIENA DELL’ANNO 1357-1358: EDIZIONE ED ANALISI.
Tesi di laurea della dott.ssa

CINZIA RABUSIN,

laureata in storia medievale

presso l’Università di Trieste

nell’a. a. 2003-2004

Relatore

prof. PAOLO CAMMAROSANO

Correlatrice

prof.ssa DONATA DEGRASSI

Indice



Parte prima: l’analisi



Introduzione p. 4




  1. L’Italia nel Trecento p. 8




    1. Cenni storici p. 8



  1. Siena nel Trecento p. 14



    1. Cenni storici p. 14

2.2. Le magistrature p. 15


2.3. I Dodici p. 20


    1. Il fisco p. 26



3. La guerra tra Siena e Perugia (1357-1359) p. 39

4. L’organizzazione e la struttura dell’esercito comunale p. 47
4.1. La milizia civica p. 47
4.2. La conestabileria p. 50
4.3. La compagnia di ventura p. 57

5. Il registro degli Ufficiali della Condotta del Comune di Siena dell’anno

1357-1358 p. 64


    1. I combattenti a cavallo p. 64




    1. I combattenti a piedi p. 68




    1. I luoghi di provenienza dei conestabili p. 71




    1. Il personale dell’Ufficio della Condotta p. 73



Tabelle e grafici riassuntivi dei principali dati d’analisi p. 75

Fonti e bibliografia p. 91

Parte seconda: l’edizione



Criteri di trascrizione p. 98

Trascrizione p. 99

Parte prima: l’analisi

Introduzione

L’Archivio di Stato di Siena, custodisce nei suoi depositi i sei registri degli Ufficiali della Condotta, i quali ne documentano, in modo frammentario, il periodo d’attività dal 1357 al 13651. Allargando la ricerca all’intera penisola, si scopre che scritture, con uguale dicitura e simili nella loro funzione, sono conservate all’Archivio Comunale di Firenze e di Pisa2. Si possono considerare i libri contabili che hanno registrato le condotte3, cioè i contratti stipulati tra il Comune e i mercenari ingaggiati a fianco delle proprie milizie.

A Siena, l’Ufficio della Condotta venne creato dal governo dei Dodici nel 1357, cioè due anni dopo la rivolta popolare che scalzò quello dei Nove e durante la guerra contro Perugia. Esso rientrò nel disegno politico dei nuovi governanti, il quale prevedeva l’incremento dell’autonomia agli uffici secondari rispetto alla Biccherna, come risposta ad una più articolata ed efficiente burocrazia. Sebbene il Moscadelli4 veda in ciò un passo fondamentale verso la “modernizzazione” della pubblica amministrazione e verso la creazione dello Stato moderno5, in realtà l’Ufficio, divenuto macchinoso e costoso, fu abbandonato nel 1370, in accordo con il programma legislativo dei Dodici, promulgato nel maggio 1363, di restaurare la priorità della Biccherna nella gestione delle entrate e delle uscite del Comune6.

L’Ufficio della Condotta era diretto da quattro Savi, i quali facevano da tramite con gli organi istituzionali superiori (Consiglio Generale, Concistoro, Biccherna…), un camerlingo7, che gestiva materialmente il denaro entrante8 ed uscente dalla cassa, e un notaio, il quale si occupava di notificare il movimento di contante e non, sull’apposito registro, in relazione agli ingaggi militari delle conestabilerie9. Anche il camerlingo annotava tutte le sue operazioni per dar successivamente la possibilità alle commissioni preposte al controllo del loro operato, di verificarlo in modo incrociato, utilizzando pure la documentazione prodotta in altri uffici.

Va ricordato che i sei registri dell’Ufficio della Condotta sono inediti e che pochissimi storici li hanno studiati o consultati 10.

