Cinzia rabusin


La guerra tra Siena e Perugia (1357-1359)



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3. La guerra tra Siena e Perugia (1357-1359)

Come per la maggior parte delle guerre del tardo Medioevo, il conflitto fra queste due città fu caratterizzato più dal logoramento di entrambe che da battaglie vere e proprie; l’unico scontro degno di nota fu sicuramente quello avvenuto a Torrita, ma anche in tale caso vi si arrivò, come si vedrà, senza una precisa volontà. Non si tendeva all’annientamento del nemico, si mirava puramente al consolidamento della propria influenza sul territorio interessato.

La drastica riduzione delle risorse demografiche, dovute in gran parte alla peste del 1348 e alle successive epidemie e carestie, e al modo temporeggiatore e non risolutivo di condurre la guerra, portarono i governi delle rispettive parti in causa, a preferire l’utilizzo di assoldati di professione guidati da professionisti della guerra spesso di nobili origini. Tali compagnie di ventura riunivano mercenari provenienti per la maggior parte da regioni al di là delle Alpi (Tedeschi, Bretoni, Borgognoni, Provenzali, Fiamminghi, Catalani, Castigliani, Inglesi), e da località più centrali dell’est (Ungheresi)71.

Oltre che per il deficit demografico, il mercenariato attecchì anche per alleggerire le milizie urbane dall’uso prolungato delle armi e dai costi che queste ultime comportavano. Si preferiva lasciare i cittadini alle loro solite attività per ragioni ovviamente economiche, ma anche politiche: le fazioni, avverse al governo in atto, altro non aspettavano che conflitti esterni per riaccendere focolai di opposizione spesso in alleanza con il nemico, appoggiato dai fuoriusciti e dai banditi dal Comune72.

La guerra tra Siena e Perugia, da semplice lotta per il potere sul territorio, si trasformò, in breve tempo, in un conflitto il quale necessitò sempre più di truppe mercenarie. Le milizie, che ancora venivano ampiamente impiegate, si distinguevano grossomodo in cavalleria pesante e fanteria. Nella prima militavano i cittadini in grado di possedere e mantenere armi, cavalli, e inservienti, e pure nobili di città e di contado che in questa categoria di combattenti ci rientravano di diritto. Essi erano poco numerosi in rapporto ai fanti ed organizzati in venticinquine (gruppi di 25 uomini a cavallo) o in barbute, termine derivante dal tipico elmo indossato dal combattente a cavallo, il quale, oltre all’armatura corazzata, portava con sé lo scudo, la spada e la lancia73. La barbuta quindi comprendeva due cavalieri di cui uno equipaggiato alla tedesca con armatura composita a piastre detto uomo d’arme e l’altro con il compito di servirlo, lo scudiero; entrambi comunque combattevano sul campo. La fanteria invece, in relazione alla suddivisione giuridico-amministrativa della città ( terzi, quartieri, sestieri ), veniva organizzata in compagnie cittadine e in compagnie provenienti dalle zone a ridosso delle mura e dal contado. La mobilitazione avveniva, salvo casi di estremo pericolo, a rotazione per permettere alla popolazione di compiere le ordinarie attività. I pedites si distinguevano poi in balestrieri, palvesari, arcieri, armati alla leggera ( detti anche “saccomanni” dalle fonti ed equipaggiati con elmo, scudo, lancia e spada ). Sempre nelle milizie cittadine si possono includere gli stipendiarii, mercenari cioè di lunga ferma con compiti di polizia, presidio e controllo del territorio74.

Una delle cause del conflitto senese-perugino, fu la necessità di Perugia di estendere il proprio territorio verso est. La sua sfera d’influenza nel 1357, risultò infatti notevolmente ridotta dall’agire del cardinale Egidio Albornoz, il quale, per volontà papale, riportò l’ordine nei domini della Chiesa mentre il Pontefice si trovava ad Avignone. Nella condizione economica di doversi espandere, i Raspanti, l’oligarchia mercantile dominante allora a Perugia, preferirono, tra due fuochi quali la Repubblica di Siena e lo Stato della Chiesa, scegliere il male minore cioè Siena. Tale città appariva alquanto indebolita dopo la rivolta dei nobili e del popolo minuto contro i Nove, i dissidi interni non le lasciavano respiro, il fiorire del commercio e l’espansione territoriale avevano subito un brusco e duraturo arresto, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo premeva sulla fazione filoimperiale, i ripetuti saccheggi delle compagnie mercenarie nel contado e la peste avevano arrecato gravi danni. A ciò va aggiunto il grave fardello che costituì il continuo ed insistente ribellarsi delle comunità a lei sottoposte, le quali, come Perugia, videro principalmente in questa instabilità di governo i presupposti per riconquistare la tanto aspirata autonomia. Massa, Grosseto, Montalcino, Casole, furono le prime, nel 1355 si aggiunse Montepulciano, che dopo aver assediato e demolito la rocca senese chiese la protezione di Perugia75. Poiché le due città erano alleate nella Lega Guelfa e poiché i rapporti erano sempre stati ottimi, Perugia tentennò inizialmente sul da farsi. La rottura definitiva però non tardò ad arrivare e con essa un ulteriore aggravamento per la situazione senese. Altre defezioni si aggiunsero: Sarteano e Chiusi chiesero anch’esse la protezione dei Perugini. Convinti pienamente che la caduta dei Nove stesse portando alla disgregazione della Repubblica di Siena, questi ultimi cessarono del tutto ogni pretesa sui domini riconquistati dalla Chiesa e si diressero verso occidente, verso la Val di Chiana. Ci volle però più di un anno affinché la tensione sfociasse in un vero conflitto76.

La palude della Chiana, confine naturale tra le due repubbliche, divenne il teatro degli scontri. Per accaparrarsi una buona “testa di ponte”, il governo dei Dodici, aprì le trattative con Bartolomeo Casali, signore di Cortona77. Da tale cittadina si riusciva a dominare la Val di Chiana e a interrompere i territori perugini a est di quest’ultima. Alla positiva conclusione del concordato, spinse non poco la sconfitta di Cortona ad opera di Perugia nel 1352 e il desiderio di liberarsi da tale giogo. A tal fine vi fu perciò, verso la fine dell’anno 1357, la promessa di Siena di un invio di 50-100 fanti e di una bandiera di cavalieri78. Per cogliere Cortona impreparata, i Perugini si mossero senza neppure la dichiarazione ufficiale di guerra; lì, avrebbero approfittato di alcune porte lasciate aperte da traditori cortonesi. Il 10 dicembre l’esercito perugino partì, l’11 fu avvistato a causa dei suoi incendi appiccati nel contado di Cortona e, nei medesimi giorni, il piano dei traditori fu sventato. Non persisi d’animo i Perugini si accamparono ad Ossaia da dove condurre l’assedio alla città ostile79.