Il registro degli Ufficiali della Condotta del 1357-1358, testimonia l’attività dell’Ufficio dalle calende d’ottobre alle calende d’aprile. Secondo la numerazione che l’autore inserisce nel recto del foglio, in alto a destra, è composto da 141 carte di cui quelle dal 100 al 125 e dal 134 al 137 risultano bianche. Il materiale scrittorio è cartaceo e, dal simbolo della filigrana evidente in controluce - una spada sovrapposta ad uno scudo tondo o, forse, inserita in una roccia - sembra probabilmente provenire dalle cartiere annesse al monastero cistercense di S.Galgano, dove la maggior parte dei camerlinghi comunali prendevano i voti e dove tuttora si trova la famosa “spada nella roccia”. La legatura presenta una coperta in pelle morbida marrone, i cui bordi risultano ripiegati all’interno, e uno spago grezzo che unisce i fogli attraverso dei buchi appositamente predisposti. La scrittura è una minuscola cancelleresca chiara e scorrevole, come il volgare utilizzato. Lo stile essenziale e frettoloso denota il suo utilizzo come strumento non ufficiale, ma predisposto principalmente all’annotazione. Nel complesso la sua struttura ricorda, molto da vicino, i libri mercantili del “dare ed avere”, soprattutto nella ripetizione continua di formule ricorrenti quali “E de’ dare…” oppure “E de’ avere…” o ancora “Resta a dare…”; niente di strano comunque, se si pensa che questi notai uscivano proprio da quelle scuole che insegnavano i rudimenti della matematica ai futuri mercanti11. Non sono presenti tracce di colore o di decorazione nelle lettere e nei margini, soltanto saltuariamente appaiono delle manine a dito indice indicante parti di testo da evidenziare. Per quanto riguarda l’uso dei numeri, questi vengono scritti indifferentemente nella loro cifra romana o araba. Inoltre è impossibile indicare una dimensione sommaria dello specchio di scrittura poiché l’autore non adotta alcun criterio di stesura; si possono invece dare delle misure approssimative per indicare la grandezza del registro e cioè 21x 28 cm. circa. La calligrafia rivela un’unica mano, anche se analizzando il documento, si scopre che almeno sei notai lavoravano per l’Ufficio, forse con mansioni diversificate. Tranne una inevitabile ingiallitura del supporto cartaceo dovuta al tempo trascorso, lo stato di conservazione è ottimo.



Analizzando, in generale, il contenuto di tale registro è utile ricordare che a Siena, in quel periodo, si usava lo stile dell’Incarnazione fiorentino per il computo, cioè si faceva partire l’anno solare dal 25 marzo. Da questo giorno, nel documento qui trattato, saltuariamente l’autore si ricorda di datare le carte al 1358.

Nella pagina di presentazione del testo in questione, oltre all’invocazione, di rito, a Dio e alla Vergine, e alla legittimazione in nome dei Dodici, sono presenti i nomi dei quattro Savi (Petro Mini, Vita Bechi, Antonio Malavolti, Franciesco di Iacomo Chinchinegli) e del camerlingo in carica al momento (Lucha Berti Ranieri); quello del notaio (Mino di Meo Filippi) è presente invece nel foglio successivo. Inizia poi un elenco di conestabili, alcuni capitani di uomini a cavallo, altri di fanteria, con riferimento al numero del foglio corrispondente alla loro trattazione nel registro; esso però risulta incompleto e i rimandi non sono sempre riscontrabili. Quasi ogni carta, sino alla 95, è dedicata alla stesura delle modalità della condotta, in modo sistematico e ripetitivo. I primi dati riportati sono il nome, il cognome (o derivazione paterna, o di luogo di nascita), e il soprannome del conestabile: in un’epoca in cui l’identificazione era un problema, non esisteva il pericolo di dare un’eccessiva o inutile informazione. Seguono il numero delle barbute a lui sottoposte, le loro paghe, la durata della loro ferma (di solito tre o sei mesi prorogabili) e la modalità del pagamento (parziale, a saldo, in contanti …). Si passa poi alle voci successive, di cui alcune fisse, altre personali, e altre ancora che talvolta non hanno a che fare con il conestabile nominato, ma forse con i suoi sottoposti. Nelle prime vanno incluse la gabella dei salari (di 2 soldi per libra) e i pagamenti rateali versati; nelle seconde può rientrare una variegata quantità di dati, dal pagamento, da parte del Comune, per il servizio di ”polizia” interna alle mura della città e per la gabella dei cavalli, al dover rispondere da parte del comandante dei ritardi o delle irregolarità dei propri uomini (“pontature e diffetti”), all’aver ricevuto denari direttamente dalle gabelle o dalla Biccherna. Sono poi presenti, voci che non riguardano direttamente il condottiero, ma che rientrano nella logistica militare come, ad esempio, il pagamento a terzi per l’acquisto di cavalli, armi, stoffe per le bandiere, pennoni12 e strumenti musicali d’accompagnamento , e come i ricompensi spettanti ai notai, ai messi, agli interpreti, ai sindaci e agli ufficiali comunali, i quali si sono occupati di assoldare le truppe, di recare loro la paga direttamente sul luogo della ferma e di passarle in rassegna (“far le mostre”13). Appaiono ancora delle carte dedicate a conistabilerie di fanti e di balestrieri, in entrambi cittadini di Siena, suddivisi per Terzi (Città, S. Martino e Camollia) e pagati 5 fiorini il mese, con una “benadata” di 3 denari a testa 14, altre descriventi conistabilerie di bandiere, cioè formazioni di 25 barbute, e di gruppi militari della stessa provenienza (ad esempio gli “Ongari”), e infine fogli (dal 95 al 141) che riportano, soprattutto a fine registro, le chiusure dei conti “del dare e dell’avere”, in relazione all’imminente conclusione del mandato semestrale dei magistrati. Attraverso la lettura, inoltre, spesso s’incontrano personaggi appartenenti a casate senesi allora importanti, quali i Tura, i Saracini, i Tolomei, i Malavolti, i Piccolomini, denotanti l’ancora vivo potere dei ceti magnatizi all’interno di un governo dichiaratamente popolare. Oltre a questi, si scoprono poi, personalità storiche, ben note alla storiografia, come Hanneken von Baumgarthen.

Per rendere meno cavilloso il lavoro di riscontro incrociato tra le entrate e le uscite dei vari uffici, il notaio qui preposto alla registrazione, nelle singole voci annotate ligiamente, rimanda ad altri libri contabili di riferimento, difficilmente ora identificabili poiché non giunti a noi; poco riescono a spiegare denominazioni quali “libro piciolo”, “mimorialle”, “libro delle cabelle”, “libro del camerlingo”.

Nell’intero documento poi, è evidente la volontà, da parte dell’autore, di rendere immediata la ricerca e l’utilizzo dei dati fondamentali, attraverso la tipica stesura riscontrabile nei registri mercantili, i quali ben separavano il testo esplicativo dalla cifra esprimente il “dare” o l’ “avere” a fianco di quest’ultimo. Sempre per la medesima ragione, a fine foglio, si trova spesso il resoconto della somma ottenuta dalle singole voci di un determinato referente, sia esso conestabile, messo, notaio o altro. Queste operazioni riportano talvolta a fine trattazione, la testimonianza scritta della presenza, al momento dell’annotazione, di persone autorizzate e competenti, quali notai, camerlinghi, e supervisori. Va ricordato poi, che le cifre vengono espresse sia con la numerazione romana che con quella araba, e che le monete di riferimento sono i denari, i soldi, le lire, i fiorini e raramente i grossi e i quattrini; molto interessante appare l’aggettivo “picciola”, il quale, a volte, ne denota alcune. Saltuariamente, l’autore rende noto il cambio, al momento applicato (69 soldi al fiorino).

Man mano che si procede nella lettura, si percepisce una caduta di qualità e una difficoltà di gestione nella registrazione, La struttura viene mantenuta con difficoltà, le parti in causa aumentano notevolmente e il lavoro si ingigantisce: la guerra in atto contro Perugia si sta trasformando in un conflitto non da poco.




1. L’Italia nel Trecento

1.1. Cenni storici


Il XIV secolo non si presentò, per la penisola italiana, come un periodo di eventi dalla portata universale, ma come teatro di limitati scontri locali. La realtà politica, di obiettivo più concreto e ridotto, prese piede rispetto ai grandi ideali imperiali e cristiani dell’età precedente.