Firenze, la quale già era stata garante della pace succeduta al conflitto avvenuto tra le due città nel 1353, fu chiamata in causa da entrambe, ma non prendendo alcuna precisa posizione spinse Perugia a preparare il campo per l’assedio; furono innalzate palizzate e ben 5 battifolli80. Mentre Ossaia diveniva un caposaldo militare, le campagne circostanti furono messe a ferro e a fuoco. Nonostante la sollecitudine senese nell’assoldare 400 fanti di inviare all’alleata, per alcune settimane non fu possibile prendere le postazioni del nemico. Fu allora che i Senesi si diressero minacciosi verso Chiusi e Sarteano, ma qui giunti l’impresa fallì e furono costretti a ritirarsi. In Cortona 200 mercenari a cavallo, a servizio di Siena e guidati dal capitano marchigiano Mainetto da Jesi, riuscirono ad entrare appena dopo circa 2 mesi81. Ciò comportò un allentamento della morsa perugina, ma non il suo ripiegamento, tanto che, nel marzo 1358, i Dodici si videro costretti, per poter passare all’offensiva, ad assoldare la compagnia capitanata dal tedesco Hanneken von Baumgarthen, noto nelle fonti come Anichino di Bongardo. L’armata comprendeva 800 uomini d’arme, 400 fanti, e numerosi mercenari ungari82; ad essa si aggiunsero balestrieri, cavalieri e pedites senesi, guidati dal conte Nolfo d’Urbino.

Essendosi intanto i Perugini appostati in prossimità dei ponti per attraversare la Chiana, le truppe di Anichino furono costrette a spingersi a sud, nella zona di Orvieto, dove un passaggio era possibile; le forze perugine ripiegarono allora verso l’accampamento di Ossaia. Da qui le truppe si ritirarono dopo aver bruciato le opere d’assedio costruite sulla Chiana e aver devastato la zona. Nel tragitto verso Ossaia, dove Anichino giunse il 30 marzo 1358, le milizie senesi distrussero il borgo fortificato di Piegaia e quello di Panicale. Sempre nello stesso giorno, Mainetto da Jesi spintosi a nord di Cortona con 200 dei suoi cavalieri si scontrò con le forze perugine e fu fatto prigioniero83. Nemmeno il dì successivo Anichino riuscì a bloccare il nemico diretto a Torrita. Rifornita Cortona, i Dodici si limitarono a presidiarla e a inviarvi un governatore Francesco Purghiani e altri ufficiali84; a controllare il territorio rimase soltanto Anichino, il quale si acquartierò a Torrita85.

Fu a questo punto che Firenze rientrò in scena come mediatrice per un accordo tra i due belligeranti; Siena si dichiarò favorevole, mentre Perugia, dopo esser venuta a conoscenza dell’invio di soldati fiorentini in Maremma per sostenere i Senesi nel proteggere le merci in arrivo da Talamone86, cacciò gli ambasciatori fiorentini dalla città con aperta intenzione di mantenere vive le ostilità.

L’esercito perugino fu rimesso in campo già dai primi di aprile, e in breve tempo raggiunse Gracciano dove si accampò a soli 7 km. da Torrita87. Qui Anichino disponeva di circa 1600 barbute e di una considerevole fanteria e forte di ciò, alla sfida dei Perugini, egli accettò senza consultarsi con gli altri capitani senesi, i quali sconfessarono le sua decisione volendo posticipare lo scontro di una settimana. I Perugini approfittando dell’indecisione dell’avversario, mossero all’attacco di Torrita88. L’esercito senese uscì quindi dalla fortezza frettolosamente, senza prestare attenzione allo schieramento e in assenza di Anichino e i suoi, poiché ancora molto risentito per quanto successo poco prima con gli ufficiali comunali. Intanto 40 “scorridori” senesi salirono una collina per meglio visionare la battaglia; notato ciò un centinaio di Ungari vi si piazzarono al di sopra della stessa altura e da lì attaccarono costringendo i Senesi a ripiegare verso la fortezza. Iniziò così uno scontro violento che riportò in campo il Bongardo spinto dalla svolta degli eventi; egli fu però catturato assieme a suoi 50 uomini d’arme e al marescalco senese89. Alla notizia dell’accaduto le truppe senesi, prese dal panico, si chiusero dentro le mura ipotizzando un possibile tradimento del capitano90. Tentando l’assalto al castello, i Perugini compresero che era un’impresa non facile; preferirono perciò ritirarsi fuori dalle mura di Torrita e ritornare a Gracciano soddisfatti dei prigionieri catturati e dei 49 stendardi strappati al nemico91. Nel frattempo, presi dal panico, molti cavalieri e fanti senesi disertarono; gli ufficiali senesi di fronte al dissolvimento dell’esercito chiesero aiuti al Comune. I Dodici scelsero allora la difensiva, lasciando le campagne in balia del nemico e ritirando le truppe nei borghi fortificati; nel frattempo intrapresero trattative coi signori di Milano per ingaggiare la Grande Compagnia stanziata in Lombardia92. Firenze, considerando pericolosa anche la situazione interna senese, inviò, in aiuto alla città, 100 barbute e 500 balestrieri.

Dopo aver fallito il tentativo d’impossessarsi di Arezzo93, e dopo aver invece preso facilmente la rocca di Castiglioncello, Perugia spinse all’offensiva il suo esercito, che per la maggior parte si trovava ancora stanziato nelle vicinanze di Torrita, S. Quirico, Buonconvento, per raggiungere le mura di Siena il 29 aprile. Riusciti persino a penetrare attraverso Porta di S. Martino (l’attuale Porta Romana) e catturati 150 prigionieri, i Perugini furono respinti dai Senesi accorsi in massa. Il giorno successivo, gli aggressori incendiarono Isola d’Arbia prima di rientrare nella loro città, esibendo orgogliosi alcune catene appartenute alle porte di Siena o alle forche di Pecorile, dove le condanne a morte, sentenziate dai magistrati senesi, venivano eseguite94.

Il facile ingresso in città del nemico, indusse molti Senesi a sospettare dei Dodici e di coloro che, con i Fiorentini, avevano trattato per arrivare alla conclusione del conflitto. Si giunse quasi alla rivolta popolare, il Capitano del Popolo fu costretto a chiedere asilo a Pisa, e il governo fu praticamente costretto nel proseguire la guerra95.

Cortona, intanto passò all’offensiva, attaccando le postazioni avversarie, saccheggiando e devastando il loro dominio, ottenendo un enorme bottino e catturando circa 200 prigionieri. In risposta i Perugini potenziarono le truppe a Ossaia intendendo riprendere l’assedio di Cortona96.


Ai primi di giugno del 1358, si conclusero le trattative per l’ingaggio della Grande Compagnia di Corrado di Landau, più noto in Italia come conte Lando; forte di 3500 cavalieri e di una numerosa fanteria, egli avrebbe devastato per oltre un mese il territorio perugino97. Per non attendere passivamente l’arrivo del Landau, il Comune senese decise, nonostante l’ulteriore peso finanziario, di passare subito all’attacco assoldando pure la nuova compagnia formata da Anichino di Bongardo all’indomani del suo rilascio su riscatto da lui stesso pagato.

Il piano strategico prevedeva di colpire il lato occidentale della Chiana, grazie ad Anichino e alle forze cittadine assieme, mentre la Grande Compagnia, sostenuta dalle forze cortonesi, si sarebbe occupata della zona tra la Chiana, il lago Trasimeno e Perugia. L’esercito senese, con a capo il romano Giovanni da Vico, in giugno occupò Abbadia, devastò la zona limitrofa di Montepulciano e proseguì per Monte S. Savino, roccaforte nemica. L’assedio, più difficile del previsto, portò alla decisione di attendere l’arrivo della Grande Compagnia che mai lì giunse, poiché al passo delle Scalelle (Val di Lamone) - in territorio fiorentino - questa subì un poderoso assalto da parte della gente del luogo che le costò la perdita di 300 uomini, 1.000 cavalli e 300 ronzini98. Tra i prigionieri catturati vi fu pure il conte Lando; ciò comportò la dispersione della compagnia e il fallimento del piano di attacco predisposto.