In Italia, lo Stato moderno trovò la possibilità di sorgere solo attraverso la creazione di signorie locali; a ciò fece eccezione il regno angioino di Napoli poiché, non avendo conosciuto lo sviluppo comunale, non conobbe nemmeno quello successivo rappresentato appunto dalla signoria. Unici caratteri comuni riscontrabili nella storia d’Italia del Trecento, furono perciò lo Stato territorialmente molto limitato e il particolarismo dei poteri. Il Comune ormai, come istituzione politica, stava declinando in favore della formazione di oligarchie dirigenti rappresentate o dirette da poche famiglie aristocratiche; esso era una “sopravvivenza politica priva di contenuto reale”, incapace di rispondere adeguatamente alle necessità della sua cittadinanza, che vide nella signoria l’unica soluzione per evitare il crollo totale15. Tra i fenomeni che accompagnarono tale processo, fondamentale fu la trasformazione dell’esercito da cittadino a mercenario. Poiché inadeguate alle nuove necessità (estendere la sfera d’influenza del Comune sul contado anche entrando in conflitto con le città vicine, prolungati periodi di belligeranza, entrata in scena di masse di armati mercenari, …) e pericolose in quanto endemicamente intrecciate nelle lotte tra le fazioni interne alla città, le milizie civiche furono sostituite da assoldati professionisti, militarmente più preparati e politicamente esclusi, almeno in teoria, dalle controversie di partito. Sembrava inoltre una soluzione l’inglobare nell’istituzione quella massa di “venturieri” che, dalla conquista angioina del regno di Sicilia e dalle spedizioni imperiali di Arrigo VII e di Ludovico il Bavaro, avevano iniziato a vagare per la penisola in cerca di fortuna16.


Come già accennato, il regno di Napoli nel XIV secolo, apparve una monarchia solida, retta dagli Angiò e decisa a riunificare l’Italia sotto il proprio scettro. L’estensione del suo territorio, i legami di stretta parentela con le casate di Francia e di Aragona e con i re d’Ungheria, lo stato della Chiesa nell’anarchia, i Comuni in preda alle lotte di fazione, furono tutti elementi a favore della riuscita di tale progetto. Un’organizzazione statale però ancora completamente legata al sistema feudale non consentì agli Angiò di sfruttare al massimo le potenzialità a disposizione e di realizzare così il loro intento 17.
La vacanza del papato da Roma (1305-1376), gettò tale città in una situazione di continua lotta interna; famiglie aristocratiche quali Colonna, Orsini, Caetani, combattevano la loro guerra privata per conquistare il potere. Fu grazie a ciò che personaggi come Cola di Rienzo riuscirono ad ottenere credibilità con i loro ideali. Egli, evocando la Roma dei grandi imperatori, avrebbe voluto liberarla dai nobili in nome del popolo romano e rimetterla al centro dell’impero, fondato però sulla cristianità. Dopo esser stato nominato ambasciatore del popolo romano presso papa Clemente VI (1342), notaio della Camera Capitolina (1343), dittatore di Roma (1347) e tribuno (1347), il Papa lo scomunicò per eresia durante una rinnovata attività dei Colonna. Cola, abbandonato pure dal popolo, cercò asilo presso Carlo IV il quale lo consegnò al Papa. Fu condannato a morte da Clemente, ma scarcerato dal successivo Innocenzo VI. Cola fu allora inviato da questi, assieme al cardinale Albornoz, in Italia per riprendere pienamente il potere, a nome del Pontefice, nello Stato della Chiesa. A Roma (1354) egli riprese la lotta contro i Colonna appoggiandosi alle truppe mercenarie capitanate dai due fratelli del condottiero fra Moriale. Alcuni mesi dopo, durante una rivolta popolare, Cola fu massacrato dalla folla mentre tentava la fuga18.
L’autorità imperiale in Italia era stata fortemente indebolita dalla volontà dei Comuni a mantenere la propria indipendenza e dalla permanenza, a sud e al centro, del regno di Napoli e dello Stato pontificio. Arrigo VII, convinto di poter portare la pace tra le fazioni cittadine e di ridurre poi i Comuni al suo volere, trovò solo sconfitte. Ludovico il Bavaro invece, tentando di sfruttare gli scismi interni alla Chiesa, nominò un antipapa, si proclamò difensore della fede cristiana, ma anch’egli subì la sconfitta delle forze guelfe unite. Miglior esito non ebbe la spedizione di Carlo IV; costretto a emanare la Bolla d’oro, perse pure le motivazioni legittimanti l’intervento imperiale in Italia. Da quel momento non si fece più riferimento alla monarchia universale e all’incoronazione papale degli imperatori. L’impero diveniva così un’istituzione legata principalmente all’area germanica19.
Nella prima metà del XIV secolo, la Lombardia e la Toscana furono le regioni che maggiormente in Italia risentirono delle lotte tra guelfi e ghibellini.