Non meglio andò per gli assedianti di Monte S. Savino, poiché i difensori della rocca riuscirono a respingerli. La colpa fu addossata al Bongardo, il quale nonostante fosse stato ferito, fu accusato di poca determinazione allo scopo di prolungare l’ingaggio. La tensione che si creò fu tale da far scoppiare una furiosa rissa in cui tutti - Senesi e mercenari - tutti furono coinvolti. A tal punto Anichino e i suoi abbandonarono il campo e le milizie cittadine dovettero di conseguenza interrompere l’assedio99.

La situazione di Perugia non si poteva sicuramente considerare migliore di quella senese; colpita da un gravissimo dissesto finanziario dovuto all’assoldamento continuo di mercenari e alle costanti devastazioni di questi nel suo contado100, non solo fu costretta per la seconda volta ad abbandonare l’assedio di Cortona, ma anche a subire le incursioni cortonesi nelle zone che erano soggette alla sua influenza.

Giunte allo stremo, entrambe le città belligeranti, alla fine dell’ottobre del 1358101, accettarono la mediazione di Firenze, conscia che gli avvenimenti si stavano ripercuotendo negativamente su tutta la regione. In particolare Firenze si sentiva minacciata dal riformarsi della Grande Compagnia del conte Lando in Romagna102, e dalla probabile nascita, come conseguenza di tale conflitto, di una nuova potenza che avrebbe ostacolato i suoi progetti egemonici. Nonostante le parti in causa compresero che essa agiva in modo interessato e doppiogiochista, si videro costrette a scendere a patti sfavorevoli, esasperate dalle loro condizioni economiche. Perugia, secondo gli accordi, avrebbe dovuto assolvere i banditi e i condannati per cause relative alla guerra, ritirarsi dal territorio cortonese e da quello di Montepulciano103. Siena invece, per cinque anni, avrebbe dovuto rinunciare a porre un suo Podestà a Montepulciano, ma avrebbe potuto intervenire a difesa di Cortona, se questa fosse rientrata in conflitto con Perugia104.

Verso il concludersi del mese di febbraio del 1359, vista l’inadempienza del trattato da parte di ambedue i contraenti, Firenze ordinò di ratificare entro 20 giorni il precedente accordo, ma i risultati furono ancora deludenti. I Priori decisero di accrescere notevolmente la pressione, minacciando entrambe le città di indirizzare nelle loro terre le scorrerie della Grande Compagnia del conte Lando. Nell’aprile del 1359 si giunse a un ulteriore concordato, al quale sembra aver pure partecipato il cardinale Albornoz, in veste di arbitro nella contesa su richiesta dei Perugini105. L’arbitrato si concluse in aprile proponendo contenuti non molto dissimili dal precedente e comportò la fine del conflitto, anche se la rinuncia perugina a Montepulciano avvenne solamente a metà luglio. In realtà fu l’aggravarsi della crisi finanziaria delle due città, prodotta dalla costante presenza della Grande Compagnia106 nei loro territori, tra la primavera e l’estate del 1359, a costringerle alla pace. All’unire le forze con Firenze per cacciare il nuovo nemico, entrambe preferirono pagare enormi somme pur di allontanarlo dai loro possedimenti107.

La conclusione del conflitto quindi, più che per le trattative, avvenne per l’impossibilità dei due belligeranti di proseguire la lotta a causa dell’impoverimento delle casse pubbliche108.



4. L’organizzazione e la struttura dell’esercito comunale

4.1. La milizia civica


Il possedere una milizia propria, indipendente da qualsiasi altro potere politico, fu per il Comune medievale, una delle sue caratteristiche delineanti. Elemento indispensabile per la difesa dai nemici esterni e per mantenere o ampliare la sfera d’influenza sul territorio assoggettato, essa probabilmente ebbe origine dal servizio di difesa delle mura, onere a carico dei cittadini già dalla tarda antichità109.

La milizia civica era costituita da contingenti di cittadini110 a piedi o a cavallo che svolgevano il servizio militare richiesto loro dagli statuti comunali. Tale servizio poteva essere parzialmente retribuito, come a Firenze e a Siena, e costituiva un obbligo a cui ogni cittadino maschio, dai 18 ai 60 anni, era tenuto. Daniel Waley – rifacendosi al Macchiavelli e al Guicciardini principalmente111 - vide in ciò l’ “elemento di un sopravvissuto repubblicanesimo” dell’età greca classica, nonché un crogiolo di patriottismo. Egli inoltre – sempre rifacendosi probabilmente al Macchiavelli112 - evidenziò il confronto ricorrente “declino del Comune - declino della milizia”, come agente catalizzatore del passaggio di potere dal Comune alla Signoria, il quale ebbe come principale propulsore il mercenariato113.

Nell’Italia comunale il concetto di cittadinanza infatti si avvicinava molto di più a quello dell’età repubblicana dell’antica Roma che non a quello contemporaneo. L’appartenenza alla civitas presupponeva che l’interesse personale dell’individuo coincidesse con quello della sua comunità e che il cives avesse, oltre al possedimento di immobili e ad una condizione economica agiata, la residenza in città. Tutto ciò comportava la partecipazione anche agli oneri della cittadinanza, vale a dire l’obbligo militare e il versamento di imposte114.

La disponibilità economica del cittadino dettava il suo ruolo nell’esercito; in cavalleria servivano soltanto coloro che potevano permettersi il costo del cavallo, il suo mantenimento e l’equipaggiamento necessario al cavaliere115, mentre in fanteria prestavano servizio i meno abbienti. Tale distinzione presupponeva sul campo di battaglia diversi livelli di responsabilità, di rischio, ma anche di possibilità di acquisire onore e bottino116. La cavalleria pesante difatti, conducendo l’attacco al nemico, rappresentava l’elemento risolutore dei conflitti; la fanteria invece, dovendo principalmente dar modo alla cavalleria di ricompattarsi per la successiva carica, rivestiva un’importanza minore, tranne per corpi specializzati quali i balestrieri e i palvesari117.

L’inquadramento militare avveniva, di solito, per compagnie formate su base topografica. Queste servivano a rotazione per brevi periodi, cosicché i cittadini potessero comunque dedicarsi alle loro famiglie e ai loro affari118. Per quanto riguarda l’equipaggiamento per il combattente della milizia civica, esso non differiva molto, sia per gli armati a piedi che a cavallo, da quello imperiale o reale, anche perché tali eserciti spesso lottavano fianco a fianco nelle leghe ghibelline o guelfe.

Punto di riferimento e di distinzione delle milizie civiche fu il carroccio. Simbolo della libertà comunale, esso veniva collocato in battaglia al centro dello schieramento; trainato da buoi, portava su un’asta terminante a croce, una campana detta martinella – che segnalava l’inizio della battaglia - la bandiera e il vessillo. Il carro ospitava i trombettieri, i quali annunciavano la marcia e le soste dell’esercito, gli officianti la messa e i feriti. Più che un valore funzionale esso aveva un valore simbolico: la presa del carroccio da parte del nemico era considerata un evento gravissimo. In tempo di pace, solitamente ogni Comune custodiva il suo carroccio nella cattedrale119.


A Siena, già dall’inizio del tredicesimo secolo, i cittadini atti alle armi, avrebbero dovuto fornire all’occorrenza 3.000 uomini, mille per ogni Terzo, in cui il Comune risultava essere suddiviso. Essi erano ripartiti in 17 compagnie, le quali corrispondevano topograficamente alle contrade della città. A capo di ogni Terzo vi era poi un gonfaloniere maestro e tre consiglieri, mentre ciascuna compagnia era guidata da un capitano, un gonfaloniere e tre consiglieri120. I miliziani dovevano prestare giuramento di fedeltà al loro diretto superiore, solitamente il Capitano di compagnia, e venivano descritti, in base a tale inquadramento, in due registri, di cui uno rimaneva a disposizione del capitano della compagnia interessata. Il gonfaloniere maestro poi soprassedeva alle compagnie rientranti nel suo Terzo, e assieme al capitano del medesimo rispondevano alle direttive dei Signori di Siena. Capitano generale delle compagnie era invece il Capitano del Popolo, il quale almeno una volta nel suo mandato le passava in rassegna allo scopo di assicurarsi che gli uomini fossero pronti in caso di aggressione esterna o di sollevazione interna121.
Ogni contrada ospitava il ridotto della sua compagnia, un luogo cioè in cui gli effettivi di quest’ultima potessero organizzarsi e custodire le loro armi, le quali venivano tratte fuori soltanto in occasione della difesa delle mura o dell’adunata dell’esercito122. Al suono della campana del Comune, le truppe, dopo essersi recate ai singoli ridotti di riferimento, ricevevano la destinazione di stanziamento dai loro superiori. Contemporaneamente un corpo selezionato dalle 17 compagnie del Popolo e composto dai cittadini più fedeli allo stato123, si dirigeva al Palazzo Pubblico per difendere i Signori124.Compito fondamentale delle compagnie fu quindi anche il mantenere l’ordine pubblico, ponendosi nel ruolo di braccio armato dell’esecutivo del governo125.

Alla caduta del governo ghibellino nel 1277, le compagnie furono abolite; ripristinate dal governo dei Nove nel 1289, esse cedettero progressivamente il loro ruolo nell’esercito senese alle conestabilerie di “venturieri”126. Fu il conflitto contro gli Aldobrandeschi del 1300-1301 però a segnarne la svolta: le milizie civiche furono quasi del tutto sostituite dai mercenari condotti dai primi Capitani della guerra ingaggiati dal Comune, mentre, in breve tempo, l’introduzione della “cavallata pecuniaria” spinse anche i cittadini a preferire la commutazione del servizio militare in versamenti di denaro sotto forma di multe e ammende127. La peste del 1348 e i suoi effetti devastanti, portarono l’ exercitus per tercerium ad essere più un ricordo che non una realtà. Verso la fine del periodo novesco, le truppe risultavano formate per più del 90% da mercenari, con una propensione per quelli a cavallo; unico reparto di fanteria cittadina ancora mantenuto costantemente a fianco dei “forestieri”, furono i balestrieri probabilmente in quanto altamente specializzati e indispensabili in battaglia128.


Per quanto riguarda l’organizzazione territoriale del contado, la sua suddivisione in vicariati risale alla prima metà del Duecento; furono però i Nove, all’inizio del Trecento, a risistemare l’assetto militare in modo da poter ottenere dalle comunità assoggettate almeno 5000 armati129. E’ bene ricordare che a tale inquadramento non rientravano le Masse , le Cortine, e le popolazioni sottoposte direttamente al Vescovado senese poiché considerate giuridicamente vicine ad una condizione di cittadinanza.

La super visione sui vicariati divenne compito dei Capitani del Popolo locali, mentre i singoli Podestà gestivano l’ordine pubblico interno130. Il Comune ovviamente richiedeva ai 5000 “cerniti”131 e ai loro superiori, la totale fedeltà politica, la suddivisione per circoscrizioni, in modo non dissimile quindi dall’inquadramento per compagnie urbane, e un equipaggiamento definito dagli statuti comunali132. Oltre al compenso ai singoli combattenti, le comunità intere godevano spesso, per meriti di onore e fedeltà dimostrati sul campo, di “scomputi”, esenzioni e sgravi fiscali.

Diversa regolamentazione vigeva invece per quei poteri territoriali non ancora completamente integrati; i proprietari di terre e i signori feudali, i quali rivendicavano all’interno del contado senese antichi possessi venivano legati alla città da patti includenti il loro contributo in armati133.

Anche nei vicariati, similmente a quanto successe alle milizie di città, dal terzo decennio del XIV secolo, si preferì assoldare truppe a proprie spese piuttosto che continuare ad inviare uomini134.

4.2. La conestabileria
Se dal XIII secolo, in Italia, sono i singoli mercenari ad essere ingaggiati di preferenza, dalla seconda metà dello stesso secolo, si preferisce invece rivolgersi ad un reclutatore per il loro assoldamento, il conestabile. Appare per la prima volta nel 1267 dalla documentazione senese, e da tale data, la sua presenza comunemente si espande nella penisola135. La conestabileria consiste quindi nel gruppo di armati contattati da questo organizzatore di truppe, spesso costituiti da barbute136.

Va però sottolineato l’uso ancora corrente, negli stessi anni, del termine “masnada” per indicare queste piccole unità di combattenti; esso è ben riscontrabile nel Libro di Montaperti (1260)137, nei libri contabili senesi e nella Divina Commedia di Dante , in cui Brunetto Latini si rivolge ai suoi compagni di sofferenze chiamandoli appunto “la mia masnada” (Inf., XV, 41)138.

Il termine conestabileria penetrò probabilmente in Italia attraverso la Francia, derivando da un’origine latina (comes stabuli) ereditata poi dalla lingua francese arcaica (conestable)139.
Il rivolgersi, da parte delle istituzioni, ai conestabili per l’assoldamento di truppe, doveva risultare, nella Toscana della seconda metà del XIII secolo, pratica usuale, poiché, come documentato per l’anno 1285 a Firenze, si eleggevano periodicamente commissioni di ufficiali allo scopo di ispezionare i mercenari, le loro armi e i loro cavalli140.

Ingaggiare per conestabilerie, sicuramente rendeva numerosi vantaggi; il reclutamento,

organizzato e diretto da un’unica persona, appariva meno complesso e più affidabile, gli armati servivano meglio e le loro possibilità di disertare si riducevano di molto.

Firenze infatti si dimostrò, in diverse occasioni, assai riluttante ad assoldare mercenari non soggetti a condottieri; sempre nel 1285, durante un consiglio comunale, si decise che si sarebbero assoldati solo mercenari disciplinati per conestabilerie. Nel 1293 invece si pattuì, attraverso il medesimo organo decisionale, che era obbligo d’ufficio imporre un conestabile ai cavalieri “non condotti”141.


Si può inoltre considerare il conestabile come il diretto predecessore del condottiere a capo delle grandi compagnie presenti in Italia dalla prima metà del ‘300. Nonostante il carattere di distinzione fra i due si sia spesso individuato nel diverso numero degli effettivi assoggettati, non risultano poi tanto anomali i casi di conestabilerie comprendenti ben un centinaio di subalterni: quantità di effettivi presentata anche dalla compagnia del provenzale Inghilese di Saint Rémy142.