In Toscana il signore di Pisa Uguccione della Faggiuola prima (1316-1317) e il signore di Lucca Castruccio Castracani poi (1318-1328), condussero l’offensiva ghibellina piegando il nemico, capitanato da Roberto d’Angiò e da Firenze, a Montecatini (1315) e a Altopascio ( 1325)20. Nel 1327 Ludovico il Bavaro, contando sulla discordia endemica che allora regnava tra le città toscane e su Castruccio per sconfiggere definitivamente la Lega Guelfa, scese nella penisola, ma solo alcuni mesi dopo Castruccio e il comandante delle truppe guelfe Carlo, duca di Calabria e figlio di Roberto d’Angio, morirono inaspettatamente lasciando i due schieramenti senza una guida.

In Lombardia invece, il signore di Milano e vicario imperiale di Arrigo VII, Matteo Visconti, dopo aver combattuto contro i guelfi e contro le scomuniche papali dal 1317 al 1322 , fu oggetto, assieme alla sua discendenza, di una spietata offensiva. Mentre i Visconti perdevano terreno, i Della Scala, con Mastino in prima linea, riuscirono a creare uno Stato che dal Serchio arrivava sino alle Alpi orientali; ma dal 1341, dopo una seria di sfortunate imprese, ai signori di Verona rimase soltanto Vicenza, oltre alla loro città d’origine.

Nel 1349 Giovanni Visconti, fratello del defunto Luchino, divenne signore di Milano per volere del Consiglio Generale della città. Aiutato dal trattato di amicizia concluso nel 1347 tra Luchino e Taddeo Pepoli, signore di Bologna, e dall’inefficacia delle truppe guelfe guidate da Astorgio di Duraforte, Giovanni progettò di stanziarsi in Romagna per dominare da qui pure la Toscana. Nel 1350 i figli di Taddeo Pepoli cedettero su pagamento Bologna e l’anno successivo l’esercito papale passò ai Visconti. Dopo un lungo lavoro diplomatico, nel 1352, Clemente VI ritirò le sue scomuniche e insignì Giovanni a suo vicario per ben 12 anni; Bologna ritornò al Pontefice21.