Essendo fortunatamente sopravvissuta la registrazione della condotta cioè del contratto del 1277 fra Firenze e Inghilese, è possibile osservare che esso fu stipulato nella chiesa di S.Maria supra portam, che lo stipendio dei combattenti, suddivisi in due bandiere di 50 soldati l’una (più un trombettiere), era di 11 fiorini al mese, e che il capitano riceveva paga doppia. Una commissione poi composta da un ufficiale fiorentino, due cittadini e un rappresentante della compagnia, stimava i cavalli da guerra, quelli cioè capaci di sostenere un uomo d’arme equipaggiato pesantemente, allo scopo di poterli risarcire in caso di danneggiamento o di morte per mano del nemico. I mercenari erano pure obbligati, su richiesta, a sottoporsi a rassegna (“facere mostram de personis et armis”), e a consegnare i prigionieri catturati in battaglia alla città, la quale, se interessata li ripagava con 25 lire per cavaliere e con 10 per fante, altrimenti li rendeva al mittente lasciandogli libero arbitro sul da farsi. Se invece ad esser catturati erano i mercenari, Firenze si prodigava a scambiarli con prigionieri nemici.

La durata del contratto era di 4 mesi, il Comune ne anticipò i primi due, e gli stipendi venivano pagati 3 giorni dopo la fine del mese. Tutti gli assoldati erano giuridicamente soggetti alle leggi fiorentine143.
Prendendo invece in esame il Codice militare fiorentino del 1377, si scopre che gli Ufficiali della Condotta avevano completa autonomia nella gestione dell’ingaggio degli stipendiarii; vincoli imposti dalla signoria risultavano però il numero delle truppe da assoldare, non più di 1000 fanti e 800 cavalieri senza ulteriore approvazione dei governanti, il consenso dei Priori per assumere stranieri e l’obbligo di non ingaggiare cittadini sudditi del contado144.

Le squadre di armati stranieri poi, dovevano esser composte da almeno 20 cavalli con un conestabile o capitano a loro capo, e i contratti non potevano superare i 6 mesi di ferma.

Tutti gli stipendiarii erano obbligati a farsi passare in rassegna ogni 15 giorni nei luoghi convenuti e a far stimare e marcare i loro cavalli; le mancanze riscontrate dovevano venire annotate sul registro dei “difetti” ed equiparate in ritenzioni sul soldo. Se gli ufficiali preposti a ciò si lasciavano corrompere, venivano condannati come barattieri ed esclusi da ogni incarico comunale. Essi tenevano inoltre un libro dei cavalli mendati cioè risarciti, secondo la stima data loro in precedenza, in caso di morte o danneggiamento, e avevano ai loro ordini marescalchi, messi e spie. Un’ulteriore rassegna si aveva inoltre ogni 6 mesi in presenza degli Ufficiali della Condotta145.

Il conestabile poteva, con il consenso delle autorità comunali, cambiare i propri uomini e cavalli versando però una tassa a questi proporzionata; egli era obbligato a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, a non cospirare contro di essa, a denunciare, se ne fosse a conoscenza, le congiure, a difendere i Signori e il popolo da ogni pericolo, a non parteggiare per alcuna fazione cittadina e a presentare dei garanti, i quali non fossero stranieri (tranne per gli altri capitani al servizio di Firenze) o magnati della città e del contado, per l’osservanza dei patti.

I cavalieri e i loro superiori erano tenuti ad essere armati di “sproni, gamberuoli, cosciali, corazze con maniche di ferro, con soprasberga ovvero lamiera con corsetto e con maniche, gorgiera, guanti di ferro, bacinetto ovvero crestato con barbuta, o con elmo d’acciaio, scudo, lancia con pennoncello, spada e coltello”. I loro “cavalli d’arme” dovevano essere stimati almeno 25-30 fiorini, mentre quelli dei conestabili per un valore superiore ai 50 fiorini146.

Ad essi veniva richiesto di “cavalcare” secondo gli ordini impartiti dalla signoria o da chi per essa (Ufficiali della Condotta, Capitano generale della guerra, …), anche al di là della Toscana senza maggiorazione sullo stipendio; talvolta veniva loro richiesto pure di difendere luoghi e fortificazioni rimanendo lì stabilmente presenti.

In caso di battaglia, gli stipendiarii ricevevano paga doppia per un mese se risultavano vincitori su almeno 200 nemici, e il permesso di far bottino. Il Comune riscattava i prigionieri da loro catturati pagando 100 lire per fante e 200 per cavaliere o nobile. Castelli, fortezze, terre conquistate passavano in proprietà a Firenze, ma il mobilio interno agli immobili rientrava nel bottino.

I mercenari catturati non perdevano il soldo, se ancora in ingaggio, per i successivi due mesi; chi di loro risultava colpevole di tradimento o di baratterie veniva punito nella persona e nei beni con multe e perdita del soldo anche se vendeva, comperava, impegnava, o prendeva in pegno delle armi147.

Per quanto riguarda Siena, i Nove preferirono il reclutamento per conestabilerie in quanto sicuramente più affidabile, soprattutto nei conflitti interni i quali avrebbero potuto inglobare armati locali e comitatini non politicamente affidabili (ad esempio le guerre contro gli Aldobrandeschi del 1300 e del 1330). Ci furono comunque delle dinastie di conestabili provenienti dal contado, quali i conti di Sarteano, che riuscirono “a invadere le prerogative del Podestà e del Capitano del Popolo nel campo dell’ordine pubblico, dell’organizzazione militare, e nelle spedizioni belliche ai confini del contado”148.

Per comprendere pienamente alcuni fenomeni storici caratterizzanti la città di Siena, quali la crisi finanziaria del ’300 e la formazione dello Stato rinascimentale, risulta indispensabile l’analisi del nesso tra il sistema della condotta e gli apparati politici e finanziari del Comune. Tale collegamento appare fondamentalmente documentato dagli Statuti senesi del 1377, dai bilanci della Biccherna, dagli ordinamenti assembleari, dai registri dell’Ufficio della Condotta e dai provvedimenti dei Riveditori dell’anno 1361149. Prendendo, ad esempio, in considerazione i conteggi della Biccherna del primo semestre del 1362, si può concludere che il costo degli armati rappresentava la maggiore uscita delle casse comunali (30,4% del complessivo) e che il riscosso dagli Ufficiali di Gabella150 ne costituiva la principale entrata (56,6% del totale)151.


Dagli ordinamenti dei Riveditori dell’anno 1361 e seguenti, si riportano quindi tutte le seguenti informazioni allo scopo di avvalorare le precedenti considerazioni.

E’ importante subito rilevare, dalle provvisioni contenute in tali documenti, che l’entrata del vino era destinata principalmente al pagamento degli stipendiarii in modo da effettuare i versamenti nei tempi prestabiliti dagli accordi, evitando così, allora pratica abbastanza diffusa, di far incappare i mercenari nell’usura (v. “Come la cabella del vino ad minuto sia diputata per pagare e soldati et in che modo si debbono pagare”152).

Tutti gli uomini a cavallo, d’arme o scudieri, dovevano essere esperti nel cavalcare e nell’uso delle armi, e all’atto d’iscrizione venivano descritti per nomi e soprannomi, ma anche per quelle caratteristiche fisiche che li potevano denotare allo scopo di evitare gli scambi di persona (v. “Del modo di scrivare di nuovo e soldati et come si ricevano gli scambi”153).

Interessante risulta inoltre la normativa che regolava l’assegnazione delle cariche all’interno dell’Ufficio della Condotta; innanzitutto esse erano elettive, i Dodici eleggevano gli Ufficiali della Condotta i quali a loro volta eleggevano a camerlingo, in carica per sei mesi, uno dei tre candidati rappresentanti ognuno un Terzo di Siena, e a loro notaio uno di quelli già praticanti in Biccherna. L’ elezione del tesoriere avveniva per scrutinio in Consiglio Generale “a lupini bianchi et neri”154, dove quelli bianchi indicavano il giudizio favorevole (“La electione del camarlengo dela conducta” e “La electione del notaio de la conducta”155).

Alquanto ben definita risulta poi la normativa riguardo le rassegne; in essa si specifica il totale arbitrio dei Dodici e degli Ufficiali della Condotta nell’indire le mostre in qualunque momento (anche di notte) e in qualunque luogo (anche fuori del contado) e per quante volte reputassero necessario. Appare inoltre l’obbligo della presenza del camerlingo e del notaio, i quali dovevano, ognuno nel proprio libro registrare le “puntature et difecti” riscontrati nei soldati, nei cavalli e nelle armi, in modo da possedere una doppia registrazione. Nel caso in cui il camerlingo o il notaio fossero stati impossibilitati ad essere presenti alla rassegna, gli Ufficiali della Condotta potevano adibire a tale scopo un altro messo comunale di loro fiducia. Se un conestabile si rifiutava di presentarsi alla mostra, veniva condannato a 300 lire di multa e rimosso dall’incarico assieme alla sua bandiera; ad altre trattenute poteva incorrere se non presentava puntualmente all’appello la sua persona, il suo “banderaio”, i suoi soldati e le loro armi, il suo cavallo o il suo ronzino, e il suo personale equipaggiamento156. A loro volta anche il camerlingo e il notaio inadempienti al loro dovere risultavano soggetti a multe e condanne; ben dichiarato appare l’obbligo di questi a “tenere le mostre” almeno due volte il mese (v. “In che modo si faccia le mostre et le pene di chi non si presentasse”157). Chi incappava nelle “puntature et difecti” aveva la possibilità di dimostrare le proprie ragioni agli Ufficiali della Condotta entro 3 giorni dalla rassegna, se questa si era svolta in città, entro 10 se nel contado e a discrezione dei Dodici se fuori dal distretto di Siena. Le ragioni poste in difesa venivano poi trascritte sull’apposito registro delle mancanze degli assoldati (v. “In che modo si faccino la schuse et come s’acettino”158). Soggetto al pagamento per danno e vitupero al Comune di Siena risultava poi chi, durante le rassegne, fingeva di essere un’altra persona e chi da essa si faceva sostituire; se il sostituito era membro della cavalleria, il suo cavallo veniva confiscato dalle autorità. L’atto di accusa per scambio di persona poteva venire avanzato da chiunque; l’accusatore rimaneva anonimo ed aveva diritto a ¼ della condanna pecuniaria imposta all’accusato (v. “Di chi si muta il nome o per altrui risponde e la sua pena”159).

Passando successivamente ad analizzare la normativa riguardante la gestione dell’Ufficio della Condotta, si scopre che ogni Ufficiale aveva l’obbligo di rendere ragione delle cose fatte, le quali venivano successivamente sottoposte ad esame da 3 cittadini, uno per Terzo, eletti dai Dodici entro 8 giorni dalla fine del mandato degli Ufficiali interessati. La revisione andava poi stesa per iscritto e conseguentemente esposta in Consiglio Generale (v. “In che modo e Signori dela conducta et Camarlengo debbono rendare ragione del loro offitio”160).

Il camerlingo e gli Ufficiali della Condotta, non dovevano promettere denari o aumentare il soldo ai soldati di loro iniziativa; avevano l’obbligo invece di rendere visibili i loro libri ai Riveditori almeno una volta il mese. Le scorrettezze riscontrate venivano notificate al Podestà il quale condannava i rei al versamento di una multa pari a 100 fiorini ciascuno (v. “Che non si possa per lo Camarlengo promettare denari di soldati”161). I Signori della Condotta avevano il diritto di avere un messo alle loro dipendenze a patto che il suo stipendio non superasse le 5 lire mensili, le quali gli venivano versate dal camerlingo e dai Quattro Provveditori della Biccherna (v. “Che e conductieri abbiano un messo”162).

Il notaio era obbligato a registrare in un libro apposito, non più tardi di 3 giorni dopo la mostra, tutte le “puntature” riscontrate negli uomini, nei cavalli e nei ronzini; se la rassegna era avvenuta fuori città, egli aveva tempo 8 dì per l’annotazione. Ciò poiché al camerlingo della Biccherna, o chi per lui, era proibito registrare gli stipendi all’uscita prima che le “puntature” fossero state annotate; queste ultime potevano venire cancellate soltanto se almeno tre dei quattro Ufficiali della Condotta risultavano consenzienti. Tale registro delle “pontature et diffetti” era posto mensilmente a supervisione dei Riveditori a pena di 100 fiorini per ciascun Ufficiale in caso di mancata presentazione del documento (v. “Come si faccino le puntature; et che si scrivino in uno libro di per sé”163). Uno scritto indicante le “puntature” riscontrate, veniva successivamente consegnato al conestabile interessato, il quale aveva l’obbligo di presentare le proprie ragioni. Se egli risultava inadempiente, i Signori della Condotta procedevano alla condanna, la quale consisteva solitamente nel versamento di una somma non minore del doppio del suo soldo, proporzionata pure al periodo di inadempienza conteggiato dal secondo giorno successivo alla seguente mostra; tale sanzione doveva venire riportata dal camerlingo sul suo libro delle entrate e su quello delle “pontature et diffetti” (v. “Che el notaro dela conducta debba mandare per scripte le puntature a Conestabili et come si faccino le scuse”164).Gli Ufficiali della Condotta poi erano tenuti, a pena di 100 lire ciascuno, a passare in rassegna gli stipendiati presenti in città almeno 3 volte il mese (v. “Quante volte sono tenuti e Signori el mese fare la mostra”165).

Nuova disposizione, rispetto al passato, appare la costrizione manifestata agli ufficiali comunali di non assoldare mercenari dalla cavalcatura inidonea in attesa di un futuro miglioramento della stessa (v. “Che non si scriva al soldo per miglorare poi alcuno cavallo”166).

Alquanto interessante si dimostra la disposizione data al camerlingo di poter spendere in vino e in altre cose necessarie agli Ufficiali della Condotta, ben 25 lire nei suoi 6 mesi di incarico (v. “Che salaro e soldati debbono pagare al Camarlengo”167).

Sono presenti anche alcuni provvedimenti riguardo l’operato dei Riveditori; essi dovevano diligentemente visionare le registrazioni del Camerlengo ponendo particolare attenzione all’annotazione nelle entrate delle “puntature et diffetti” e delle penalità per scambio di animali e uomini. Le mancanze venivano poi notificate al Podestà, il quale costringeva i colpevoli al pagamento delle pene imposte che venivano appuntate alle entrate (v. “Che e Riveditori dele ragioni debbino cercare se el Camarlengo a messi a entrata tutti e denari dele puntature”168).

Pure il Podestà risultava soggetto alle “puntature”, espresse però da uno dei notai di Biccherna; la cancellazione di tale condanna era possibile solo nel caso in cui trovava consenzienti tutti e quattro gli Ufficiali della Biccherna. I Regolatori del Comune di Siena dovevano, almeno una volta al mese, visionare il libro a queste annotazioni deputato (v. “Che le puntature de Rectori si mettino in uno libro et che non s’accetti neuna scusa se non sono in concordia tutti e conductieri”169).