Sconfiggere i Visconti divenne in quegli anni la priorità assoluta per Firenze che si vedeva minacciata nella sua libertà d’azione. Essa nel 1351 cambiò inaspettatamente partito e si rivolse all’imperatore Carlo IV per ottenere aiuti. La guerra che tra Firenze e Milano si sviluppò, si concluse nel 1353 con la pace di Sarzana, voluta principalmente dal Papa. Ma forte dell’annessione di Genova e del potere che ancora era in grado di esercitare in Emilia e in Romagna, Giovanni preparò una nuova offensiva; Firenze rispose alleandosi a Siena e a Perugia (1354)22. La guerra sarebbe sicuramente dilagata in tutta l’Italia settentrionale, se Giovanni non avesse perduto la vita precocemente23.
Intanto a papa Innocenzo VI premeva di rientrare in possesso delle città della marca di Ancona e della Romagna; a tale scopo fu investito il cardinale Albornoz, famoso per le sue imprese contro i Mori. In breve tempo egli riuscì ad ottenere la resa dei Malatesta, che ormai governavano indisturbati sui principali centri della marca, di Gentile da Mogliano, signore di Fermo, di Ancona (1355), di Cesena e di Forlì, entrambe queste ultime, in mano agli Ordelaffi sostenuti da Barnabò Visconti (1357). Per riottenere Bologna, Innocenzo VI preferì invece negoziare con il Visconti. Poiché l’Albornoz proseguiva nella sua offensiva senza tener conto della nuova trattativa, fu destituito e sostituito da Androino de la Roche, abate di Cluny, per essere poi nuovamente ripristinato nel suo incarico l’anno seguente (1358) in quanto ritenuto indispensabile al conseguimento degli obiettivi prefissati. Nel 1359 gli Ordelaffi furono definitivamente sconfitti e nel 1360 Bologna, grazie ad appoggi interni, venne occupata dall’Albornoz il quale fu esonerato nuovamente per volontà del successore di Innocenzo VI, Urbano V (1363). Il trattato di pace che successivamente si stipulò, restituì allo Stato della Chiesa il Bolognese e la Romagna, e al Visconti fruttò 500.000 fiorini24.
Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, la dinastia dei Savoia tese a creare uno Stato indipendente al di là delle Alpi. Appena alla metà del Trecento però, Amedeo VI detto Conte Verde, riuscì a dare valore alla sua casata grazie principalmente al matrimonio della sorella con Galeazzo Visconti (1350), all’annessione del Vallese, di Ginevra e di Losanna (1359-1365) e all’unificazione dei tre rami in cui era suddivisa la dinastia (1360). Nel 1365 egli ebbe poi il riconoscimento imperiale di vicario della Savoia e delle diocesi di Losanna, Aosta, Torino, Ivrea, Ginevra25.
Il trentennio 1350-1380 vide le città di Genova e di Venezia impegnate in un sanguinoso conflitto che si svolse tanto sul mare quanto in terraferma; scopo di ambedue era l’espansione commerciale nel Levante. Dopo cinque anni di scontri segnati da fortuna alterna, grazie alla mediazione dei Visconti, allora signori di Genova, si arrivò a concludere un primo trattato di pace. L’anno successivo, in seguito ad una rivolta popolare capeggiata da Simon Boccanegra26, i Visconti furono cacciati dalla città e Venezia trovò subito la loro alleanza. Sul mare, contrariamente all’imperatore d’Oriente, Andronico, il figlio escluso dalla successione, sosteneva Genova. Con l’aiuto pure del re d’Ungheria e dei Da Carrara, quest’ultima riuscì a penetrare nel cuore dell’Alto Adriatico e a minacciare seriamente i Veneziani. La prematura scomparsa di Pietro Doria, comandante della flotta genovese, costrinse però alla resa.

Ormai stremate dalla guerra, le due potenze accettarono la mediazione di Amedeo VI, la quale portò alla pace di Torino (1381). Alcuni mesi più tardi, egli si prodigò per creare un’alleanza con Genova e Venezia con l’intento di piegare i Visconti27.