4.3. La compagnia di ventura
Tra i maggiori eventi che interessarono l’Italia del Trecento, ci fu sicuramente la costante attività bellica delle grandi compagnie di mercenari, assoldate dai diversi poteri che allora, nella penisola, si contrastavano. Soldati professionisti provenienti da tutta Europa, componevano quindi tali armate private disposte al più conveniente ingaggio. Essi avevano combattuto in Francia durante la Guerra dei Cento anni (1337-1453), in Spagna nel conflitto tra Pietro d’Aragona e Pietro di Castiglia (1360-1370), e in Germania nelle lotte dinastiche per la corona imperiale (conclusasi nel 1356 con la Bolla d’Oro di Carlo IV, la quale affidò l’elezione imperiale ai sette principi elettori); nei periodi di pace, invece, supplivano alla mancanza del soldo ricattando, devastando e saccheggiando città e campagne170.

Già dal XII secolo, grazie al benessere economico ed alla forte bellicosità dei poteri presenti in Italia, i mercenari presero parte individualmente ai conflitti locali, ma dalla metà del XIV secolo, essi si riversarono sulla penisola organizzati ormai in unità autonome soggette a un capitano eletto dai caporali a capo di queste, il condottiere171. Egli con le sue imprese, la sua presenza, il suo linguaggio, era indubbiamente il leader carismatico della compagnia. Oltre che per il soldo, i soldati a lui si sottomettevano per rispetto, virtù e autorità; era un legame di fedeltà, reminiscenza dei più antichi codici cavallereschi nonché del rapporto vassallatico. Non era un caso quindi che la maggior parte dei condottieri provenisse da famiglie nobili le quali avevano trasformato l’esercizio delle armi da prerogativa del loro ceto sociale ad attività professionale vera e propria172. Nobili e non nobili, vedevano nel servizio presso la compagnia, oltre alla possibilità di arricchirsi, quella di elevarsi socialmente. Esemplare in tal caso risulta l’esperienza di Roger de Flor, figlio di un cavaliere tedesco ma nato a Brindisi nella seconda metà del XIII secolo; fattosi Templare e presente alla difesa di San Giovanni d’Acri (1291), venne ritenuto indegno di appartenere all’ordine ed espulso. Grazie al denaro ottenuto al soldo di Venezia come corsaro sul mare, egli creò la Compagnia Catalana raggruppando i mercenari catalani e aragonesi smobilitati da Federico Hohenstaufen di Sicilia, dopo la pace contratta a Caltabellotta (1302). Ingaggiato dall’Imperatore d’Oriente, ottenne ricchezza e onore, grazie al titolo di “megaduca” e alla mano di una principessa offerti entrambi dal monarca stesso, ma pure la morte per mano di cospiratori173.


I condottieri di origine italiana spesso risultano essere stati banditi dalle loro città per aver sostenuto la fazione politica perdente ( Lodrisio Visconti).Alcuni di essi riuscirono persino ad acquisire il potere politico dei signori locali, come accadde per Facino Cane alla morte di Gian Galeazzo Visconti.

Intere famiglie, per diverse generazioni, si tramandarono il mestiere delle armi: dai Landau provennero Corrado (il conte Lando, morto nel 1363), il fratello Broccardo, i figli Corrado (m. 1403), Lucio ed Everardo Nel caso in cui l’arte del combattere non rientrasse nell’educazione familiare, l’apprendistato avveniva proprio al seguito di qualche condottiere o chi altro per lui: il già citato conte Lando ebbe in Fra Moriale il suo maestro174.

Lo stereotipo del condottiero inaffidabile, come d’altronde ogni mercenario, non corrispose sempre a verità. Vi furono infatti casi di rapporti di lavoro duraturi e basati sulla fiducia reciproca: Giovanni da Colonia, ad esempio, combatté continuativamente per Pisa per 37 anni.
Allo scopo di un’analisi dettagliata riguardo le compagnie di ventura risulta d’obbligo far riferimento allo studio di Del Treppo riguardo i libri contabili appartenenti alla compagnia di Micheletto degli Attendoli (1425-1449); anche se i documenti esaminati sono successivi di circa un secolo al periodo qui interessato, essi sicuramente, almeno in parte, riportano delle informazioni le quali si possono tenere in considerazione pure per le grandi compagnie trecentesche175.

Nel marzo 1425, Francesco di Viviano, lanaiolo d’Arezzo, si recò a Roma per servire Micheletto d’Attendolo in qualità di contabile della compagnia e rimase al suo fianco per ben 25 anni, sino al 1448, anno in cui la compagnia fu sciolta dopo la sconfitta subita da Francesco Sforza a Caravaggio. Fortunatamente Francesco ne conservò i libri contabili, i quali giunsero ai posteri grazie alla scoperta dello studioso Federico Melis176. Essi consistono nei “quaderni di spese minute” o “quaderni di cassa” (in cui sono scritti “per dare et havere alla veneziana ogni quantità di denari” spesi), nel “giornale” indicante le uscite destinate al soldo degli stipendiarii, nel “quadernuccio” riguardante i cavalli, nel “libro dei creditori”, nel “libro delle vendite” di panni ai soldati, nei “libri dell’entrata” e in quelli “dell’uscita” o “dei debitori” indicanti il denaro da versare a tutti i componenti della compagnia; “libri sommario” sono stati poi compilati da Francesco per sveltire la pratica contabile attraverso il “metodo del dare e dell’ avere sovrapposti o adiacenti”, al modo veneziano. Mancano probabilmente il “libro delle ricordanze”, per l’annotazione dei fatti più disparati, il ”libro dei segreti” e quello “della ragione”, registri entrambi riportanti gli atti costitutivi la società, i bilanci, le variazioni di capitale, etc. Da ciò si può dedurre che tale compagnia differiva pienamente da quella mercantile in quanto i “compagni” non rispondevano col proprio patrimonio, ma soltanto con la loro prestazione d’opera retribuita; non si trattava perciò di una società in nome collettivo sul tipo della compagnia mercantile177.

Gli stipendiarii erano i soggetti delle registrazioni d’uscita, relative al “dare”, per quanto riguardava il loro soldo o anticipazioni di esso; il condottiere pure vi rientrava per addebitamenti della sua casa178; quest’ultimo, o il suo tesoriere, poi risultava essere l’unico intestatario delle entrate. Confronti periodici avvenivano tra il “dare” e l’ ”avere” di ciascun soldato al fine di accertarne la situazione di credito o di debito rispetto alla compagnia e di annotarla su altri libri allo scopo predisposti; seguiva a ciò, il saldo, cioè la messa a punto dei conti la quale non presupponeva la fine del rapporto contrattuale179.

Al momento della stipulazione del contratto di condotta, il condottiero non si trovava già in possesso del numero degli effettivi per cui si era impegnato, solo allora iniziava il reclutamento. L’entrata in servizio avveniva in date diverse, iniziando solitamente da uno o due mesi dopo la stipulazione dell’ingaggio. Il condottiero convocava, per la maggior parte, uomini già assoldati in precedenza; i nuovi invece potevano essere inseriti anche a campagna inoltrata mediante la contrattazione e la successiva presentazione sul campo180. Generalmente i primi ambienti soggetti al reclutamento erano la parentela, la clientela urbana e la vassalità delle campagne. Agli stipendiati non armati esaurientemente, una anticipazione sul soldo veniva loro versata allo scopo di completare l’armamento richiesto181.


La compagnia era quindi un insieme variabile in relazione alle necessità imposte dalla committenza e dallo svolgimento degli eventi; nucleo di base risultava essere la casa del capitano costituita da elementi fissi quali “compagni d’arme”, famigli e inservienti. Lo “spenditore”, il “credenziere”, il cancelliere, il tesoriere e i segretari ( di solito giudici e notai di professione) rappresentavano la camera del condottiero, l’amministrazione della sua casa; essi lo seguivano sia in città durante i mesi invernali in cui le truppe erano “alle stanze”, sia sul campo di battaglia: erano i suoi strettissimi collaboratori. Dei vari incartamenti si occupavano particolarmente il cancelliere e i segretari, i quali formavano la cancelleria della compagnia, attiva pure negli accampamenti durante l’assetto di guerra. Ad essi si rivolgevano spesso anche i soldati, ai quali veniva praticata una trattenuta dallo stipendio per il servizio dato; tali funzionari si spartivano poi i “diritti di cancelleria”. In caso di impossibilità da parte del condottiero di presenziare agli incontri con le autorità statali, erano essi a occuparsene. I documenti uscenti dalla cancelleria venivano di regola tutti sottoscritti dal cancelliere e insigniti dal sigillo del capitano. Col tempo tesoreria e cancelleria finirono per configurarsi come organi permanenti stabilmente ubicati in una propria sede cittadina, completamente autonoma rispetto al comando militare182.
La compagnia era organizzata poi in lance, di tre uomini ciascuna, le quali a loro volta si suddividevano in squadre: probabilmente questi raggruppamenti si erano formati, attorno a un capo, precedentemente al loro ingaggio. In scala minore tali sezioni di armati ne riproducevano la struttura, proponendo al loro interno figure già individuate nel cuore stesso della compagnia ( il cancelliere, il caposquadra, i famigli …); in parte esse mantennero vita autonoma per quanto riguardava la gestione dell’organico e l’eredità del capo, la quale veniva spartita fra i soldati a lui sottoposti. Alle decisioni, di qualunque natura, prese dal condottiero nessuno poteva obbiettare, la sua era la massima autorità. I legami personali e le capacità del capitano risultavano essere gli unici elementi d’unione tra questi nuclei disomogenei.

La compagnia presupponeva una scansione di ruoli al suo interno, ma non una gerarchia nel vero senso del termine; capilancia, caporali, cavalieri percepivano degli stipendi leggermente diversi in relazione alle mansioni svolte, ma rimanevano comunque uomini d’arme degni dello stesso onore. Tra di loro esisteva pure un sistema di promozioni che apriva la possibilità di raggiungere, per gradi, persino il comando183.


Per essere ingaggiato in qualità di cavaliere stipendiato, oltre all’equipaggiamento, era indispensabile l’abilità nell’esercizio delle armi; si poteva però entrare nella compagnia come scudiero o famiglio, e acquisire l’addestramento necessario ponendosi al servizio di un veterano in materia. Divenne perciò pratica ricorrente il formare nuovi uomini d’arme, prescindendo da ogni distinzione sociale. Essa presupponeva una cerimonia d’iniziazione, la quale rendeva l’interessato un virtuoso grazie al volere di Dio e di S. Giorgio, ma soprattutto grazie alle armi e ai cavalli di cui veniva dotato dal condottiere; il costo di tale attrezzatura però veniva in breve detratto dal soldo spettante al nuovo arrivato184.
Analizzando la durata dei singoli ingaggi, la compagnia rivela un nucleo compatto e duraturo: pochi risultano coloro a cui non venne rinnovato il primo contratto, più numerosi quelli che ritornarono dopo un periodo di pausa. Di conseguenza l’età media dei combattenti doveva essere abbastanza alta: si è a conoscenza infatti di condottieri in attività sino all’età avanzata (secondo il Biondo, Micheletto degli Attendoli, al momento della disfatta di Caravaggio, avrebbe avuto intorno agli ottanta anni). Probabilmente si era in grado, grazie ad un’arte della guerra mirata a salvaguardare la vita, di contenere le perdite; non a caso in 25 anni di esistenza, la compagnia di Micheletto vide soltanto 25 morti, di cui 10 per cause estranee al combattere. A coloro che, per ragioni di salute, non erano più in grado di affrontare il nemico, si affidavano altre mansioni185.

Grave problema si poneva quello della diserzione dei soldati dovuta a disparate ragioni, quali un ingaggio più redditizio, la paura di affrontare il nemico o di esser fatti prigionieri e dover pagare il proprio riscatto, la promessa di una veloce carriera presso un’altra compagnia, etc186.


Nel XIV secolo in genere le grandi compagnie vennero assoldate per non più di uno o di due mesi, ma, nel tempo, le condotte richiesero tempi di ferma sempre maggiori evidenziando così la tendenza alla creazione di eserciti permanenti187. I loro ingaggi generarono enormi deficit nei bilanci pubblici; alla difficoltà di reperire il contante, il committente suppliva con surrogati quali vettovaglie di qualità ( confetti), stoffe, sale, gioielli, ma anche con esenzioni fiscali e privilegi. Tali problemi economici spinsero perciò le istituzioni pubbliche ad aggiornare e trasformare costantemente le strutture amministrative e finanziarie; è proprio in relazione a ciò che il Mallet considera la burocrazia della guerra quale elemento fondante della nascita dello stato moderno188.
Tra la fine del XIV e il volgere del XV secolo, in Italia, i nascenti Stati territoriali iniziarono a prediligere compagnie fidate da tenere in ingaggio sia in tempo di guerra che in quello di pace e sulle quali esercitare un totale controllo. Questa necessità, sentita anche al di fuori della penisola, è ben documentata dall’ordinanza del 1374 voluta da Carlo IV di Francia; di fronte allo sfascio creato da un’organizzazione militare lasciata in balia dei condottieri, il re riprese il controllo della situazione attraverso una serie di disposizioni che imposero alle compagnie, e ai loro capitani, la trasformazione in eserciti professionisti e permanenti189.
Anno di svolta per l’atteggiamento nei confronti delle compagnie mercenarie, risulta essere il 1365, in cui l’imperatore Carlo IV convinse il papa a promuovere, tra di esse, la guerra contro l’infedele turco. Facendo propria la posizione imperiale riguardo i musulmani, anche Urbano IV con la bolla da Avignone del 1366, minacciò di scomunica i mercenari che non agivano secondo un comportamento cristiano codificato dalla Santa sede, e coloro che di essi si servivano; egli garantì invece l’indulgenza plenaria a chi, contro i mercenari non ravveduti, avrebbe alzato la spada.

All’appello risposero le città e i signori più potenti d’Italia, ma in realtà nessuno di questi mai interruppe definitivamente i suoi rapporti con lo “straniero”: tale presenza sui campi di battaglia era ritenuta ancora indispensabile. Altri successori di Urbano IV riproposero negli anni invano la sua impresa; pure Caterina da Siena invitò, senza esito, Giovanni Acuto a impugnare la croce e a combattere l’infedele. I propositi col tempo si dispersero, il mercenariato continuò ad essere ingaggiato, la Santa Sede declinò e cadde nella “tentazione” diventandone assidua e serrata committente190.



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