Nel regno di Napoli dal 1343 governava Giovanna, la nipote di Roberto d’Angiò, la quale fu data in moglie al cugino Andrea d’Ungheria. Questo fu ucciso nel 1345 in una congiura probabilmente intessuta dalla moglie. Giovanna fu costretta a chiedere asilo ad Avignone in seguito alla guerra di vendetta scatenata dal cognato Luigi d’Ungheria. Conclusa la pace nel 1350, costei sposò un altro cugino, Luigi di Taranto, il quale morì nel 1362 riportando in luce il problema della successione al trono. Pure il suo terzo matrimonio, avvenuto con Giacomo IV d’Aragona, non portò eredi; il re d’Ungheria Luigi continuava, nel frattempo, a reclamare i suoi diritti di successione. La situazione precipitò nel 1366 con l’abbandono del trono di re Giacomo; Giovanna dovette consentire al re di Sicilia Federico III, che l’isola divenisse giuridicamente un regno separato. Scomunicata da papa Urbano VI per essersi pronunciata a favore di Clemente VII (v. Scisma d’Occidente,1378), fu assassinata poco dopo la proclamazione a suo erede di Luigi I, duca d’Angiò e fratello di Carlo V re di Francia. Con l’appoggio del re di Francia, del Papa e dei Visconti, Luigi scese in Italia nel 1382, ma a Bari trovò la morte (1384). Al trono del regno di Napoli si insediò stabilmente Carlo III di Durazzo, cugino di Giovanna, inviato da Urbano VI a combatterla28.
La Repubblica di Firenze per difendersi da Arrigo VII e dai ghibellini toscani, si era rivolta a Roberto d’Angiò prima, al duca di Calabria poi, ed infine nel 1342 proclamò suo signore il nipote di Roberto, Gualtiero di Brienne. L’anno seguente però a causa del suo malgoverno, quest’ultimo fu obbligato da una rivolta generale ad abbandonare la città. Da questo momento sino al tumulto dei Ciompi (1378), Firenze cadde in uno stato endemico di lotta civile fra le due forze cittadine in contrasto, i guelfi e il popolo minuto. Soltanto la cosidetta guerra degli “otto santi” contro Gregorio XI, riuscì a deviare la bellicosità interna verso altri obiettivi. Tale conflitto si concluse nel 1378 con la pace di Tivoli, grazie alla mediazione di Bernabò Visconti e alla morte di papa Gregorio. Intanto a Firenze, il popolo delle arti assalì la parte guelfa e una serie di sommosse si scatenarono sino alla rivolta dei Ciompi capeggiati da Michele di Lando, il quale seppe, vista la situazione degenerata in totale anarchia, prendere in mano la situazione e disperdere gli insorti. Alla rivoluzione venne opposto un governo di coalizione con maggior potere alle arti minori. Nel 1382 il popolo grasso riprese però il governo della città: le arti maggiori e la parte guelfa riebbero così la supremazia in tutte la cariche istituzionali29.
Caduta in potere di Uguccione della Faggiuola e di Castruccio Castracani, nel primo trentennio del XIV secolo, la Repubblica Pisa si sottomise nel 1365, dopo un periodo di lotte logoranti tra i Borgolini e i Raspanti, alla “dittatura” di Giovanni d’Agnello, il quale fu rovesciato tre anni dopo per consenso generale. Come conseguenza anche dello stato di crisi in cui la guerra tra Firenze e i Visconti aveva ridotto la città, in pochi mesi, il governo della repubblica (ormai solo di nome, ma non di fatto) passò completamente all’esiliato Pietro Gambacorta. La riforma istituzionale che egli promulgò, si mantenne inalterata sino alla sua caduta avvenuta nel 1392 a causa della sua politica filofiorentina e all’abile mossa di Gian Galeazzo Visconti. Nel 1406 Pisa cadde sotto il dominio fiorentino dopo un decennio di lotte per contrastare i Visconti e i dissidi ad essa interni30.
Dopo la morte del padre Galeazzo II e dello zio Bernabò (1385), Gian Galeazzo Visconti, conte di Champagne per aver sposato Isabella di Francia, si trovò signore di tutti i domini viscontei. Forte di questo potere, egli immettendosi nella guerra tra gli Scaligeri e i Da Carrara, riuscì a conquistare, tra il 1386 e il 1388, Verona, Vicenza e Padova. Riprendendo i disegni egemonici dei suoi avi, Gian Galeazzo puntò al resto della Pianura Padana e alla Toscana. Grazie però alla abilità militare di Giovanni Acuto, assoldato da Firenze, il centro degli scontri si spostò proprio nei territori viscontei; nel 1392 si giunse alla pace. Resa neutra la Francia, grazie alla cessione di Genova, nel 1396, Gian Galeazzo ripuntò alla Toscana, da dove avrebbe preso i territori appartenenti alla Chiesa, per concludere poi con la conquista del regno di Napoli. Per prima cadde Pisa, seguita da Siena e da Perugia; il signore di Lucca invece, lo proclamò suo protettore. L’Italia tutta presentava una situazione di profonda crisi politica, solo Firenze era ancora in grado di lottare, soprattutto economicamente. Alleatasi con l’elettore del Palatinato Roberto, insignito successivamente anche della corona imperiale, essa richiese l’intervento del “re dei romani”, il quale portò soltanto sconfitte. Firenze sembrava ormai perduta quando la morte colpì d’improvviso il Visconti, il cui sogno di conquistare l’intera penisola fu probabilmente infranto dal bacillo della peste.31

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